Crescono le sfide lavorative, aumenta il bisogno di resilienza
Nel lavoro come nella vita, alcuni di noi riescono ad adattarsi ai cambiamenti, altri vi soccombono. A fare la differenza è il grado di resilienza di cui si è dotati.
Si dovrebbe essere ormai consapevoli del fatto che le condizioni di lavoro stanno diventando sempre più sfidanti per le persone, nel duplice senso: a) di stimolare l’impegno personale e facilitare possibilità di miglioramento e di crescita professionali; b) di mettere a dura prova le risorse personali per sfide costose che si possono vincere, ma anche perdere e con gravi danni.
Numerose indagini europee dimostrano da tempo la preminenza di questo secondo significato delle sfide lavorative. Infatti, sono assai diffusi i processi di intensificazione del lavoro (carichi pesanti, tempi ristretti, scadenze irrealistiche, costante connessione con dispositivi mobili ecc.); persistono sia le situazioni di rischio psicosociale (comunicazioni povere, incertezze e ambiguità di ruolo, insicurezza occupazionale, conflitti interpersonali, sopraffazioni, molestie e umiliazioni, leadership autoritaria e tossica, squilibri casa/lavoro ecc.) sia le carenze gestionali (ingiustizie e discriminazioni, sfruttamento illegale dei lavoratori come il caporalato, violazione di regole di sicurezza e antinfortunistiche ecc.).
La presenza di sfide così pericolose giustifica gli sforzi delle organizzazioni più avvedute per correggere o prevenire i danni potenziali sul posto di lavoro tramite politiche partecipative, interventi di miglioramento e procedure di monitoraggio ormai sostenute anche dalle norme. Nello stesso tempo, però, tale presenza solleva un’importante domanda: perché alcuni lavoratori riescono a tenere il passo e restano in grado di trovare soddisfazione per la loro carriera malgrado le difficoltà e gli imprevisti negativi, mentre altri risultano sopraffatti e tendono ad arrendersi?
Una delle risposte possibili si richiama alla nozione di resilienza psicologica, intesa come capacità di non perdersi d’animo, di recuperare e addirittura di crescere anche di fronte alle avversità o ai cambiamenti imposti da condizioni sfavorevoli o stressanti. Negli ultimi anni la ricerca psicologica in ambito lavorativo ha approfondito tale questione portando numerose prove che mostrano come la resilienza sia un’importante risorsa personale associata al sostegno sociale (rete di relazioni interpersonali positive) e a vari stati d’animo positivi, tra cui ottimismo, entusiasmo, curiosità, fiducia, autostima e apertura al futuro. Essa facilita l’utilizzo di strategie di coping più efficaci e ha un ruolo protettivo rispetto al burnout (in particolare all’esaurimento emotivo) contribuendo anche alla realizzazione personale. I lavoratori più resilienti, nonostante le battute d’arresto che incontrano nel loro lavoro, sono in grado di concentrarsi sulle possibili soluzioni per uscire dalle difficoltà e alla lunga risultano più sani e con meno probabilità di abbandonare le loro responsabilità o di essere coinvolti nel turnover.
Si è osservato, poi, che la resilienza rappresenta un importante fattore predittivo delle prestazioni lavorative perché è correlata a due importanti dimensioni positive per l’esperienza e il benessere lavorativo: la soddisfazione e l’impegno nel lavoro. I lavoratori resilienti sono più soddisfatti e più coinvolti sul lavoro e pertanto attuano prestazioni qualitative e quantitative migliori rispetto ai loro colleghi meno resilienti. Per converso, le persone con un basso livello di resilienza risultano emotivamente più instabili di fronte alle difficoltà, meno adattabili e flessibili rispetto ai cambiamenti, più resistenti alle nuove esperienze, più inclini alla sfiducia e alla demotivazione sul lavoro nonché più facili prede di ansia e depressione.
Questi dati dovrebbero sollecitare l’interesse anche dei datori di lavoro giacché non riguardano solo il benessere individuale: infatti, avere personale resiliente produce un vantaggio competitivo per le stesse organizzazioni, dal momento che non solo ha effetti positivi sulle prestazioni, ma costituisce un fattore di miglioramento della complessiva prontezza di risposta e adattabilità delle organizzazioni alle dinamiche dei mercati. Si può parlare, cioè, di una “resilienza organizzativa” vista come capacità delle organizzazioni di percepire e rispondere rapidamente ai cambiamenti, sia che si tratti di afferrare una nuova opportunità o che si debbano affrontare potenziali minacce competitive.
Gli studi psicologici recenti ci riservano una buona notizia: sebbene alcune persone sembrino nascere con maggiori capacità di recupero di altre, tutte in realtà possono migliorare la loro capacità di far fronte alle difficoltà, lottare con grinta e prosperare anche quando il gioco, come si dice, si fa duro. In sostanza, la resilienza viene oggi intesa come una dote malleabile, ovvero una competenza che può essere appresa e rafforzata attraverso la formazione, la pratica, il sostegno sociale e specifiche iniziative di tipo psicologico, come il counseling di carriera e il coaching.
Naturalmente viene chiamato in causa anche un contesto culturale e organizzativo facilitante, ossia sensibile e pronto a recepire le istanze di potenziamento della resilienza lavorativa. Ciò significa, per esempio: a) assumere, ai vari livelli organizzativi, un’ottica preventiva piuttosto che reattiva di fronte a situazioni che rischiano di incrementare i livelli di stress e di incrinare la qualità delle relazioni (discriminazioni, condotte controproduttive quali aggressività, inciviltà, intolleranza per le diversità ecc.); b) incoraggiare i manager a impegnarsi per la sicurezza e il benessere lavorativi, rendendoli più consapevoli dell’utilità di aiutare i dipendenti a gestire le situazioni difficili e a sviluppare capacità di risoluzione dei problemi, permettendo di imparare anche dagli errori o insuccessi senza insensate minacce di sanzioni.
Guido Sarchielli è professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna.
Riferimenti bibliografici
Kašpárkovà L., Vaculík M., Procházka J., Schaufeli W. B. (2018), «Why resilient workers perform better: The roles of job satisfaction and work engagement», Journal of Workplace Behavioral Health, 33 (1), 43-62.
Mehta M. H., Grover R. L., Di Donato T. E., Kirkhart M. W. (2019), «Examining the positive cognitive triad: A link between
resilience and well-being», Psychological Reports, 122 (3), 776-788.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 277 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui