Diritti umani come priorità
L’incontro/scontro tra culture differenti può avere implicazioni significative: ecco perché la psicologia deve adottare un approccio multiculturale ed essere un fattore di tutela e protezione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza
Per noi psicologi, professionisti naturalmente vocati alla promozione e alla tutela dei diritti umani, è di fondamentale importanza la conoscenza delle convenzioni internazionali ratificate dal nostro paese. Una delle più importanti fra queste è certamente la UNCRC, United Nations Convention on the Rights of the Child, i cui principi definiscono e guidano l’operato di ogni cittadino e ancor di più di ogni professionista, che ha a che fare con il mondo dei più giovani. Questa Convenzione è, ad oggi, la più ratificata al mondo. All’appello mancano solamente gli Stati Uniti a causa dell’incompatibilità dei principi in essa contenuti con l’istituto della pena di morte per i minorenni, purtroppo ancora in vigore in alcuni stati USA. Perché questa convenzione è tanto importante e ha segnato un passaggio epocale per la nostra civiltà? Innanzitutto per il fatto di attribuire al bambino, alla bambina e all’adolescente una soggettività che nella storia non avevano ancora mai avuto. Dall’essere oggetti da tutelare e proteggere, grazie ad essa divengono soggetti di diritto; persone che nascono con diritti inalienabili e fondamentali che non vengono acquisiti soltanto alla maggiore età. La convenzione propone quindi «l’immagine di una infanzia caratterizzata da due dimensioni: risorse preziose e vulnerabilità delicate, descrivendoli come protagonisti attivi della loro vita e della loro comunità», (Sbattella e Scaduto, 2018). I quattro principi su cui si poggia la CRC sono il principio di non discriminazione (art. 2), che si basa sul fatto che i diritti sanciti nella convenzione vengano applicati senza alcuna distinzione; il principio di «best interest of the child» (art. 3), che chiarisce come in ogni decisione che riguarda il minorenne il suo interesse deve avere sempre la priorità; il principio di vita, sopravvivenza e sviluppo (art. 6), che sancisce che ogni bambino, bambina o adolescente ha diritto prioritario alla vita, che deve essere garantito da ogni Stato; il principio di partecipazione, ascolto e rispetto delle opinioni del minorenne (art. 12), che sancisce che i minorenni devono essere ascoltati e coinvolti in ogni decisione che li riguarda.
I DIRITTI DEI BAMBINI NELLA PRATICA PSICOLOGICA
Che significato hanno, nello specifico, gli articoli di questa Convenzione nella vita di un professionista? Il principio di non discriminazione sottolinea e definisce i posizionamenti etici da tenersi rispetto alle questioni politiche, religiose, etniche, linguistiche, e sancisce altresì l’uscita necessaria da posizioni universalistiche astratte. Non esistono famiglie buone/cattive in astratto, ma esse lo sono solo in reazione al contesto ove vivono. Dobbiamo però chiarire che se questa distinzione è vera rispetto ad alcuni parametri generali, esistono al pari condizioni particolari che sono da considerarsi imprescindibili e assolute: abusare del corpo di una bambina, o di un bambino, è sempre intollerabile. Nello specifico, picchiare il minorenne, abusarne sessualmente, psicologicamente, attraverso pratiche sociali intollerabili come l’indottrinamento ideologico, il mancato rispetto delle condizioni sanitarie, l’infibulazione, la tortura e altri abusi palesi analoghi a quelli elencati, non può mai essere tollerato. L’articolo 2 della Convenzione afferma dunque una serie di tutele specifiche che per essere individuate e garantite chiamano in causa specifiche professionalità più di altre. È proprio qui dunque che lo psicologo o il medico sono chiamati da un lato a riconoscere e definire modalità operative relativiste e centrate sulle specificità individuali, dall’altro devono essere pronte a riconoscere, a prevenire o a curare i segni di violazioni considerate sempre inaccettabili.
Altri esempi di queste declinazioni riguardano il modo di allevare un figlio che varia a seconda delle abitudini e delle ontologie specifiche. Lo psicologo nel proprio lavoro deve tenere conto delle differenze legate all’etnia, alla lingua, alle maniere di far crescere i figli. Le pratiche di affido possono essere condotte in maniera discriminatoria, per il bambino, se non si tiene conto dell’etnia, del colore della pelle, delle pratiche di allevamento riconosciute localmente. Il rischio che corriamo, come psicologi, è quello di applicare teorie astratte, elaborate perlopiù nei manuali, che tendono a generalizzare forme di attaccamento che sono specifiche di alcune aree e ceti sociali del mondo occidentale. Inoltre, se non si considerano le condizioni socioeconomiche di una famiglia o di una madre, si corre l’ulteriore rischio di fare una “parentectomia” devastante. Lo psicologo deve interessarsi dunque ai contesti di povertà, emarginazione, discriminazione sociale per rimuovere i fattori che ostacolano la comprensione reale delle vite su cui impatta con il proprio lavoro. Non possiamo non ricordare esperienze come quella di Child Guidance a Philadelphia (Minuchin, 1986) dove, anche nelle condizioni più difficili, la struttura prevedeva di mantenere la famiglia unita prevedendo persino strutture residenziali per il nucleo familiare, sapendo che, se il bambino prova un legame di attaccamento, il sentito del bambino non deve essere violato, pena una violazione di molteplici suoi diritti e un danno superiore alla tutela che ci si prefiggeva.
L’art. 6 spinge a promuovere azioni politiche e sociali volte a creare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e lo sviluppo dei bambini: anche gli psicologi dunque hanno questo dovere.
Se il nostro paese ha firmato la convenzione CRC, tutti hanno il compito di rispettarla e farla rispettare, di mettere in evidenza e indignarsi di fronte a tutte quelle condizioni in cui i diritti dei bambini vengono violati.
LA UNCRC E LA DEONTOLOGIA PROFESSIONALE
Rispetto alla partecipazione spesso si assiste a un “eccesso di expertise” da parte del personale sociosanitario, che pensa di poter decidere senza coinvolgere le famiglie. Altre volte, viceversa, si vedono consulenze tecniche calate dall’alto in cui il riferito del minorenne diviene oro colato che si ritorce contro le famiglie senza che queste siano state rese partecipi del processo decisionale.
Ciò che dobbiamo promuovere è l’ascolto reciproco, il coinvolgimento, l’advocacy del minorenne e un suo percorso di corresponsabilità partecipe in una scelta che deve essere sempre anche sua per ciò che lo riguarda. È il recupero delle relazioni fondamentali come termini al contempo assoluti e specifici. Ricordiamo una frase di uno dei massimi esperti relativi a questi temi, Maurizio Andolfi (2016): «Il peggiore dei genitori è migliore del migliore dei terapeuti», una piccola provocazione che ci dovrebbe aiutare sempre a pensare, anche per esempio nei termini del rispetto e della promozione della tenerezza entro il lavoro clinico. Il codice deontologico non è un insieme astratto di regole: va seguito con uno spirito di apertura e ascolto (Nancy, 2002).
Sul piano della psicologia clinica e sociale, la CRC non fa altro che recepire un messaggio che sta già al fondo del nostro modo corretto di lavorare. Quando Melanie Klein (1978) propose di correggere il termine “fase” con il termine “posizione”, anticipò gli elementi chiave di questa nuova convenzione. Il bambino non è una tabula rasa, né la madre un organizzatore esterno. Ciò che scrisse Klein su questo argomento, indipendentemente dal resto delle sue considerazioni generali, significa in primo luogo che alla nascita si assiste già a una relazione: il soggetto alla nascita è già in una relazione di tenerezza, il soggetto è due, la simbiosi è un passaggio necessario per lo sviluppo psicofisico del neonato. La posizione schizoide, così come la definisce Klein, non è patologica; al contrario è una fusione necessaria, un periodo specifico e fondamentale perché avvengano altre posizioni del soggetto, nello sviluppo. L’oggetto di transizione, che introduce nelle sue osservazioni il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott (2006), indica un attraversamento necessario e delicato dalla posizione schizoide verso tutte le altre difficoltà relazionali che il bambino/adolescente incontra durante lo sviluppo. Sono processi fisiologici dello sviluppo, ma possono incontrare barriere: maltrattamenti, ospedalizzazioni, povertà e discriminazioni. Uno dei rischi che uno psicologo deve sempre tenere in considerazione, se lavora in una istituzione sanitaria, è il rischio iatrogeno (Telfener, 2022). Si tratta dunque di pensare come creare una clinica del sociale che tenga conto della complessità del nostro intervento, senza però mai patologizzare a priori nuove e diverse forme di condotta o di protesta giovanile, individuale e sociale (Barbetta, 2019).
PRESENTAZIONE DI UN ESEMPIO CLINICO/SOCIALE
Una donna immigrata dall’Africa subsahariana viene condotta presso un locale centro psichiatrico territoriale dal marito con cui ha attraversato il Mediterraneo su una nave. Dal racconto sembrerebbe che la donna abbia partorito sulla nave e che ci fosse anche, durante la migrazione, un altro bambino intorno ai 2 o 3 anni. Le cose non sono chiare: infatti, benché il marito si esprima in inglese, la sua pronuncia risulta incomprensibile agli operatori. Il marito non viene incluso nella conversazione con gli operatori e della donna, che chiameremo Vivian, si riescono a comprendere alcune frasi come la seguente: «sono figlia di una regina bianca». Le vengono somministrati farmaci antipsicotici e Vivian cade in uno stato di passività; dopo qualche tempo i famaci le vengono scalati, visto l’effetto «quasi catatonico» che hanno su di lei. A quel punto Vivian diventa «aggressiva» e somministra «borsettate», nel senso che aggredisce le operatrici donne del servizio. Si pensa possa esserle di giovamento l’inserimento in una comunità di donne africane come lei, una comunità mista di donne appartenenti a diversi paesi (Senegal, Nigeria, Ghana, Costa D’Avorio ecc.) e a gruppi linguistici (popoli) diversi: Wolof, Poular, Igbo, Youruba, ecc., pensando che questo possa reintegrarla sul piano sociale e comunitario. Le sue reazioni aggressive invece, a detta degli operatori, accrescono. Ciò porta i servizi ad aumentare il dosaggio farmacologico che ha come effetto collaterale quello di ridurre l’aggressività di Vivian, ma non ha effetti sui “sintomi negativi” del delirio; semmai rende la donna mutacica e glossolalica, si esprime con parole incomprensibili, forse nella sua lingua madre locale. Nel frattempo il marito si separa da lei e riceve l’affidamento dei due figli. Sono passati circa due anni e, dopo queste prime peripezie, la donna viene collocata (come un oggetto “imbarazzante”) in una comunità psichiatrica a rischio. Tuttavia lo psichiatra che dirige questa comunità si rende conto che qualcosa non ha funzionato negli interventi precedenti e contatta un’organizzazione di psicologi, medici e antropologi che si occupa di etno-clinica.
Lo psichiatra chiede a tutti i servizi che nel tempo hanno seguito Vivian di partecipare all’incontro. Si presentano tutti, tranne il servizio minori. Da qui emerge il racconto scritto sopra, dove le parole virgolettate emergono dagli operatori.
Analizziamole una per una:
«Sono figlia di una regina bianca»: chi la riferisce segnala che questa frase «è un chiaro segno di derealizzazione», e durante la conversazione chiediamo a questo collega come mai, anziché essere così sicuro che fosse una «derealizzazione», non avesse fatto anche l’ipotesi che si trattasse di una rêverie materna, ipotesi formulata dallo psicoanalista Wilfred Bion (1962). La risposta del collega è che non conosceva questa ipotesi clinica e non ci aveva pensato. Per chi lavora con i diritti umani, le ipotesi cliniche non sono vere o false, ma devono tenere conto dell’impatto metaforico che hanno nella comunicazione e delle possibilità evolutive che aprono al fine di liberare il soggetto dai suoi sintomi.
«Quasi catatonico»: così viene riferito da alcuni colleghi che hanno osservato il cambiamento di stato di Vivian dopo un possibile sovradosaggio farmacologico. Fuori da ogni opposizione riguardo all’uso di psicofarmaci, quando necessario, ci domandiamo se, a volte, i sovradosaggi, o anche le normali somministrazioni, non vengano usati per gli effetti collaterali e non per gli effetti mirati. Ognuno sa che i diversi tipi di farmaci hanno una prescrizione specifica sui disturbi dell’umore, i disturbi, psicotici, le depressioni e gli stati ansiosi. Non siamo ingenui oppositori alle somministrazioni farmacologiche, sappiamo anche che si possono usare, temporaneamente, anche farmaci diversi. Ci domandiamo però se, a volte, se i sovradosaggi farmacologici, o le somministrazioni multiple di farmaci, non servano più in funzione di “ordine pubblico” che in senso sanitario.
«Aggressiva», «borsettate» sono termini che descrivono gli episodi di aggressività della donna conseguenti a un trattamento in cui il colloquio clinico è assente a causa dei nostri deficit di competenza linguistica, come è possibile che un servizio sociosanitario non prenda in considerazione la possibilità, peraltro prevista, di essere aiutati da un traduttore parlante nativo.
«Sintomi positivi» indica l’uso di un linguaggio che dà per scontato che si tratti di schizofrenia: come nel primo punto, la mente collettiva del servizio si sta orientando verso l’idea di una cronicizzazione del disturbo.
«Imbarazzante» è una definizione che si riferisce a una categoria giuridica ampiamente discussa e contestata in molti paesi, il vetusto concetto di “comune senso del pudore”. Ancora emerge la funzione repressiva di ordine pubblico, che non compete alle istituzioni sociosanitarie che devono produrre salute mentale e allargare l’ambito delle scelte possibili della persona.
A questo vanno aggiunte altre osservazioni conseguenti a ingenuità psicologiche dei servizi, mancata conoscenza della deontologia professionale, mancata conoscenza del CRC, come per esempio la separazione della madre dai figli sulla base di principi astratti e scorretti (l’idea che una madre che soffre di disordini mentali sia necessariamente nociva o pericolosa per il figlio, oppure l’idea che ponendo “l’oggetto donna nera” in una comunità di donne nere si possano risolvere, e non acuire, le sofferenze o le reazioni aggressive alla sofferenza).
Il dirigente della comunità si rivolge a un gruppo di psicologi, medici e antropologi con competenze etno-cliniche. Finalmente i diritti di Vivian vengono accolti e si decide di far entrare l’équipe etno-clinica presso la struttura psichiatrica per un percorso clinico. Un primo passo verso la liberazione psicologica della donna. L’équipe si reca in comunità con un mediatore nato nello stesso territorio, che conosce bene la sua stessa lingua, e soprattutto che ha competenze relazionali adeguate ad accogliere la sofferenza di una sua connazionale, che non è l’unica donna di quella terra che vive una forte dissonanza etnica in Europa.
All’inizio il colloquio è faticoso, Vivian parla a monosillabi – né inglese, né lingua del suo popolo, né italiano, né forme dialettali – e si fatica a capire. Poi improvvisamente ci dice alcune cose importanti. Ci dice, un po’ in inglese, un po’ nella sua lingua, di essere la figlia di una «principessa bianca delle acque», usa un termine locale che la definisce come «spirito particolare del suo popolo».
A Vivian è stato assegnato come amministratore di sostegno un funzionario dell’istituzione che non ha mai avuto tempo di occuparsene. L’équipe propone di dare a Vivian come tutrice un’avvocata impegnata nei diritti umani. In poco tempo, grazie alla nuove tutrice, Vivian ottiene nuovi documenti identitari; la tutrice va spesso a trovarla in comunità, partecipa alle riunioni di équipe tra centro etno-clinico, servizio minori, psichiatria istituzionale (CPS), comunità psichiatrica che la ospita e servizio minori. Durante le riunioni riferisce che Vivian e lei vanno al bar, a fare shopping, dal parrucchiere, ai negozi alimentari, a passeggio e che Vivian è cortese e del tutto capace. I servizi stanno cercando di trovare per lei un appartamento dove vivere nella possibilità di farle incontrare nuovamente i figli. Questo è il lavoro psicologico richiesto: ottenere il diritto alla libertà della persona, riottenere la liberazione del corpo femminile, ricongiungere le madri con i figli ogni volta che ciò sia possibile.
Nessuno credeva più che Vivian avesse parlato, le era stata tolta la lingua madre, non le era stata data nessuna lingua di accoglienza, si era perduta la legge dell’ospitalità.
Pietro Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, insegna Teorie psicodinamiche all’Università di Bergamo ed è membro di World Association for Cultural Psychiatry (WACP). È autore di diversi volumi, tra cui: Anoressia e isteria (Raffaello Cortina Editore), Figure della relazione (ETS), I linguaggi dell’isteria (Mondadori Università).
Gabriella Scaduto, psicologa e psicoterapeuta, dal 2020 Consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, è referente per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza di OPL. Membro del comitato scientifico degli Stati Generali delle donne, è presidente dell’associazione RediPsi Reti di psicologi per i diritti umani.
Bibliografia
Andolfi M. (a cura di), (2016), Il bambino nella terapia familiare, Franco Angeli, Milano.
Bion W. (1962), Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma.
Klein M. (1978), Scritti 1921-1958, Bollati, Torino.
Minuchin S. (1986), Family Kaleidoscope, Harvard University Press, Cambridge.
Sbattella F., Scaduto G. (2018), Promuovere e difendere i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Il contributo della psicologia, Franco Angeli, Milano.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 287 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui