Covid-19: relazioni di lavoro più difficili
Con la pandemia è incrementato il lavoro a distanza, ma le relazioni insane degli ambienti professionali non sono sparite, si sono aggiornate in base alle nuove modalità operative.
Anche prima della pandemia da Covid-19, molti avevano sentito parlare di, o avevano vissuto in prima persona, un ambiente di lavoro tossico dove le relazioni tra colleghi o con i superiori non solo sono difficili, ma diventano dannose perché molto stressanti. Tutti sanno di cosa stiamo parlando se pensano, per esempio, alla persona attaccabottoni, petulante fino alla noia, che cerca di monopolizzare il tempo di tutti; allo sputasentenze, che si crede il più intelligente, vuol far sentire gli altri incapaci e, se qualcosa va storto, dà sempre la colpa agli altri; al procrastinatore, che causa continui ritardi alla squadra, perde tempo e invia di continuo e-mail con richieste di chiarimento solo perché è incapace di decidere; al maldestro cronico, sempre disinformato, incompetente, demotivato e senza più credibilità sociale; al martire, che pensa di fare tutto lui e passa metà della giornata a lamentarsi di come gli altri siano pigri o incapaci; al doppiogiochista, che fa il carino in faccia, ma alle spalle vive di pettegolezzi e alla prima occasione può rovinare la reputazione o la carriera di qualcuno; al sociopatico, che, nella forma più estrema, è vittima del proprio narcisismo (cioè dei pensieri grandiosi su sé stesso) o della tendenza machiavellica a manipolare gli altri e che si comporta spesso con fredda incoscienza come un serpente in giacca e cravatta, manifestando disprezzo delle regole e ricorrendo a menzogne, imbrogli e vessazioni fino al bullismo pur di raggiungere i propri scopi egoistici.
Soprattutto l’ultimo caso segna il confine tra condotte “difficili” e “tossiche”, e presuppone l’esistenza di condizioni organizzative facilitanti la loro diffusione. In particolare, lo scarso senso di responsabilità collettiva, la bassa trasparenza, un clima organizzativo che tollera le trasgressioni ed è poco connesso a principi etici tendono a far aumentare questi comportamenti alla lunga distruttivi per l’efficacia lavorativa e i sentimenti di fiducia reciproca. Tanto più se ciò avviene in un momento di elevata emotività indotto dalla pandemia, che tende a provocare la chiusura in sé stessi e la paura degli altri, con la conseguente riduzione della probabilità di aiutarsi e sostenersi a vicenda.
Il lavorare da casa è stato considerato, con un eccesso di ottimismo, come un’ancora di salvezza per il mantenimento della produttività e dovrebbe anche aver allontanato i dipendenti dai rischi di relazioni tossiche. In realtà, c’è stata un’esplosione mal progettata e mal regolata di videoincontri d’ufficio 24 ore su 24 non sempre desiderati e di urgenti richieste di contatto in orari inconsueti. Così, lungi dal porre fine alla cattiva condotta di alcuni, la pandemia ha generato nuove occasioni di pericolo quando l’insistenza dei contatti lavorativi virtuali è diventata irragionevole.
Sono emersi per via telematica linguaggi offensivi od ostili da parte, per esempio, di colleghi narcisisti che certo non sono diventati più saggi per la pandemia, ma che anzi sono diventati magari ancora più conflittuali, irritabili, con zero empatia per la perdita delle loro vecchie routine e per la frustrazione della loro convinzione di poter fare comunque ciò che vogliono. Così, petulanze, denigrazioni, molestie e discriminazioni (come l’esclusione da un certo incontro decisionale) si sono spostate su WhatsApp, sms, e-mail. Del resto, la comunicazione virtuale dà una sensazione di anonimato che può indurre le persone ad agire in modi che non userebbero di persona. Inoltre, lo stress della pandemia (aumento delle paure, preoccupazioni e tensione emotiva) si presenta in un contesto in cui i confini tra lavoro e vita privata sono divenuti più sfumati. I superiori, i clienti e i colleghi, anche quelli “difficili”, sono di fatto portati nell’intimità delle case e ciò può indurre le persone ad abbassare la guardia, ad essere troppo informali e rassegnate a ricevere commenti inappropriati o anche osservazioni apparentemente scherzose ma indesiderate. In altri termini, si creano le condizioni per un allentamento degli stili consueti nei rapporti di lavoro e di alcune autodifese adottate in condizioni normali per attenuare i rischi d’invadenza dei colleghi difficili o tossici.
La ricerca psicologica sembra confermare che la pandemia sta mettendo in luce relazioni inadeguate e tensioni lavorative già esistenti. Dunque, per un’organizzazione intelligente il primo correttivo è darsi da fare per contrastare la sensazione che il benessere relazionale sia messo in secondo piano: i dipendenti vogliono sentire che i loro datori di lavoro hanno fiducia, li apprezzano e li rispettano anche attraverso chiare azioni anti-molestie. Dal punto di vista individuale ci sono varie strategie per gestire relazioni a rischio di tossicità: sfruttare il distanziamento a proprio vantaggio smettendo di dare spazio mentale ed emotivo a queste persone; stabilire dei confini e non tollerare invasioni; connettersi con colleghi fidati, costruttivi ed empatici per ricevere comprensione e feedback positivi; e, di fronte al rischio di cedere a trappole emozionali, fare ricorso a forme di supporto professionale, come il counseling psicologico.
GUIDO SARCHIELLI è professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Priesemuth M., Bigelow B. (2020), «It hurts me too! (Or not?): Exploring the negative implications for abusive bosses», Journal of Applied Psychology, 105 (4), 410-421.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 282 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui