Pietro Trabucchi

Cosa ci insegna la biologia del paziente combattivo

Da più di quarant’anni la scienza studia il rapporto tra la psiche e la salute dell’individuo. Ma pensare che si tratti solo di conquiste mediche è un grosso errore

cosa-ci-insegna-la-biologia.jpg

Negli ultimi anni numerosi studi hanno dimostrato l’esistenza di una forte correlazione tra atteggiamenti e tratti della personalità da una parte, e salute fisica dall’altra. Queste ricerche forniscono una conferma scientifica a un fatto che tutti noi abbiamo in qualche modo già sperimentato: le persone ottimiste, combattive, coraggiose reagiscono meglio di fronte alle malattie gravi e – in termini probabilistici – hanno più possibilità di salvarsi e di guarire. In termini probabilistici, si badi bene: questo vuol dire che il legame tra personalità e salute diventa vero su base statistica e di fronte a grandi numeri.

A livello individuale, invece, tale tendenza non rappresenta una regola tassativa: molte persone, per quanto straordinariamente ottimiste e determinate, hanno finito per soccombere a gravi malattie. Questa doverosa precisazione consente di evitare quello che Marcia Angell, della Harvard Medical School, in un editoriale apparso sul New England Journal of Medicine definiva »una forma particolarmente ignobile di colpevolizzazione del malato«: cioè il fatto di vedere la malattia e la morte della vittima come espressioni di un fallimento personale. Come dire: »Non ce l’hai fatta perché non sei stato abbastanza combattivo«.

Le prime ricerche in questo campo risalgono a una quarantina di anni fa. Uno dei primi studi pionieristici fu compiuto dall’équipe del professor S. Greer del King’s College School of Medicine di Londra e pubblicato nel 1985 sulla prestigiosa rivista medica The Lancet (Pettingale et al., 1985): Greer esaminò un gruppo di donne affette da neoplasia al seno e dimostrò che a parità di tipo e grado istologico del tumore, di stadio della malattia, di terapie eseguite, la prognosi e la sopravvivenza delle pazienti erano condizionate prevalentemente dal loro atteggiamento nei confronti della personale infermità; in particolare, notò che le pazienti classificate come dotate di «spirito combattivo» di fronte alla malattia, a distanza di 10 anni erano sopravvissute in una percentuale del 55%; quelle che invece dimostravano «smarrimento e depressione» sopravvivevano in ragione del 22%.

Accertata l’esistenza di questo legame tra atteggiamenti e salute, uno degli obiettivi che la ricerca si sta ponendo ora è quello di descriverne con precisione i meccanismi di funzionamento. (In realtà si conoscono già parecchie cose al riguardo; da oltre trent’anni esiste infatti una scienza focalizzata sulle connessioni tra psiche, sistema nervoso, sistema immunitario e sistema endocrino, la cosiddetta psiconeuroendocrinoimmunologia. Lo psicologo americano Robert Ader, che pubblicò nel 1981 il libro Psychoneuroimmunology viene considerato il fondatore della disciplina, insieme a Nicholas Cohen). Una delle interfacce più interessanti tra psiche e corpo è il sistema immunitario, l’apparato che ci difende dalle malattie.

Il sistema immunitario è molto influenzabile dal nostro stato psicologico: per esempio, la semplice ansia pre-esame è in grado di abbassare significativamente la concentrazione di linfociti T-helper, cioè le cellule deputate alla produzione di anticorpi, come dimostrato in diversi studi; così come riduce l’attività delle cellule NK (Natural Killer), le cellule che attaccano e distruggono quelle tumorali e quelle infettate da virus.

Negli ultimi anni, l’indagine sui meccanismi biologici sottostanti al rapporto tra atteggiamenti, personalità e sistema immunitario ha raggiunto livelli di analisi sorprendenti. La ricerca si è spinta sino a riscontrare correlazioni tra alcune dimensioni della personalità e l’attività di una serie di geni coinvolti nella risposta infiammatoria, nella produzione di anticorpi e nelle difese contro le infezioni virali (Vedhara et al., 2015).

In maniera speculare, è stato dimostrato che l’attività del sistema immunitario influenza i comportamenti, la cognizione e lo stato dell’umore (Gassen e Hill, 2019). Chi avrebbe immaginato, qualche decennio fa, per esempio, che lo stato infiammatorio potesse avere un ruolo patogeno nella genesi della depressione? Oggi invece sappiamo che le citochine infiammatorie, gli elementi base del linguaggio del sistema immunitario, inibiscono la presenza di neurotrasmettitori come dopamina e serotonina, contribuendo a un cambio del tono dell’umore. Del resto, prima della scoperta delle citochine era ritenuta impossibile una comunicazione tra sistema immunitario e cervello: oggi, invece, sappiamo che la comunicazione è bidirezionale e conosciamo l’alfabeto di questi linguaggi.

Ma, alla fine, qual è l’impatto pratico di tutti questi studi? Cosa può portarsi a casa da tali scoperte il non addetto ai lavori? A parte l’utilità immediata in campo medico e terapeutico, tutte queste conoscenze ci dicono che accrescere la resilienza psicologica degli individui ha implicazioni dirette anche sulla loro salute e sul funzionamento del loro organismo. Ben vengano, dunque, tutte le pratiche legate a tale obiettivo.

Nel mio caso personale, da vari decenni studio e promuovo la pratica dello sport con questa finalità. Sono tantissimi gli studi che corroborano l’efficacia della pratica sportiva nel raggiungere questi obiettivi e quindi lascerò il lettore libero di ricercarne quello più confacente alle sue preferenze; così come non starò a citare i miei libri sul tema. Rimane un fatto incontestabile, e cioè che molti dei fattori psicologici legati alla resilienza psicologica che hanno dimostrato efficacia nel fronteggiare le malattie – quali l’ottimismo, la capacità di tollerare l’ansia e di controllare lo stress – sono gli stessi che lo sport contribuisce a sviluppare negli atleti.

Pietro Trabucchi si occupa di motivazione, gestione dello stress e resilienza, in particolare applicata alla psicologia dello sport. Insegna all’Università di Verona.

www.pietrotrabucchi.it


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Gassen J., Hill S. E. (2019), «Why inflammation and the activities of the immune system matter for social and personality psychology (and not only for those who study health)», Social and Personality Psychology Compass, 13 (6), e12471

Pettingale K. W., Morris T., Greer S., Haybittle J. L. (1985), «Mental attitudes to cancer: An additional prognostic factor», The Lancet, DOI: 10.1016/s0140-6736(85)91283-8

Vedhara K., Gill S., Eldesouky L., Campbell B. K., Arevalo J. M. G., Ma J., Cole S. W. (2015), «Personality and gene expression: Do individual differences exist in the leukocyte transcriptome?», Psychoneuroendocrinology, 52, 72-82.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui