Dipendenza da gioco d’azzardo
Nella ludopatia ci sono tante componenti inconsce. A partire dalla fantasia di uccidere e fare rinascere sé stessi mediante la dissipazione e la ricostituzione di insperate fortune.
Anche se vecchio come il mondo, il gioco d’azzardo è entrato solo negli ultimi tempi tra le forme di dipendenza, e solo di recente se ne sono occupati filosofi come Pier Aldo Rovatti, sociologi come Alessandro Dal Lago, psicologi e psicoterapeuti come Rolando De Luca, Giorgio Nardone, Federica Cagnoni nonché giornalisti di approfondimento come Silvana Mazzocchi, autrice di Vite d’azzardo. Storie vere di giocatori estremi (2002), secondo la quale il gioco d’azzardo è caratterizzato da un desiderio irrefrenabile di tentare la sorte. Questo desiderio è apparentemente motivato dalla prospettiva di un facile guadagno, ma al di sotto sembrano esserci in realtà il piacere di gestire la propria autodistruttività e, in ultima analisi, un desiderio di sfidare la morte.
Ispirandosi a Il giocatore di Fëdor Dostoevskij, la psicoanalisi ritiene che ad alimentare tale dipendenza sia la fantasia di annientare e partorire spontaneamente sé stessi attraverso la distruzione e la creazione di insperate fortune. Non di rado questa fantasia è accompagnata da un’incertezza in ordine al genere maschile e femminile, simboleggiati dal rosso e il nero di una roulette impazzita, e da anale avidità di denaro, spesso affiancata da una sorta di coazione onanistica.
Lontana da questa lettura psicoanalitica è la teoria del sociologo Alessandro Dal Lago, per il quale nell’azzardo ad essere in gioco è il nostro carattere, dato che il carattere è innanzitutto una “posta sociale” dove l’eccitazione dev’essere controllata, l’entusiasmo trattenuto, la delusione mascherata, l’apprensività appena percettibile. Nel gioco d’azzardo, infatti, ciò che si rischia è la propria persona, ossia quella “maschera” (secondo l’etimologia latina della parola) che si interpone tra la propria soggettività e la sfera degli altri. Nell’azzardo, pertanto, ciò che si gioca non è tanto il denaro, quanto la soggettività profonda che dorme in ciascuno di noi e che oscuramente si vuole rivelare.
Come si vede, è sufficiente cambiare scenario scientifico, e muoversi dalla psicoanalisi alla sociologia, per assistere alle letture più diverse, per cui penso che sarebbe più utile, per comprendere la dipendenza da gioco d’azzardo, rivolgersi a qualche responsabile di centri di terapia per giocatori del genere, che, stante la diffusione di questo tipo di dipendenza, si stanno aprendo in tutta Italia. Rolando De Luca, autore di La terapia di gruppo oltre l’azzardo di stato, uno dei massimi esperti italiani della dipendenza di cui parliamo, ritiene che, sottesa al gioco d’azzardo, vi sia la sottile ansia che corrode una vita che al soggetto appare piatta o troppo poco interessante, senza veri stimoli, senza particolari rischi, spinta fino al limite dell’autodistruttività. Sennonché, a differenza del giocatore sportivo, il giocatore d’azzardo non può in alcun modo interagire nel proprio gioco, non può impegnare la propria intelligenza, né tantomeno la propria forza fisica. La sua è una condizione di passività. E anche se si considera superiore agli altri in quanto amante del rischio, in realtà egli se ne sta semplicemente in attesa della sentenza della sorte, confidando in potenze superiori sulle quali non esercita alcun controllo.
Dipendenza da gioco d’azzardo - Umberto Galimberti
La personalità del giocatore d’azzardo, scrive lo psicologo e psicoterapeuta De Luca nell’Introduzione al succitato libro di Silvana Mazzocchi, è caratterizzata da «una immaturità emozionale, una troppo spiccata sensibilità ansiosa, una timidezza legata a inibizioni verbali, un mascheramento delle emozioni con specifici tratti di impulsività spesso incontrollabili. Il gioco d’azzardo patologico viene considerato pertanto un disturbo del controllo degli impulsi e allo stesso tempo una forma di dipendenza (tossicomania legale senza sostanze stupefacenti), in quanto chi gioca per abitudine difficilmente riesce a controllarsi, anzi, aumenta progressivamente le somme di denaro e il tempo destinato al gioco d’azzardo, nascondendo la gravità del problema a se stesso e ai suoi familiari».
«Ma il vero gioco d’azzardo – prosegue De Luca –, la vera sfida (che in qualche modo, a livello inconscio, tutti i giocatori tentano), non è quello che si affronta dentro il casinò o alle sale delle corse, ma piuttosto il confronto estremo con la morte, confronto che ovviamente può assumere connotazioni variamente simboliche. In un certo senso, il giocatore affronta la sfida della morte con la convinzione di poterla giocare e, nell’illusione che ciò avvenga, egli raggiunge un appagamento ineffabile che sa di onnipotenza. […] In molte storie di giocatori emerge questa sfida suprema: superare e sconfiggere, momentaneamente, la morte, perché è la vita, in fondo, e non soltanto il denaro, a essere messa in gioco. Perché allora continuare a chiamarlo gioco e non semplicemente azzardo?».
Affine alla patologia che affligge chi gioca d’azzardo è la patologia che può caratterizzare chi gioca in borsa, talvolta più pericolosa perché, come segnalano Giorgio Nardone e Federica Cagnoni in Perversioni in rete (2002), grazie alla legittimità che gli viene attribuita il gioco in borsa non è attraversato dai sensi di colpa che solitamente accompagnano chi gioca d’azzardo, e quindi in chi perde per aver investito manca quel leggero freno che il senso di colpa può indurre invece in chi perde per aver giocato.
Umberto Galimberti, membro dell’International Association of Analytical Psychology, ha insegnato Filosofia della storia all’Università di Venezia. Autore di molti volumi, tradotti anche all’estero, collabora con la Repubblica.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
De Luca R. (2012), La terapia di gruppo oltre l’azzardo di stato. Diari da Campoformido, Edizioni Goliardiche, Trieste.
Mazzocchi S. (2002), Vite d’azzardo. Storie vere di giocatori estremi, Sperling & Kupfer, Milano.
Nardone G., Cagnoni F. (2002), Perversioni in rete. La psicopatologia da internet e il loro trattamento, Ponte alle Grazie, Milano.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui