Cervello e sonno: il lavoro della mente quando dormiamo
Recenti studi ci hanno fatto capire che il sonno e il sogno hanno un ruolo in alcuni processi cognitivi, quali l’apprendimento di nuove conoscenze e il consolidamento e l’integrazione delle nuove memorie
«Nam qui dormiunt libenter, sine lucro et cum malo quiescunt» (Infatti coloro che volentieri dormono, riposano senza alcun profitto e a loro discapito) scriveva il commediografo latino Plauto, in Rudens (La gomena), composta tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. Da questa frase deriva il famoso proverbio “Chi dorme non piglia pesci”, citato per indicare che il dormire (o comunque il permanere in una condizione di riposo o di inattività) non porta alcun guadagno.
Diversamente, oggi, la ricerca scientifica ci dice che il sonno è molto importante non solo per il nostro corpo, ma anche per la nostra mente (per una trattazione approfondita, si veda Ficca, Fabbri, 2019): ciascuno di noi trascorre circa un terzo della propria vita dormendo e questo tempo non è affatto perso.
Sono passati diversi secoli da quando Aristotele descriveva il sonno come un fenomeno passivo e ne attribuiva l’inizio a fattori esterni (i vapori generati dalla digestione del cibo, la cessazione degli stimoli ambientali ecc.). Attualmente, sappiamo invece (anche grazie all’uso di tecniche e apparecchiature elettrofisiologiche sempre più sofisticate) che il sonno è un processo fisiologico complesso, che ha inizio e si mantiene grazie all’attivazione di determinate aree cerebrali e alla produzione di specifiche sostanze chimiche.
Una delle scoperte più importanti che gli scienziati hanno realizzato intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso riguarda il fatto che il sonno non è un fenomeno omogeneo, ma è suddiviso in stati e stadi diversi. In particolare, attraverso l’analisi dell’attività cerebrale, i ricercatori hanno identificato due tipi di sonno, il sonno REM (Rapid Eye Movements) e il sonno NREM (Non REM), il quale a sua volta si differenzia in tre stadi in base alle caratteristiche dell’attività cerebrale. In particolare, all’interno del sonno NREM distinguiamo una porzione di sonno più leggero (stadi N1 e N2) e una porzione di sonno più profondo (stadio N3), in cui il nostro corpo e il nostro cervello recuperano dalle “fatiche” della veglia. Ma il tipo di sonno che inizialmente ha suscitato maggiore interesse nei ricercatori è sicuramente il sonno REM, chiamato così per la presenza di movimenti oculari rapidi, e che presenta particolari caratteristiche, quali la quasi totale perdita di tono nei muscoli antigravitazionari (i muscoli che ci permettono di mantenere la posizione eretta), importanti cambiamenti nelle funzioni vegetative (per esempio, irregolarità cardiache e respiratorie) e un’attività cerebrale caratterizzata da elevata frequenza e bassa ampiezza delle onde elettriche cerebrali simile a quella che osserviamo in veglia. In altri termini il corpo dorme, ma il cervello rimane attivo!
Il sonno NREM e il sonno REM si alternano in modo regolare durante l’episodio di sonno organizzandosi in cicli, ossia sequenze di sonno NREM-REM che si ripetono nel tempo, a cui sono legate importanti attività biologiche (per esempio, processi anabolici e di sintesi proteica) e cognitive (per esempio, il consolidamento e la riorganizzazione delle tracce di memorie che si sono create durante la veglia).
Gli scienziati solitamente rappresentano l’episodio di sonno attraverso un grafico che offre informazioni non solo sulla successione nel tempo dei diversi stati di sonno, ma anche sulla sua architettura interna. L’ipnogramma rappresentato nella figura qui sotto mostra che il sonno più profondo (stadio N3), essenziale, come abbiamo detto, per il recupero sia fisico sia mentale, prevale nella prima parte dell’episodio, mentre il sonno REM e gli stadi più leggeri del sonno prevalgono nella seconda parte. Questa struttura si traduce anche in una diversa reattività agli stimoli ambientali durante il sonno e, in particolare, in una maggiore difficoltà a essere svegliati da stimoli esterni nella prime ore del sonno rispetto alle ultime. Infatti, mentre dormiamo non siamo completamente disconnessi dall’ambiente esterno, poiché stimoli sufficientemente intensi o rilevanti possono essere elaborati dal nostro cervello o addirittura svegliarci, sebbene questo accada in misura maggiore in certi momenti del sonno rispetto ad altri. In particolare, durante il sonno REM il nostro cervello risponde a eventuali stimoli sensoriali come se fosse sveglio. È proprio la cornice di attivazione fisiologica e neurovegetativa che caratterizza il sonno REM ad aver attirato l’attenzione dei ricercatori con l’ipotesi che durante questo tipo di sonno fossero prodotti i nostri sogni e fossero consolidati gli apprendimenti della veglia.
Rappresentazione grafica (ipnogramma) di una notte di sonno di un giovane adulto. W=veglia; REM= sonno REM; N1= stadio 1 del sonno NREM; N2= stadio 2 del sonno NREM; N3= stadio 3 del sonno NREM.
Gli scienziati hanno iniziato a studiare il sogno in laboratorio, svegliando in momenti diversi della notte giovani studenti e chiedendo se e cosa avevano sognato prima di essere svegliati. I primi risultati sembrarono mostrare che i sogni fossero prodotti solo durante la fase REM (informazione errata che ancora oggi si trova su alcuni libri e riviste non specialistiche), ma studi successivi dimostrarono, al contrario, che la presenza di attività mentale durante il sonno è pressoché continua, e la differenza fra i resoconti di sogni che si raccolgono dopo risvegli in fase REM o in fase NREM è soprattutto qualitativa. In particolare i sogni più bizzarri, più vividi, con un maggiore coinvolgimento emotivo e che si ricordano in maggior misura, sono quelli che si verificano soprattutto in sonno REM, mentre i sogni che assomigliano a una forma di pensiero più astratto simile a quella che abbiamo quando siamo svegli, sono quelli che si verificano generalmente in sonno NREM.
Agli psicofisiologi che iniziarono a studiare il sogno in laboratorio non interessava sapere quali significati nascosti si celassero dietro i sogni (lasciavano questa indagine agli psicoanalisti), ma piuttosto quali fossero i processi cognitivi coinvolti nella produzione di un sogno e se i sogni potessero svolgere un ruolo per il funzionamento della nostra mente. Infatti, sebbene le stranezze che spesso caratterizzano i nostri sogni siano state interpretate come la conseguenza di un basso livello di funzionamento dei processi cognitivi che in veglia elaborano e organizzano in modo coerente e plausibile le informazioni, la nostra attività onirica è comunque espressione di un cervello che continua a lavorare anche mentre dormiamo. Volendo sintetizzare i principali risultati dei numerosi studi che sono stati svolti a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso (Cipolli et al., 2017) possiamo dire che la produzione dei sogni è strettamente legata ai processi di memoria e che il ricordo del sogno al risveglio è modulato da vari fattori legati, per esempio, alla salienza del sogno, al contesto in cui dormiamo (a casa o in laboratorio), alle attività svolte subito dopo il risveglio, che possono interferire sul ricordo, al tipo di risveglio (brusco o graduale) e al tipo di sonno da cui ci svegliamo. Non esistono persone che non sognano mai, ma esistono invece differenze sia intra- sia inter-individuali rispetto alla frequenza con cui si ricordano i sogni, legate anche a quanto un individuo sia motivato a ricordarli.
Quali sono gli input che generano i nostri sogni? Già Freud aveva osservato che alcuni contenuti onirici possono essere ricondotti a ricordi e conoscenze che il soggetto da sveglio è ignaro di possedere. Anche oggi gli psicofisiologi ritengono che l’origine dei contenuti onirici possa risiedere nella riattivazione, durante il sonno, di tracce di memoria relative sia a eventi recenti o passati sia a conoscenze generali e astratte o anche a comportamenti o memorie autobiografiche del soggetto. Queste memorie costituiscono il materiale iniziale utilizzato dal cervello per costruire la trama del sogno sul quale poi si attivano processi, al di fuori della consapevolezza del soggetto, che operano una selezione e una prima organizzazione in una trama narrativa. Ci sarebbe quindi una continuità tra la vita psicologica diurna e quella notturna (sleep continuity hypothesis) che permetterebbe al sonno di avere anche un effetto positivo sulla regolazione delle nostre emozioni e sulla soluzione di problemi rimasti irrisolti durante la veglia. Inoltre, sempre seguendo un approccio cognitivista, un’altra importante funzione svolta dai sogni sarebbe quella di facilitare il consolidamento delle informazioni acquisite in veglia. A tal riguardo diversi studi hanno evidenziato che i soggetti che incorporavano nel contenuto dei loro sogni elementi relativi ad apprendimenti che si erano realizzati in veglia (per esempio l’apprendimento di una lingua straniera o di un nuovo videogioco) avevano prestazioni migliori rispetto a coloro che non riportavano tali elementi nella loro produzione onirica. Rispetto alla relazione fra sonno e memoria, è importante ricordare che, a partire dalla prima metà del secolo scorso, numerosi studi hanno mostrato che il sonno – nel suo complesso, e non solo in relazione alla produzione onirica – ha un effetto positivo sul consolidamento delle memorie acquisite durante la veglia (per una rassegna sull’argomento si veda Conte, Ficca, 2013).
In particolare, i primi studi svolti intorno agli anni Venti del secolo scorso evidenziarono che l’apprendimento di sillabe senza senso era migliore dopo un episodio di sonno rispetto a un intervallo temporale di uguale durata trascorso in veglia. Questo effetto, definito nella letteratura scientifica con il termine di “sleep effect”, fu inizialmente attribuito alla ridotta quantità di interferenze durante il sonno dovuta a una riduzione delle afferenze sensoriali. Tuttavia, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, in base ai risultati di altri studi, fu ipotizzato che il nostro cervello svolgesse attivamente, durante il sonno, delle operazioni volte a stabilizzare le tracce di memoria. Ricerche successive ipotizzarono poi un ruolo specifico del sonno NREM per il consolidamento di memorie dichiarative (che si riferiscono al ricordo delle conoscenze generali sul mondo e sul linguaggio, la cosiddetta “memoria semantica”, e degli eventi che hanno una specifica connotazione spazio-temporale, la “memoria episodica”) e del sonno REM per il consolidamento di memorie procedurali (che si riferiscono all’acquisizione graduale di abilità quale risultato della pratica nel fare le cose). Un’ipotesi alternativa è stata proposta dai cosiddetti “modelli sequenziali”, in cui si ritiene determinante per il verificarsi dello “sleep effect” la cooperazione dei due tipi di sonno e in particolare il ciclo NREM-REM.
A livello neurobiologico il consolidamento della memoria durante il sonno sarebbe possibile grazie a una “potatura sinaptica” che avrebbe luogo durante il sonno. Nello specifico, mentre dormiamo il nostro cervello eliminerebbe le informazioni più inutili e irrilevanti, e renderebbe più solide, e quindi durature, quelle più importanti, attraverso un meccanismo di depotenziamento/potenziamento sinaptico. Secondo altri autori il consolidamento delle informazioni sarebbe dovuto a una riattivazione, durante il sonno, degli stessi pattern neurali che si sono attivati durante gli apprendimenti nel corso della veglia e l’incorporazione nel contenuto dei sogni di elementi relativi ad apprendimenti diurni, precedentemente descritta, potrebbe esserne una prova. In particolare, alla base di questo processo vi sarebbe, durante il sonno, uno scambio di informazioni tra l’ippocampo (una struttura coinvolta nella formazione e nella conservazione dei ricordi) e la neocorteccia che favorirebbe il cosiddetto “potenziamento a lungo termine” (l’aumento della forza della trasmissione neurale derivante dal rafforzamento delle connessioni sinaptiche) e che permetterebbe la trasformazione di apprendimenti inizialmente deboli in acquisizioni stabili e durature. In quest’ottica non sarebbe un solo tipo di sonno ad essere implicato nel consolidamento di un certo tipo memoria, come si era inizialmente creduto, bensì l’intero episodio di sonno e, in particolare, la cooperazione ciclica dei due stati di sonno NREM e REM. In linea con questa ipotesi, alcuni studi svolti nel Laboratorio del sonno dell’Università degli Studi di Firenze mostrano che la disorganizzazione dei cicli di sonno porta a un peggioramento del ricordo di apprendimenti di tipo dichiarativo sia nell’anziano sia nel giovane adulto.
La funzione che svolge il sonno per la memoria non è limitata solo a rendere più stabili e durature le informazioni acquisite in veglia, bensì anche a integrarle con informazioni pre-esistenti o addirittura a crearne di nuove. Pensiamo, per esempio, ai racconti aneddotici che attribuiscono all’effetto positivo del sonno (e dei sogni) la scoperta della formula del benzene o della tavola periodica degli elementi. Inoltre, recenti studi sperimentali svolti dal nostro gruppo di ricerca in collaborazione con il dipartimento di Psicologia dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” mostrano che la rielaborazione delle tracce mnestiche dei nostri apprendimenti diurni – che si verifica durante il sonno – aumenta la qualità e la continuità del sonno stesso (Arzilli et al., 2019; Cerasuolo et al., 2019). In particolare, è stato osservato che svolgere, prima di dormire, un allenamento intensivo, che richiede l’attivazione simultanea di numerose funzioni cognitive, a un gioco sul cellulare (una versione modificata del gioco Ruzzle) porta ad avere un sonno più efficiente, meno frammentato e con una migliore organizzazione interna. Questi risultati possono rivelarsi molto utili non solo sul piano teorico, ma anche sul versante applicativo, in quanto suggeriscono che la pianificazione di training cognitivi prima del sonno potrebbe costituire un valido aiuto nel trattamento non farmacologico di alcuni disturbi del sonno.
Quanto fin qui riportato dimostra dunque che, diversamente da quanto pensavano gli Antichi, il dormire non è affatto un perdita di tempo, bensì un periodo importante della giornata in cui il nostro cervello continua ad essere impegnato in una laboriosa attività di cui i nostri sogni potrebbero essere un rilevante correlato psichico.
Fiorenza Giganti è professore associato di Psicologia generale e responsabile del Laboratorio di Ricerca sul Sonno presso il dipartimento di Neuroscienze, Psicologia, Area del farmaco e Salute del bambino dell’Università di Firenze. È stata membro del direttivo della Società Italiana di Ricerca sul Sonno.
Bibliografia
Arzilli C., Cerasuolo M., Conte F., Bittoni V., Gatteschi C., Albinni B., Giganti F., Ficca G. (2019), «The effect of cognitive activity on sleep maintenance in a subsequent daytime nap», Behavioral Sleep Medicine, 17, 552-560.
Cerasuolo M., Conte F., Cellini N., Fusco G., Giganti F., Malloggi S., Ficca G. (2019), «The effect of complex cognitive training on subsequent night sleep», Journal of Sleep Research, 29 (6), e12929.
Cipolli C., Ferrara M., De Gennaro L., Plazzi G. (2017), «Beyond the neuropsychology of dreaming: Insights into the neural basis of dreaming with new techniques of sleep recording and analysis», Sleep Medicine Reviews, 35, 8-20.
Conte F., Ficca G. (2013), «Caveats on psychological models of sleep and memory: A compass in an overgrown scenario», Sleep Medicine Reviews, 17, 105-121.
Ficca G., Fabbri M. (2019), Psicologia del sonno, Edizioni Maggioli, Rimini.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 286 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui