Dare per ricevere
Il modo migliore per ottenere è dispensare. Una cosa che è difficile far capire all’ottusità egoistica.
Da secoli si dibatte se sia migliore una vita vissuta attraverso rinunce e sacrifici o una consumata da atti di cui ci sentiamo in colpa. Nel primo caso abbiamo una visione filosofica in linea con la tradizione cattolica, nell’altro una prospettiva che enfatizza l’espressione del singolo e di una logica del vantaggio economico anche a danno dell’altro. È chiaro che chi si allinea al primo punto di vista ritiene piena una vita di astinenza da comportamenti immorali, mentre chi aderisce al secondo pensa che la rinuncia alle sue personali conquiste sia la peggiore delle colpe con cui poter fare i conti. I due opposti filosofico-esistenziali sembrano inconciliabili, ma, come cercherò di mostrare in queste righe, in realtà lo sono soltanto se si concepisce un mondo manicheista regolato dal conflitto tra gli opposti.
Se, infatti, analizziamo il fenomeno da una prospettiva psicologica pragmatica, possiamo scoprire che c’è un’alternativa a tutto questo: non una mediazione tra le parti, bensì un modo totalmente diverso di gestire il nostro agire per evitare di trovarsi a scontare, attraverso il senso di colpa, ciò che abbiamo commesso provocando dolore e danno oppure ciò che non ci siamo permessi condannandoci all’infelicità. La domanda diviene allora: possiamo realizzare i nostri desideri, sospingere i nostri sogni, raggiungere le nostre mete senza danneggiare altri o sé stessi, o violando le nostre regole morali? Come si può ben intendere, così si cambia prospettiva, optando per una visione strategica che libera dal contrasto tra gli opposti, facendoci focalizzare sulla pragmatica del nostro agire nel mondo in relazione con gli altri e con noi stessi.
La seconda domanda, puramente strategica, da porsi è: posso io realizzare me stesso indipendentemente dal rapporto con gli altri e con il mondo? La risposta evidente è che non è possibile essere felici da soli, ho bisogno comunque degli altri per realizzare me stesso. Il piacere solitario non è mai completo, anzi si trasforma in rinuncia a qualcosa di più elevato, di cui poi pentirsi. Pertanto, posso realizzare davvero me stesso e i miei desideri solo in relazione con l’altro e il mondo in cui vivo.
Questa assunzione ci conduce allo scoprire che l’agire egoistico per eccellenza diviene decisamente altruista, poiché se vogliamo stare davvero bene, possiamo conseguire ciò solo facendo stare bene le persone a noi vicine. Il logico norvegese Jon Elster alcuni decenni orsono sviluppò il calcolo matematico per cui l’«egoista» di successo è colui che inizia con l’offrirsi agli altri; spargendo così disponibilità, aiuto, sostegno, quello che gli tornerà indietro dalle persone a cui avrà dato tutto questo sarà molto più di quanto avrà dato lui. Ciò significa che essere attenti all’altro e alle sue esigenze e desideri aiutandolo a realizzarli rappresenta un investimento ad alto rendimento, poiché il più delle volte con poco si finisce per ottenere tanto.
È prevedibile, altresì, che ci sarà qualcuno che tradurrà tale costruttiva dinamica per suoi individuali profitti, ma questi non tarderà ad essere svelato e isolato se continua a investire sul “dare” solo per afferrare il “ricevere”. Si pensi, per esempio, al potere della gentilezza come atteggiamento e comportamento verso gli altri: essa genera un’interazione che fa sentire l’altro accolto, considerato e valorizzato, per cui tenderà a rispondere nella stessa maniera rimandandoci indietro un senso di piacevolezza che ci fa sentire decisamente bene e che eleva il nostro senso di desiderabilità sociale, che a sua volta migliora il nostro benessere personale e la nostra autostima.
Tutto ciò dimostra concretamente come attivando comportamenti e atteggiamenti rivolti al benessere altrui coltiviamo il nostro. Mentre se tendo a voler soddisfare egocentricamente solo i miei vantaggi, finirò per essere isolato e rifiutato quando non sarò più, mio malgrado, utile. Mi sono occupato, negli ultimi tempi, della solitudine (Nardone, 2020), che il più delle volte viene generata dalla scarsa attenzione data all’altro e da comportamenti, diretti o indiretti, di puro egocentrismo. Ci si dimentica o si sottovaluta che la cura dell’altro è anche la cura di sé.
Per concludere, dovrebbe apparire chiaro come sia possibile interpretare una vita che non conduca al senso di colpa come condanna autoinflitta a sé stessi. Mai dimenticare le parole dello psicologo, anche se ben più famoso come scrittore, Aldous Huxley: «La realtà non è quello che ci è accaduto, ma quello che facciamo con ciò che ci accade».
Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Nardone G. (2020), La solitudine. Capirla e gestirla per non sentirsi soli, Ponte alle Grazie, Milano.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui