Amore (e odio) materno
Nella madre vi è un conflitto tra il suo io e la sua responsabilità come perpetuatrice della specie. È in questo scontro che risiede il suo amore-odio per il figlio.
La retorica dei buoni sentimenti non ci consente di pensare (e di dire) che l’amore materno non è mai solo amore, e che ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore, e allora siamo a quei casi di infanticidio che non è possibile relegare nella casistica psichiatrica del raptus o della depressione, e là liquidarli nel perfetto stile della rimozione.
Il raptus non esiste. Come dice Paolo Crepet, il raptus è «fantapsicologia». Non si può, infatti, ipotizzare una vita che scorre normalmente e che normalmente continua a trascorrere dopo l’eccesso. I raptus sono comode invenzioni per tranquillizzare ciascuno di noi e tacitare il timore di essere anche noi dei potenziali omicidi. La depressione, invece esiste, ma di solito non porta all’omicidio, semmai porta al suicidio; e, comunque, non quando si è depressi, bensì quando si è in procinto di uscire dalla depressione, dato che quando si è depressi non si ha neanche la forza di alzarsi dal letto o dalla sedia.
Sgombriamo allora il campo da queste facili diagnosi e dalla retorica dei buoni sentimenti, che è una spessa coltre che stendiamo sull’ambivalenza della nostra anima, dove l’amore si incatena all’odio, il piacere al dolore, la benedizione alla maledizione, la luce del giorno al buio della notte, perché nel profondo tutte le cose sono intrecciate in un’invisibile disarmonia. E scrutare l’abisso che queste cose sottende è compito ormai trascurato dalla nostra cultura, che con troppa semplicità distingue il bene dal male, come se i due non si fossero mai incontrati e affratellati.
Con la possibilità di generare e di abortire, la donna sente dentro di sé, nel sottosuolo mai esplorato della sua coscienza, di essere depositaria di quello che l’umanità ha sempre identificato come “potere assoluto”: il potere di vita e di morte, che il maschio, anche se non coscientemente, ha sempre invidiato alla donna che genera, relegandola nel chiuso della casa o nel recinto della sua proprietà. Non trascuriamo questo fatto e non confiniamolo all’ambito della evoluzione antropologica. Non ci serve porlo ai limiti dell’umano, per procedere nella nostra rassicurante persuasione che per natura le madri amino i figli.
L’amore, che come sottolinea Norman Brown nel libro del 1959 La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, «è toglimento di morte (a-mors)», confina con la morte, e sottilissimo è il margine che vieta di oltrepassare il limite che fa di uno sguardo sereno uno sguardo tragico. Ce lo ricorda Euripide in Medea (vv. 89-92): «Tieni lontano il più possibile i figli, non lasciarli avvicinare alla madre. L’ho già vista mentre li guardava con occhio feroce, come se avesse in mente qualcosa».
Nella donna, infatti, che avverte il conflitto molto più marcatamente del maschio, si dibattono due soggettività antitetiche, poiché l’una vive a spese dell’altra: una soggettività che dice “Io”, della quale siamo perfettamente consapevoli, e una soggettività che potremmo chiamare inconscia, perché mai effettivamente portata alla coscienza, la quale fa sentire la donna “depositaria della Specie”.
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre. Per metterlo al mondo, infatti, la madre deve assistere alla deformazione del proprio corpo, al trauma della nascita (che non riguarda solo il nascituro), e, dopo averlo messo al mondo, la madre non può sottrarsi al sacrificio del proprio tempo, del proprio corpo, del proprio spazio, del proprio sonno, delle proprie relazioni, del proprio lavoro, della propria carriera, dei propri affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. È a questo punto che l’ambivalenza amore-odio, comune a tutte le madri che vivono nel proprio corpo il conflitto tra l’Io e la Specie, si potenzia e chiede una soluzione.
Questa ambivalenza del sentimento materno generato dalla doppia soggettività che è in ciascuno di noi, e che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, va riconosciuta e accettata come cosa naturale e non con il senso di colpa che può nascere dall’interpretare come incompiutezza o inautenticità del sentimento quella che è la sua naturale ambivalenza. Da Medea, che come vuole la tragedia di Euripide uccide i figli che ha generato, esercitando il potere di vita e di morte che ogni madre sente dentro di sé, a quelle madri di oggi che uccidono i figli da loro stesse nati, nulla è cambiato. Perché questa è la natura del sentimento materno e, piaccia o non piaccia, come tale va riconosciuto e accettato.
Capiamo allora perché non basta che i padri assistano al parto, come è costume nel nostro tempo; molto più utile assistere la madre dopo il parto, per creare quell’atmosfera di protezione che scalda il cuore e tiene separato l’amore dall’odio, in quell’incerto confine che tiene distinti un abbraccio che accoglie da un abbraccio che avvinghia e strozza. Le emozioni camminano infatti sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, giacché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele. Di qui l’invito ai padri a tutelare la maternità nella sua inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà. Questa tutela si chiama “accudimento”, per sottrarre le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 272 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui