Generazioni in azienda e apprendimenti reciproci
Per ridurre lo scarto fra generazioni e abilità diverse, ancora presente in molti contesti professionali, ecco una lettura originale degli scambi che si possono promuovere nelle organizzazioni tra giovani e meno giovani.
Le persone manifestano bisogno di continuità. Al di là delle apparenze. Durante molti focus group condotti sul tema dell’apprendimento con figure di media e alta direzione d’impresa, ho avuto occasione di confrontarmi con racconti di management elaborati dai partecipanti di diverse generazioni: ciò che è emerso è molto istruttivo. Dalle storie narrate, forte è il senso di mancanza e di delusione quando sono carenti figure manageriali riconosciute e significative.
DA MENTORE A KILLER
Alcune figure senior hanno il piacere di assumere il ruolo di mentore verso chi è più giovane, affidano a questo ruolo senso e significato del proprio essere più anziani e, come tali, del proprio essere utili a chi ha quella speciale energia vitale di proiezione verso il futuro e davanti a sé una vita professionale (e non solo) tutta da costruire, fra desideri, incertezze, timori e fantasie.
È in questa prospettiva che sostenere chi è giovane nell’acquisire o potenziare una visione strategica, definire le priorità, affinare la capacità di mediare e prendere posizione, vivere come valore il trasferimento delle esperienze acquisite sono tutti comportamenti che diventano valore aggiunto e apprendimento per il giovane stesso, oltre che per il mentore.
Altre figure senior, al contrario, assumono, consapevolmente o meno, il ruolo di killer nella dinamica d’influenza interpersonale, forse inquinate da quel sentimento denominato «invidia generazionale» (Kets de Vries, 1999), che tanti danni crea non solo nelle organizzazioni d’impresa, ma nella società tutta.
Talvolta è difficile anche per questa ragione il passaggio generazionale all’interno delle piccole e medie imprese fra l’imprenditore fondatore e i figli o familiari più giovani, comunque interlocutori di riferimento per il passaggio di testimone (Castiello d’Antonio, 2013). Pure in ambiti di direzione politica o di ruoli di responsabilità di vertice di altro tipo di organizzazioni è diffusa la resistenza a cedere il passo – in questo caso, lasciare il posto di potere – a chi è più giovane (senza qui parlare degli ostacoli in special modo verso le donne, ma questa è tutta un’altra storia).
Ciò non significa presumere che chi è più giovane – al di là del genere – sia necessariamente più preparato o sia competente tout court, ma non è scontato nemmeno che chi difende a spada tratta la propria posizione di direzione raggiunta da tempo sia più preparato o competente del giovane. Ha, caso mai, quell’esperienza che chi è più giovane non può avere in senso anagrafico.
Inoltre l’esperienza di chi è più giovane – e se non la si intende come sinonimo di “anzianità” – può essere diversa rispetto a chi è anziano in altri campi, verso i quali magari costui non si è mai o quasi mai misurato o i quali rappresentano addirittura settori sconosciuti su cui, quindi, egli non può fare altro che o far finta di nulla chiudendosi a riccio o, in positivo, muovendosi in spirito di apprendimento e con curiosità, ricevendo input e indicazioni proprio dalla figura più giovane.
Se sperimentare, osservare, trasgredire sono alcuni strumenti fondamentali di apprendimento soprattutto per i più giovani, in particolare i senior dai giovani possono apprendere approcci e valori inerenti alla flessibilità, all’entusiasmo per la capacità di motivare, all’importanza del feedback, alle nuove tecnologie e ai loro segreti, alla praticabilità o anche solo alla creatività di idee innovative, al “fare rete” e “fare lobby” (nel senso anglosassone, cioè senza retropensieri corporativistici o interessi dietrologici), al guardare alle diversità con apertura e interesse.
Nei contesti dei dialoghi intergenerazionali costruiti con laboratori ad hoc in azienda, i bilanci decisamente positivi espressi dalle persone partecipanti – di differenti fasce di età/generazioni – variano dal percepire queste occasioni come molto importanti per apprendere a rielaborare e a capire, al percepirle come uno stimolo a comprendere il passato proprio e quello dell’organizzazione, e come illuminanti per cogliere un nuovo approccio all’apprendimento, la visuale della variegata realtà organizzativa e la conferma che non si finisce mai di crescere.
Le generazioni esprimono le proprie differenze anche sul lavoro con valori e necessità, significati e motivazioni che talvolta diventano anche conflittuali per incompatibilità o a causa di approcci comunicativi e comportamentali tesi a influenzare le percezioni reciproche e potenzialmente a non facilitare le relazioni interpersonali e professionali.
Le organizzazioni sono sistemi di apprendimento, le fonti e strade del sapere organizzativo sono le più diverse: le esperienze positive-negative, le conoscenze del contesto, i comportamenti delle figure leader, le procedure scritte e quelle non scritte ma da applicare, i processi e i colloqui di feedback, le occasioni ufficiali di formazione, lo scambio con risorse “esterne”, la comunicazione interna e quella extra-aziendale, le interazioni tutte nei team workstation, le pause-pranzo/caffè.
APPRENDERE IN AZIENDA
Favorire l’apprendimento tra le generazioni diventa un imperativo per molte imprese che intendono mettere a frutto il cosiddetto capitale umano e il know-how rappresentato da soggetti di identità generazionali differenti che le aziende hanno tra le proprie R.U. o che vogliono attrarre.
Nella vita d’impresa sembra poi necessario che le R.U. interagiscano sempre più “tra pari” e non in un rigido rapporto up/down, in base a come fino a pochi anni fa era paternalisticamente inteso il rapporto con i giovani, fermo restando il rispetto dei ruoli gerarchici e della buona educazione che regola le relazioni interpersonali, o che dovrebbe regolarle (Castiello d’Antonio e d’Ambrosio Marri, 2017).
Se apprendere in azienda può essere inteso dalle persone con vari significati – sviluppare una visione da una prospettiva diversa, affrontare questioni innovative, sviluppare flessibilità, profondità di analisi, motivazione di crescita ed entusiasmo –, insegnare ad apprendere in azienda significa per alcuni gestire informazioni con responsabilità, per altri dare valore alla motivazione dei collaboratori, per altri ancora saper interagire con il management, oppure sviluppare astrazione e comprendere il più ampio contesto, per altri ancora apprendere e individuare i centri d’influenza, capire l’approccio che le persone utilizzano nelle relazioni con gli altri quando propongono, o ascoltano e valutano, analisi e soluzioni dei problemi o degli obiettivi da realizzare.
Si tratta, quindi, di «uscire dagli stereotipi che talvolta dividono l’azienda tra aree Jurassic Park e aree Disneyland per i newcomers o per i cosiddetti Yers, i nati negli anni Ottanta della Generazione Y. E favorire innovazione, dialogo, valorizzazione dell’esperienza a vantaggio di tutti» (d’Ambrosio Marri, 2013).
Esercitare il potere dell’apprendimento reciproco e soprattutto intergenerazionale diventa oggi un valore da praticare sempre più diffusamente. Da qui potremmo anche pensare che lo slogan che andava di moda qualche decennio fa, «L’immaginazione al potere», mostra oggi la sua parte di attualità e può tornare utile anche inteso come potere per/di ognuno di noi, aziende comprese. Queste, infatti, agiscono per un dovere imperativo sul terreno e sui campi di battaglia dell’innovazione, ma spesso sono un po’ restie a prendere atto che esistono “tecniche” di ragionamento e potenziamento del nostro cervello necessarie e altrettanto imperative se si vogliono adottare cambi significativi di prospettiva e risolvere problemi di natura “non tecnica” ma altrettanto complessi, se non di più, in modo appunto innovativo. E quindi superando abitudini e vecchie prassi che mostrano da tempo i loro limiti davanti a situazioni molto differenti e nuove rispetto al passato.
Oggi abbiamo bisogno del magico potere mentale ed emotivo di team in cui approdano e si confrontano persone con competenze ed esperienze differenziate, sentire diversi, angolazioni visive e visionarie di differente prospettiva dato che la realtà è complessa.
La comprensione delle situazioni e dei problemi che sorgono, o che si vogliono prevenire, rende necessaria una lettura articolata che non segue una pura logica lineare, bensì una logica che sia molteplice e tenga conto di chiavi e logiche di soluzioni in ottica “et-et”, cioè plurima e di contemporaneità, e non più nell’ottica oppositiva ed esclusiva della serie “aut-aut”.
Per questo lo scorrere delle generazioni dalla beat generation alla bit generation (Castiello d’Antonio e d’Ambrosio Marri, 2017) va visualizzato per cogliere sfumature o toni forti delle differenze che spesso convivono nello stesso habitat organizzativo. Ciò al fine di facilitare la connessione positiva delle relazioni umane e professionali, in vista di quello che può essere identificato, senza banalità, come il bene comune.
C’è, però, un aspetto da non sottovalutare: come la mettiamo con gli adulti che non vogliono crescere? Crescere, con l’età, non vuol dire automaticamente sviluppare maturità e consapevolezza.
Spesso crescere può essere interpretato, anche inconsciamente, come l’annullamento della parte più giocosa della vita, sostituita dal peso gravoso di responsabilità esistenziali, affettive, lavorative. Il problema è proprio questa percezione o visione dicotomica della vita, che può far paura perché sembra che una volta adulti la vita sia solo un peso, a scapito della leggerezza positiva e del piacere di vivere, presunti come tipici solo di una rimpianta gioventù. Non solo i genitori, quindi, hanno influenza su questa dinamica evolutiva della persona, ma soprattutto la società e i modelli culturali dominanti, comprese le proposte dei mass media.
PER UNA CRESCITA ECOLOGICA
Se Peter Pan e Alice nel paese delle meraviglie si confrontano con i problemi del crescere attraverso storie e avventure di consapevolezza, dell’accoglimento dei propri limiti, dell’imparare dalle esperienze e non solo accumularle “senza pensieri”, con la curiosità del nuovo, la sfrontatezza e l’incoscienza verso le regole, dall’altra parte sin dalle favole per bambini è importante favorire la crescita del bambino verso un percorso di maturità emotiva e intellettiva coerente con la propria fascia di età.
Il rapporto con l’autorità, che coi suoi no delimita i confini tra ciò che si può fare e ciò che non si deve fare, implica di negoziare gli spazi del possibile e ciò che in tale spazio si può osare, riconoscendo che il piacere e un certo proprio grado di libertà sono anche compatibili con il dovere sociale e che, al di là di alcune norme di base, molto spazio e molte direzioni da prendere per essere felici o quantomeno sereni sono frutto di impegno, non sono scontati e di diritto.
Se l’adolescente ha il timore di crescere perché diventare adulto lo spaventa, e d’altro canto, proprio perché adolescente, si sente onnipotente anche nell’andare oltre le righe, è pur vero che solo l’adulto può trasmettergli fiducia sulle sue possibilità di crescere e di divenire ciò che in primo luogo egli sceglierà, tenendo anche conto dei casi della vita e delle sue difficoltà, così come delle sue novità impreviste.
Quando i genitori, i quali rappresentano l’autorità primaria per i figli, sono i primi ad avere paura della propria parte adulta che deve regolare, anche coi no a se stessi e ai figli, spazi possibili, regole e chance, e, per paura di eventuali conflitti che preferiscono evitare, diventano coloro che sono felici di percepirsi e di proporsi come amici dei propri figli, anziché come i loro genitori, ecco che i figli stessi vivono in un clima emotivo di confusione circa i confini dei ruoli e delle implicazioni anche positive del vivere adulto.
È l’equazione adulto è brutto a non funzionare! Gli effetti di quanto sopra ricadono sia sull’adulto sia sui figli. Infatti, i figli non imparano a crescere formandosi un’identità anche mediante il conflitto e il misurare se stessi in un percorso flessibile e dinamico nel rapporto con i genitori; e i genitori cadono nell’ambivalenza di volere figli che crescano autonomi, ma senza dar loro la possibilità di costruire spazi e modi in cui misurarsi – anche rispetto ad eventuali dinieghi ricevuti – con i genitori.
Inoltre quando i genitori, o in generale gli adulti, vogliono atteggiarsi a giovani sia negli atteggiamenti che nel look (magari perché non accettano il progredire dell’età e dunque rivelando scarsa stima di sé in quanto persone), il rischio è che nel figlio rinforzino il senso di vergogna di loro stessi, ovviamente percepiti in qualche modo inadeguati al ruolo che ricoprono. Un altro rischio ancora è quello di inibire nei figli lo sviluppo di una buona stima di sé, presupposto di una base di serenità esistenziale e di consapevolezza delle proprie risorse verso una sana gestione della vita adulta e degli eventi belli, difficili o brutti della vita (Erikson, 1950; 1968).
Ciò, quindi, si ripercuote nella vita di lavoro e nei dialoghi intergenerazionali anche di tipo professionale, giacché le persone afflitte dalla sindrome dell’adultescenza rappresentano un ostacolo tutt’altro che facile da oltrepassare per chi ha bisogno di spazio, di visuale e di territorio per esprimersi, misurarsi e crescere, sul lavoro come nella vita; per chi ha bisogno di riferimenti adulti credibili e autorevoli in azienda e nella società più ampia, anche nell’eventualità in cui ne negasse formalmente la necessità, tra l’altro proprio un indicatore del cammino di crescita che la persona sta percorrendo.
Viviamo in una società occidentale dove il mito della giovinezza, dell’essere performanti quasi sempre e oltre il limite sono forti aspettative sociali e pressioni che le persone ricevono nella vita di tutti i giorni. Pertanto, affrontare l’adultità, conciliare i propri desideri e i progetti con il tempo che passa non è semplice.
Anche nel corso degli “anta”, in molti non sentono l’età anagrafica, fortunatamente grazie a successi derivanti da qualità della vita, prevenzione e medicina, ma il punto critico è tra l’abbandonarsi alle rughe e il far finta che il tempo non esista, camuffando se stessi – basti pensare agli eccessi di chirurgia estetica! – da irriducibili kidult (da “kid” e “adult”, termine nordamericano per indicare adulti che vogliono rimanere ragazzi): in entrambi i casi, il rischio è di diventare la caricatura di se stessi.
Altri rischi sono l’entrare nel circolo vizioso di una rincorsa all’indietro nel tempo o il non godersi più le varie fasi della propria vita, ognuna delle quali – invece di essere idealizzata perché passata o demonizzata per timore del disfacimento futuro – può essere gustata in se stessa, tenendo conto delle cose positive che in quel periodo si possono fare meglio o di più, a differenza di prima, e pensando al proprio passato col senso di orgoglio e di piacere anziché col rimpianto.
Ciò è possibile se si riesce a vivere con il piacere di vivere, senza l’eccessiva frustrazione del tempo che fu e che si rischia solo di mitizzare, dimenticando le angustie e i problemi avuti anche in quella giovane età “dell’oro”.
Riferimenti bibliografici
Castiello d’Antonio A. (2013), L’assessment delle qualità manageriali e della leadership. La valutazione psicologica delle competenze nei ruoli di responsabilità organizzativa, Franco Angeli, Milano.
Castiello d’Antonio, d’Ambrosio Marri (2017), Risorse umane e disumane. Come vivere oggi sul pianeta R.U., Giunti O.S. Psychometrics, Firenze.
D’Ambrosio Marri L. (2013), «Generazioni nelle imprese e riflessioni al futuro attraverso un Festival», Personale e Lavoro, 551.
Erikson E. H. (1950), Infanzia e società (trad. it.), Armando, Roma, 1966.
Erikson E. H. (1968), Gioventù e crisi di identità (trad. it.), Armando, Roma, 1981.
Kets de Vries M. F. R. (1999), L’organizzazione irrazionale. La dimensione nascosta dei comportamenti organizzativi (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 266 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui