Contro il logorio della vita moderna
Conoscere e difendersi dallo stress nei contesti di lavoro
Non è corretto parlare di stress in un’accezione solo negativa: accanto al distress – lo stress cattivo – c’è infatti anche l’eustress – o stress buono. È solo contro il primo che organizzazione e lavoratore devono combattere insieme.
Viviamo in un mondo difficile e tutta questa difficoltà ha spesso un luogo elettivo per manifestarsi: il lavoro. Sarà per questo che in Rete sono facilmente reperibili dati più che allarmanti: oltre la metà dei lavoratori europei considera “normale” lo stress sul lavoro e, ancora, dati dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro stimano che circa la metà delle giornate lavorative perse sia in qualche modo provocata dallo stress.
Stiamo quindi parlando di un fenomeno imponente, sia in termini di percezione diffusa sia per quanto riguarda le sue conseguenze in termini di costi (mancata produttività e aumentata necessità di cura).
Un fenomeno imponente, ma per certi versi anche normale, se è vero che l’unico modo per non essere stressati è essere morti – ed è senz’altro vero, visto che lo stress è definibile come una “sindrome” generale di adattamento nei confronti di stimoli ambientali con cui si viene in contatto (Selye, 1936).
La vita stessa, dunque, è fonte di stress, ma non tutti viviamo quest’ultimo allo stesso modo. E si tratta di un punto importante, uno dei motivi peraltro per i quali lo stress è un fenomeno che, pur essendo pericolosamente insidioso, viene sottovalutato di frequente.
Quello che comunemente chiamiamo stress è in effetti la conseguenza più o meno patologica del distress, o stress “cattivo”. Possiamo infatti riconoscere due diverse accezioni del fenomeno: il distress e l’eustress, o stress “buono”; quindi, non è tanto lo stress ad essere di per sé patologico o patogenico, quanto il vissuto che ne abbiamo e le risorse di cui disponiamo per fronteggiarlo.
Immaginate di essere un atleta che di lì a poco dovrà impegnarsi in un’importante competizione, oppure un manager cui sono stati affidati obiettivi difficili e sfidanti.
È assai probabile che entrambe siano persone che avvertono un forte stress, ma questa condizione non è di per sé negativa, anzi in qualche misura è funzionale al compito da svolgere. Potremmo dire che si tratta di una condizione di attivazione utile a mobilitare le energie e le risorse che serviranno a ottenere la migliore performance possibile.
Quando, allora, tale attivazione diventa nociva? Quando lo stress diventa distress e può degenerare in senso patologico? Una prima risposta è che la questione sta non tanto sul livello della “domanda” che ci proviene dall’ambiente, quanto sulla nostra capacità di rispondervi in modo efficace.
Il distress subentra quando la domanda è avvertita come eccessiva, in termini sia quantitativi che qualitativi, oppure quando le risorse di cui disponiamo sono insufficienti.
Questa è una lettura molto convincente. Di fronte ai diversi stimoli provenienti dall’ambiente, l’individuo innanzitutto si pone la questione del proprio coinvolgimento: se la risposta è positiva, lo stimolo diventa uno stressor e solo a questo punto nasce il problema della sua gestione. La domanda soggettiva diviene così relativa al “potere”: “Posso farcela?” si chiede la persona e, a seconda della risposta che si dà, questo normale processo di relazione con l’ambiente prende una direzione piuttosto che un’altra.
Lo stress lavorativo in una prospettiva soggettiva
È dunque evidente che il fenomeno stress porti con sé una fortissima, decisiva dimensione di soggettività, presente sia a livello di senso e di motivazione – quanto mi “interessa”, mi “riguarda” lo stimolo – sia a livello di risorse possedute e percepite. Per questo l’American Psychological Association, che rappresenta, almeno a livello numerico, la più grande comunità professionale di psicologi al mondo, parla di un «sentimento di impotenza» come della causa dello stress sul lavoro.
Impotenza che – almeno in quest’accezione – significa il “non potercela fare”. Seguendo tale prospettiva, lo stress si colloca in modo opposto all’empowerment delle persone, che è invece inteso come il «sentimento di potere» (Bruscaglioni e Gheno, 2000), e la relazione inversa tra empowerment e stress appare assai evidente in prospettiva sia clinica che sperimentale.
Chi si occupa di stress lavorativo conosce molto bene quella sensazione di non essere in grado di raccogliere positivamente la sfida a cui l’azienda, i capi, gli stessi colleghi ci mettono di fronte. Così, un po’ alla volta, spesso senza accorgersene se non quando è tardi, le persone passano da una condizione di stimolo a una di ansia crescente, che cronicizzandosi porta con sé una gamma amplissima di patologie psichiche e fisiche.
In tempi relativamente recenti, la stessa norma che governa la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro ha iniziato a considerare esplicitamente lo stress tra i rischi per la sicurezza. È del 2008 il D.Lgs. 81, che superando – anche in virtù di un accordo europeo – il precedente D.Lgs. 626/1994, indica tra le responsabilità dell’organizzazione (e del datore di lavoro) pure la promozione del benessere dei propri impiegati.
Questione interessante, quest’ultima: pensando allo stress in termini di malessere, tendiamo a considerarlo come un estremo opposto al benessere. In altre parole, se c’è stress non ci può essere benessere. Ma è davvero così? Bisogna ricordare che quando hanno iniziato ad affermarsi i primi studi importanti sullo stress lavorativo si lavorava in contesti organizzativi ben definiti, caratterizzati da meccanismi chiari e modificabili. In un simile contesto intervenire sullo stress significava innanzitutto eliminare o quantomeno ridurre gli stressor – ma se ciò non fosse possibile? Se ci trovassimo a lavorare in un contesto “intrinsecamente” stressante? Cosa dovremmo fare a questo punto, smettere di lavorare?
Le domande poste sono tutt’altro che accademiche. Le organizzazioni di lavoro oggi sono ambienti sempre più mutevoli, liquidi; ambienti in cui la domanda cambia di continuo e che di conseguenza richiedono un processo di adattamento continuo ai lavoratori.
L’impressione è che ad essere stressante, oggi, sia il lavorare in sé. Inevitabilmente, quindi, l’attenzione si sposta dagli stressor alle risorse; lo stress, infatti, si manifesta quando le richieste dell’ambiente di lavoro superano le capacità del lavoratore di affrontarle (o controllarle). Il punto sta proprio qui: di quali capacità stiamo parlando? Oggi sempre più di frequente si richiede ai lavoratori di sviluppare competenze sempre maggiori in tempi sempre più rapidi, pena una dequalificazione progressivamente più spinta; e non è strano che tutto ciò produca uno stress che non può essere affrontato semplicemente riducendo le richieste. Pertanto, quale opzione rimane? Quella di rafforzare le risorse.
Reagire allo stress lavorativo tra coping e resilienza
Questo ci porta ad affrontare un’ulteriore questione, relativa appunto a una buona gestione dello stress lavorativo: come possiamo affrontare, come possiamo reagire positivamente allo stress? Probabilmente la prima cosa che ci viene in mente, per rispondere alla domanda, è: “eliminando le fonti di stress”. Come abbiamo visto, però, spesso ciò non è possibile, o comunque non è semplice, specialmente nell’ambiente di lavoro.
Inoltre, anche se fosse possibile, non è detto che sarebbe auspicabile. Molte volte, di fronte a pressioni che ci arrivano dal nostro ambiente sociale (non necessariamente lavorativo, ma più in generale dalle relazioni intrattenute nella nostra quotidianità) nasce la tentazione di sfilarsi, di “tirare i remi in barca”, di isolarsi. È comprensibile, ma non dobbiamo dimenticare che noi siamo soggetti intrinsecamente in relazione con il nostro ambiente, abbiamo bisogno di relazionarci con il nostro ambiente, è necessario per la nostra crescita personale, oltre che per quella sociale, lo sviluppo è fortemente collegato a “buone” relazioni.
Di fronte al fenomeno stress, per una sua gestione ottimale, abbiamo due possibili strategie. La prima è definita “coping” (dal verbo inglese “to cope”, che significa “fronteggiare”). Con questo termine si intende il processo di adattamento funzionale che ci permette di ridurre e tollerare meglio eventi stressanti; è perciò importante essere in grado di attivare delle strategie di coping, che ci permetteranno di superare la situazione stressante.
Per attuare il coping nei contesti lavorativi può essere utile, innanzitutto, comprendere cosa abbia causato lo stress e, una volta identificati i fattori che ci provocano disagio, interrogarsi sulla necessità e l’opportunità di mantenere una presa forse eccessiva su di essi.
Un secondo suggerimento che possiamo dare è relativo al perimetro delle nostre responsabilità: in ogni contesto ci sono cose che dipendono da noi e cose che invece dipendono da altri o da altro. Riconoscere le differenze, esplicitarle, rifletterci sopra ci aiuterà a ridurre la pressione avvertita a causa di elementi che sfuggono al nostro controllo.
Il tema del controllo ci rimanda a un terzo suggerimento: spesso i manager sono tra le popolazioni aziendali più stressate, dato che devono rispondere a obiettivi assai sfidanti in circostanze per lo più incerte, il che li porta a esagerare con il controllo. Il voler avere tutto sotto controllo, un atteggiamento che poi si traduce nel gestire ogni cosa direttamente, porta con sé un inevitabile sovraccarico che si traduce in una condizione di distress cronico. Si tratta, quindi, di imparare a delegare, a riconoscere e fissarsi limiti e priorità, a sapersi prendere qualche pausa.
Non va poi dimenticato il peso delle dinamiche relazionali: tanto stress lavorativo dipende dalle relazioni avute con i nostri capi, con i clienti, con i colleghi e anche con l’ambiente fisico in cui lavoriamo. Per questo è utile – e siamo al quarto suggerimento – cercare di sviluppare un ambiente familiare e accogliente in cui ci si possa sentire protetti anche da eventuali richieste eccessive. In questo senso, aiuta senz’altro personalizzare il nostro luogo di lavoro, senza peraltro esagerare: dobbiamo ricordarci che non siamo isole nel mare della nostra organizzazione, per cui evitiamo di trasformare la postazione di lavoro nel salotto di casa nostra.
Seguire questi suggerimenti può certamente contribuire a ridurre il carico stressogeno presente nel lavoro, ma non possiamo pensare che l’unica via per vivere bene nell’organizzazione sia questa. Dunque, se da un lato imparare e attuare strategie di coping è senz’altro utile, dall’altro è importante sviluppare i nostri “muscoli” psicologici, insomma far crescere quelle risorse che, se anche non lo riducono, ci permettono comunque di fronteggiare meglio l’inevitabile stress lavorativo.
Al riguardo, si apre così la questione della resilienza, che, insieme al coping, rappresenta un tema centrale nella gestione positiva dello stress lavoro-correlato.
Quello di resilienza è un concetto oggi alquanto di moda, mutuato dalla psicologia in tempi relativamente recenti, che indica la capacità di far fronte in maniera positiva, o addirittura foriera di sviluppo personale, a eventi sfavorevoli anche assai gravi. Inizialmente la resilienza era ritenuta una caratteristica strutturale, se non innata, di alcuni soggetti particolari, oggi si tende invece a pensarla in termini evolutivi, quale competenza che può essere appresa, sviluppata e potenziata anche in età adulta e anche nei luoghi di lavoro (Magrin, 2008).
Il sociologo della salute Antonovsky ha lavorato parecchio attorno alla questione del “vivere bene sotto stress”, sviluppando un interessante approccio teorico, da lui definito “salutogenesi”, che al centro della possibilità di fronteggiare efficacemente lo stress pone quello che viene chiamato il “senso di coerenza”, cioè un orientamento globale di fiducia sul fatto che gli accadimenti della vita siano strutturati, prevedibili e in qualche modo spiegabili, che le proprie risorse siano disponibili per soddisfare le richieste poste da tali accadimenti e che queste richieste siano sfide degne di investimento e di impegno personale (Antonovsky, 1987). In altri termini, si afferma che la dimensione di senso, l’idea che le cose abbiano un senso, una direzione, che siano comprensibili e fronteggiabili, consente di affrontare con efficacia circostanze avverse anche gravi, impedendo che degenerino in senso patogenico.
Seguendo tale prospettiva, la resilienza è dunque prima di tutto una questione di senso, che alimenta un “potere” positivo circa gli eventi sfavorevoli e stressanti teso a “proteggerci” dal loro esito negativo (Magrin et al., 2006).
Proprio la dimensione del potere, intesa come il confidare nel disporre di più possibilità di agire, rappresenta un fattore importante per la promozione della resilienza: quanto più il soggetto si sente dotato di possibilità, tanto meno sarà vittima delle circostanze, impedendo l’affermazione di quel sentimento di impotenza che, come si è visto, sta al fondo del fenomeno stress (Gheno, 2007).
Per sviluppare resilienza, quindi, dovremo lavorare sulla capacità di attribuire senso agli accadimenti, sulla nostra pensabilità positiva circa il loro affrontamento e sulle competenze che ci rendono maggiormente in grado di affrontarli con efficacia.
Curare (e curarsi) delle persone nelle organizzazioni
Tutto ciò ci conduce a un ultimo punto. La soggettività propria del fenomeno stress fa sì che, inevitabilmente, la persona debba muoversi attivamente per depotenziarne gli effetti nocivi e per promuovere il proprio benessere: nessuno può eliminare lo stress dalla nostra vita, ciascuno di noi può però lavorare per fronteggiarlo, sia praticando – come abbiamo visto – strategie di coping sia sviluppando la propria resilienza.
È chiaro, tuttavia, che detta attivazione (e responsabilità) personale può essere facilitata o meno dal contesto organizzativo cui apparteniamo; in questo senso è utile ricordare come la gestione positiva dello stress lavoro-correlato richieda un’assunzione di corresponsabilità da parte di chi governa l’organizzazione e di chi vi opera. Così, è necessario che il lavoratore assuma una posizione attiva nei confronti delle richieste dell’organizzazione, comprendendo la domanda, valutando le risorse disponibili, potenziandole e chiedendo aiuto se necessario. Al contrario, andrà a rafforzare la percezione di stress un atteggiamento passivo di mera esecuzione dei compiti e di sottovalutazione delle risorse necessarie.
Altrettanto è necessario – oltre che richiesto dalla norma – che il management dell’organizzazione vigili sullo stress diffuso, costruendo un ambiente interno ed esterno che faciliti lo svolgimento dei compiti affidati e concorra alla promozione del benessere.
Ingredienti importanti di uno stile di management che potremmo definire “promozionale”, cioè utile ad aumentare il benessere e a proteggere dal distress, sono: una leadership empowering, la costruzione di un clima di solidarietà positiva (cooperativo e integrativo), uno stile improntato a equità, giustizia e trasparenza, e un accesso diffuso alle risorse (competenze, tecnologia, informazioni).
Concludiamo segnalando che, nello sviluppo del cosiddetto welfare aziendale, è possibile trovare risorse atte a facilitare la gestione positiva dello stress, sia nel miglioramento del work-life balance (bilanciamento tra lavoro e vita personale) sia nel fornire ai propri collaboratori un supporto psicologico che li accompagni nelle circostanze più impegnative della vita lavorativa.
Riferimenti bibliografici
Antonovsky A. (1987), Unraveling the mystery of health: How people manage stress and stay well, Jossey-Bass, New York.
Bruscaglioni M., Gheno S. (2000), Il gusto del potere. Empowerment di persone e azienda, Franco Angeli, Milano.
Gheno S. (2007), «Potere in positivo. Il Self-empowerment e il benessere lavorativo», Psicologia della Salute, 1, 49-66.
Magrin M. E. (2008), «Dalla resistenza alla resilienza: promuovere benessere nei luoghi di lavoro», Giornale Italiano di Medicina del Lavoro e Ergonomia,
30 (1).
Magrin M. E., Bruno C., Gheno S., Scrignaro M., Viganò V. (2006), «The power of stress: A salutogenic model of intervention». Dimensions of Well-being: Research and Intervention, 29, 470.
Selye H. (1936), «A syndrome produced by diverse nocuous agents», Nature, 138 (3479), 32.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 269 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui