CINEMA: L'ufficiale e la spia
In un’Europa percorsa da risorgenti forme di intolleranza, l’acclamata versione cinematografica dell’affaire Dreyfus firmata da Roman Polanski. La recensione del film "L'ufficiale e la spia", a cura di Roberto Escobar.
Siamo nel 1906. Dopo dodici anni, Alfred Dreyfus (Louis Garrel) è stato assolto. Non ha passato lui informazioni militari alla Germania. Ora è di fronte a Georges Picquart (Jean Dujardin), ministro della guerra e fino a poche settimane prima difensore in pubblico della sua innocenza. A lui chiede ancora giustizia: gli sia riconosciuto il grado che gli spetterebbe se per cinque anni l’Armée, l’esercito di Francia, non lo avesse espulso dai ranghi degli ufficiali.
Picquart è drastico. Occorrerebbe una legge specifica, e il Parlamento non la voterebbe. Il motivo è lo stesso che ha indotto i giudici a condannarlo per tradimento. Nel 1906 come nel 1894, la colpa di Dreyfus è di essere ebreo. Così finisce L’ufficiale e la spia (Francia e Italia, 2019, 126’).
In un’Europa percorsa di nuovo da numerose forme di intolleranza, Roman Polanski sceglie di raccontare lo scandalo che trent’anni prima della grande guerra oppose francesi a francesi. Il titolo originale del suo film è J’accuse, come la lettera che il 13 gennaio 1898 Émile Zola indirizza dalla prima pagina di «L’Aurore» a Félix Faure, presidente della Repubblica (il giorno dopo, il giornale socialista pubblica i nomi di scrittori, scienziati, professionisti e accademici che prendono le parti del capitano Dreyfus, dando inizio di fatto all’engagement novecentesco degli intellettuali). Dopo la condanna del 22 dicembre 1894, il “traditore ebreo” è stato deportato sull’Île du Diable, al largo della Guyana. Da là torna nel 1899 per essere di nuovo processato, condannato e subito graziato. Nel 1906 è riabilitato, ma in Francia continuerà la campagna d’odio contro di lui, e contro la memoria dell’“italiano” Zola, morto nel 1902.
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