Valeria Ugazio

Coraggiosi? Forse, ma in modo diverso

Il coraggio è un’emozione complessa con declinazioni diverse. Le persone con disturbi fobici, ossessivo-compulsivi, alimentari e con depressioni ci aiutano a capirla perché esprimono in modo estremo alcune forme di coraggio diffuse nelle nostre società. 

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Il coraggio non è di moda di questi tempi, perlomeno in Occidente. Siamo tutti troppo individualisti e attenti al nostro interesse personale per cedere al fascino di questa emozione complessa che sfida quanto abbiamo costruito, per un bene più grande. «Il coraggio – affermava Chesterton (1908/2013, p.77) – è quasi una contraddizione in termini, perché significa un forte desiderio di vivere che prende la forma di una disponibilità a morire».

Anche se non arriva a mettere in gioco la vita, il coraggio è scomodo: un rischio dev’essere corso. Non c’è coraggio senza percezione del rischio, ma avventatezza o incoscienza. È inoltre nel nome di valori come dignità, giustizia, solidarietà che spesso il coraggio ci chiede di sacrificare il nostro benessere individuale. 

Per queste sue caratteristiche tale emozione non è di casa nel nostro Paese, dove è più apprezzata la furbizia. Il nostro è un Paese che guarda con benevolenza il don Abbondio dei Promessi Sposi e si identifica con lui, quando, di fronte alle rampogne del cardinale Federigo Borromeo per essersi lasciato intimorire da Don Rodrigo e non aver celebrato il matrimonio fra Renzo e Lucia, balbetta la famosa frase «Il coraggio, uno non se lo può dare».

Anche tra gli psicologi e gli psicoterapeuti il coraggio trova un’accoglienza tiepida. Dobbiamo confessarlo, siamo generalmente disponibili a capire, se non a giustificare, i comportamenti trasgressivi, ma sospettosi di fronte a caratteristiche moralmente encomiabili o proto-sociali.

Anni di egemonia della psicoanalisi ci hanno abituati a pensare che dietro a generosità, a onestà e a tutte le caratteristiche che mettono a rischio i propri interessi per qualche valore si nasconda un lato oscuro. Anche per questo, gli psicologi e gli psicoterapeuti che si sono occupati di coraggio sono davvero pochi.

MOLTI MODI DI ESSERE CORAGGIOSI  

Eppure, il coraggio è molto presente nella conversazione terapeutica. I pazienti si lamentano spesso di non averlo, o chiedono la terapia per poter fare scelte che lo richiedono. Non manca neppure chi finisce in terapia per fronteggiare conseguenze devastanti di azioni coraggiose. Lavorando con i pazienti mi sono resa conto che, sebbene quasi tutti parlino di coraggio, esistono profonde differenze nella concezione che ciascuno ha di questa emozione complessa. Non siamo coraggiosi nello stesso modo e quando parliamo di coraggio intendiamo pattern comportamentali molto diversi.

Naturalmente, qualcosa di comune c’è. Per tutti il coraggio è teso a preservare o a ottenere un bene, spesso eticamente rilevante, esposto a una minaccia. Inoltre, per tutti il suo perseguimento richiede il superamento di un ostacolo. Tuttavia rischi, ostacoli e bene da perseguire variano, come abbiamo sostenuto in un recente articolo (Ugazio e Salamino, 2016), in accordo con i significati che dominano l’esperienza emotiva di ciascuno.

Le differenze emergono in modo chiaro con i pazienti fobici, ossessivo-compulsivi, con disturbi alimentari e dell’umore, che, com’è stato documentato (per esempio in Castiglioni et al., 2013; 2014; Guidano, 1987/1988; Ugazio, 1998/2012; Ugazio et al., 2015), presentano modi differenti di organizzare i significati. 

SUPERARE LA PAURA NELLA SEMANTICA DELLA LIBERTÀ

Il coraggio svolge un ruolo centrale nella vita di tutte le persone con disturbi dello spettro fobico. Paradossalmente sono proprio coloro che soffrono di agorafobie, di attacchi di panico, di claustrofobie – disturbi tutti caratterizzati dalla paura – a sentire in modo particolarmente intenso il fascino del coraggio. Sono infatti cresciuti in famiglie dove domina quella che ho chiamato “semantica della libertà” (Ugazio, 1998/2012), caratterizzata da due polarità semantiche – libertà/dipendenza, esplorazione/attaccamento – entrambe alimentate da paura/coraggio.

Entro questa semantica ci si avvicina agli altri e si dipende da loro quando si ha paura. Al contrario, ci si allontana dai legami di attaccamento perché si è coraggiosi, capaci di affrontare il mondo e i suoi pericoli da soli. A causa di eventi drammatici, come incidenti o malattie e morti improvvise, o per ragioni meno chiare, tutti in queste famiglie sono consapevoli della propria vulnerabilità e costruiscono il mondo come pericoloso. Perciò molti stringono legami protettivi a cui si appoggiano, mentre altri sono coraggiosi e ammirati da tutti perché aperti al mondo e alle molteplici esperienze che offre.

Anche i pazienti fobici sono spesso capaci di comportamenti straordinariamente coraggiosi, come ha giustamente sottolineato Rachman (1990). Sono i sintomi a tarpare loro le ali. Per tutti coloro che sono nella semantica della libertà, coraggiosi o pavidi che siano, affetti da disturbi fobici o privi di alcuna psicopatologia, lo scopo dell’atto coraggioso è affermare la propria libertà e autonomia.

La minaccia è rappresentata dagli innumerevoli pericoli presenti nel mondo fisico e sociale rispetto ai quali l’individuo si sente vulnerabile. Ma anche il sentirsi intrappolato dentro una situazione che ti soffoca costituisce una minaccia. L’ostacolo che dev’essere superato per raggiungere l’agognata libertà è la paura, che può assumere la forma di un sintomo invalidante, come l’attacco di panico, ma può essere soltanto un’emozione che si frappone al raggiungimento del comportamento coraggioso desiderato. Ed è proprio per superare la paura e diventare coraggiosi che spesso le persone che hanno un modo di sentire tipico della semantica della libertà chiedono la terapia.

È il caso di Mara. Quando l’ho incontrata erano anni ormai che aveva superato gli attacchi di panico e le fragilità che avevano travagliato il suo ingresso nel mondo adulto. Vicina ai 40 anni, da poco dirigente di una banca d’affari, madre di due bambini ormai in età scolare, era al settimo mese di gravidanza. L’obiettivo per cui mi chiedeva la terapia era trovare il coraggio di lasciare il marito per andare a vivere con l’uomo di cui si era innamorata non appena avuto notizia della sua gravidanza. L’amante, innamorato quanto lei, aveva già acquistato una casa per loro e per i figli di Mara.

La disponibilità con cui la donna si era lasciata travolgere da questa esperienza non era senza ragioni. Soddisfatta di sé stessa e dell’autonomia raggiunta, non avrebbe voluto concentrare ancora la propria attenzione sui figli proprio quando quella fase della vita stava finendo. L’idea di tornare a occuparsi di pannolini e pappe, di essere stressata da notti bianche e dalle difficoltà di conciliare figli e un lavoro – specialmente ora – impegnativo la atterriva. Sentiva che la sua libertà e indipendenza erano minacciate da quella gravidanza. Per questo avrebbe voluto abortire, ma si era lasciata convincere a non interromperla dalle forti pressioni del marito. Non appena si era arresa, si era sentita murata dentro un matrimonio insoddisfacente.

Proprio la forza, la tendenza a guidarla che all’inizio l’avevano fatta innamorare del marito, da anni la soffocavano. Era stanca di una famiglia costruita a misura di un uomo capace di assicurarle sicurezza economica e stabilità, ma che la privava costantemente di quell’autonomia decisionale trovata attraverso l’impegno professionale.

L’innamoramento si inseriva entro questo contesto: iniziare una nuova vita con il compagno per Mara significava liberarsi da tutele, essere libera e autonoma, avere quindi stima di sé. La sua richiesta terapeutica, per quanto particolare, era chiara: continuare, dando vita alla nuova convivenza, quel processo di affermazione di sé stessa avviato con il lavoro e minacciato dalla terza gravidanza.

Ma di che cosa aveva paura Mara? Prima di tutto che le ritornassero gli attacchi di panico di cui aveva sofferto in gioventù, ma anche di non riuscire a trovare in sé le sicurezze necessarie ad arginare le pressioni del marito. Si domandava inoltre: sarebbero stati, lei e il compagno, capaci di fronteggiare le difficoltà che la situazione avrebbe comportato? 

ROMPERE L'ASSEDIO DELLA COLPA NELLA SEMANTICA DELLA BONTÀ 

Anche le persone che sono cresciute in contesti dove domina la “semantica della bontà” (Ugazio, 1998/2012), come per esempio i pazienti ossessivo-compulsivi, si rivolgono spesso a psicoterapeuti per essere aiutate a compiere scelte coraggiose. Come Mara, possono per esempio chiedere la terapia per trovare il coraggio di porre fine a un matrimonio ormai logoro, per un nuovo amore.

Tuttavia, il tipo di coraggio che cercano è completamente diverso da quello agognato da Mara. Cresciute in famiglie dove domina la lotta fra il bene e il male, in cui individui puri, sacrificali si compongono con individui egoisti, dediti ai propri piaceri più o meno leciti, dove sentirsi vivi significa sentirsi cattivi ed essere buoni si traduce nel sacrificarsi, queste persone cercano un coraggio che mette in gioco l’etica.

Vogliono liberarsi da valori che rendono la loro vita una catena di rinunce o desiderano riaffermarli. Se la scelta coraggiosa è rompere l’unione coniugale, l’ostacolo è costituito dai sensi di colpa da cui sono devastate. Mara ne era invece immune, anche se la situazione avrebbe potuto giustificarli. La minaccia all’origine del coinvolgimento nella nuova relazione amorosa, nel caso di queste persone, sono i sentimenti di avvilimento e mortificazione di cui erano preda prima dell’innamoramento; a volte erano clinicamente depresse.

«Mi sentivo morto», «Non avevo più voglia di vivere», «Ero un cadavere», «Non riuscivo a fare a meno del Prozac», sono queste le espressioni con cui descrivono la loro condizione psicologica prima dell’innamoramento. Sentirsi vivi, rompere l’assedio della colpa è l’obiettivo del gesto coraggioso per il quale sono generalmente consultati i terapeuti. Più raramente la richiesta terapeutica mette in campo un altro tipo di coraggio, che nasce dalla minaccia di sentirsi corrotti, il cui obiettivo è recuperare la purezza perduta ristabilendo così l’integrità del proprio sé. 

Questo coraggio è all’origine della tragedia, descritta estesamente altrove (Ugazio e Salamino, 2016), di uno studente universitario che si suicidò per ristabilire la purezza del suo cuore. «Ieri non ho trovato il coraggio per farlo [suicidarsi], ma so che ora lo farò». Con queste parole si apre la lettera lasciata da Giovanni ai genitori, che si rivolgono a me subito dopo la tragedia. Sua madre, a lui molto legata, aveva notato, nelle settimane precedenti al suicidio, che il figlio era più tormentato, triste e distaccato del solito, ma non aveva trovato il tempo di parlargli. La donna, in quei giorni, era devastata dal tradimento del marito, che si negava persino al telefono.

Sospettava che non si trattasse di una delle sue solite avventure, ma che si fosse innamorato di una collega con cui lavorava a 200 km da casa. Era il tradimento del padre a tormentare Giovanni? L’angoscia di sua madre? No, ciò che lo devastava era l’aver avuto il suo primo, e ahimè unico, rapporto sessuale con una prostituta in una notte trasgressiva con gli amici. Temeva di aver contratto l’HIV, anche se si era trattato di un rapporto protetto. Non aveva fatto alcun accertamento per sottoporre le sue angosce a un esame di realtà. D’altra parte, nessun responso medico avrebbe potuto restituirgli la purezza perduta. «Sono stato un idiota, mi sono comportato in un modo che non mi sarei mai aspettato da me stesso, ho perso l’onore. La questione è irrisolvibile» scrive Giovanni. La sola via di uscita è impiccarsi, punire il suo corpo per la colpa di cui si è macchiato e restituirlo a sua madre e al mondo, purificato dal sacrificio estremo. 

ABBRACCIARE LA SCONFITTA PER AFFERMARE L'INTEGRITÀ DEL PROPRIO SÉ

Il coraggio di solito non è al centro delle richieste terapeutiche di chi, come per esempio i pazienti con disturbi alimentari, è caratterizzato da una modalità di dar senso agli eventi che ho chiamato “semantica del potere” (Ugazio, 1998/2012). Provenienti da famiglie competitive, dove ci sono vincenti e perdenti e in cui «si è vincenti perché si è volitivi, determinati e efficienti, mentre si è perdenti perché si è passivi, arrendevoli in balia delle sopraffazioni degli altri» (Ugazio, 1998/2012, pp. 218-219), queste persone chiedono solitamente la terapia per affermare sé stesse, superando sentimenti di inferiorità e inadeguatezza.

Sono stata tuttavia consultata in più di un’occasione da persone nella semantica del potere che desideravano essere aiutate a compiere un atto di coraggio, come lasciare un partner socialmente vantaggioso ma frustrante, per un compagno più gratificante in posizione sociale inferiore. La minaccia per la quale l’atto coraggioso diventava per loro necessario erano le umiliazioni da parte del coniuge, soprattutto se pubbliche. Lo scopo era smettere di subire affronti, umiliare il partner “vincente” con un abbandono inaspettato, e soprattutto ritrovare assertività e senso di efficacia personale compromessi dal mantenimento della relazione coniugale. L’ostacolo, a volte insormontabile, era la vergogna determinata dalla perdita di status, derivante dalla nuova unione. 

Credo che le persone più coraggiose appartengano alla “semantica dell’appartenenza” (Ugazio, 1998/2012), dove ci sono chi è incluso, onorato, degno di essere accolto e ricordato, e chi invece – come i pazienti depressi – è escluso, marginalizzato, defraudato, o si sente tale. Sono proprio i pazienti depressi, che provengono da famiglie dove domina questa semantica, a mettere in atto i comportamenti oggettivamente più coraggiosi, anche se paradossalmente non li avvertono come tali. Sono coraggiosi, ma non sanno di esserlo. Ma di loro e del loro singolare rapporto con il coraggio parlerò in un prossimo contributo.

 

Riferimenti bibliografici
Castiglioni M., Faccio E., Veronese G., Bell R. C. (2013), «The semantics of power among people with eating disorders», Journal of Constructivist Psychology, 26 (1), 62-76, doi: 10.1080/10720537.2013.740263
Castiglioni M., Veronese G., Pepe A., Villegas M. (2014), «The semantics of freedom in agoraphobic patients: An empirical study», Journal of Constructivist Psychology, 27 (2), 120-136, doi: 10.1080/10720537.2013.806874
Chesterton G. K. (1908), Orthodoxy, Moody, Chicago, 2013. 
Guidano V. F. (1987), La complessità del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1988.
Rachman S. J. (1990), Fear and courage, 2nd ed., Freeman, New York.
Ugazio V. (1998), Storie permesse, storie proibite, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. 
Ugazio V., Negri A., Fellin L. (2015), «Freedom, goodness, power, and belonging: The semantics of phobic, obsessive-compulsive, eating, and mood disorders», Journal of Constructivist Psychology, 28 (4), 293-315, doi: 10.1080/10720537.2014.951109
Ugazio V., Salamino F. (2016), «Shades of courage. Emotional dimensions of courage in the family semantic polarities model», TPM. Testing, Psychometrics and Methodology in Applied Psychology, 23 (2), 215-233, doi: 10.4473/TPM 23.2.6

Questo articolo è di ed è presente nel numero 268 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui