Gestione delle emozioni: la paura
Diverse sono le paure soggettive, dovute ai nostri fantasmi interiori, rispetto a quelle oggettive, reali e dimostrabili.
Quest’estate ero in viaggio con la mia famiglia in Sudafrica; dopo una settimana di safari nel parco nazionale del Kruger decidiamo di avventurarci nel Blyde River Canyon, per andare a visitare la foresta pluviale di Graskop. Un ascensore ci trasporta con un salto di 60 metri all’interno del canyon, i bambini ci precedono baldanzosi, sono euforici di camminare circondati da tanta bellezza e, quasi senza accorgersene, si trovano a percorrere un lungo ponte tibetano sospeso tra le due pareti del canyon. Io e mia moglie li seguiamo accelerando il passo. Il ponte è leggero ed elastico, una passerella di legno lunga 230 metri sostenuta da cavi di acciaio. Inizio a camminare sul ponte con l’unica preoccupazione di seguire da vicino i miei figli. Non ho mai avuto timore dell’altezza né sofferto di vertigini, ma improvvisamente qualcosa mette in crisi il mio equilibrio.
Un brivido mi sale lungo la schiena, le gambe cedono, il cuore batte in modo irregolare e mi accorgo di respirare con fatica: il ponte ha cominciato a oscillare. Mi trovo aggrappato ai cavi di sostegno, irrigidito e bloccato, mentre i miei figli camminano spediti verso l’altra sponda. Per fortuna non si sono accorti di nulla. Mi sforzo di comprendere l’utilità di questa emozione che pian piano sta sequestrando la mia parte cognitiva. Ho paura per me? Per i miei figli? Sarà l’oscillazione sempre più intensa dovuta alla nostra camminata o forse prodotta dal vento? Capisco che devo concentrare l’attenzione sui miei figli, forse anche loro hanno paura e non sono nemmeno completamente al sicuro, avrei dovuto prestare maggiore attenzione e controllare meglio. Mi faccio forza, richiamo la loro attenzione chiedendo loro di camminare più lentamente.
Mi rendo conto di non potere trasferire in loro la paura che sto provando, respiro a fondo e continuo a camminare focalizzando tutta la mia attenzione su di loro, cerco di sorridere. Il ponte non c’è più, il mio campo visivo è ristretto alla loro immagine fino a quando non li raggiungo e li prendo per mano. Siamo fuori! È stato faticosissimo, ma siamo fuori. Tiro un sospiro di sollievo, cerco di rilassarmi, ma una lieve agitazione ancora mi accompagna. Sparirà solamente diversi minuti dopo, al sicuro nella nostra macchina, ripercorrendo su Google Maps il nostro itinerario.
Riflettendo su quell’episodio mi è venuta in mente una frase, ascoltata e pronunciata più volte, anche se con scarsa consapevolezza: «È come se mi mancasse la terra sotto i piedi!». Si tratta di una metafora, certo, ma il suo significato reale è ben noto a chi ha avuto l’esperienza di un terremoto. Il terremoto ci spaventa perché in pochi secondi interrompe il nostro legame quotidiano con la terra, la base solida che sostiene ogni nostro movimento e dove affondano le nostre radici, anche quelle emotive. Non a caso Alexander Lowen, il padre della bioenergetica, restituiva fiducia e stabilità ai suoi pazienti attraverso gli esercizi di grounding (radicamento, connessione con la terra).
Le paure come quella del terremoto originano da un luogo remoto, sconosciuto, invisibile. Simboliche o reali che siano, da quell’oscurità prendono forza. Il primo obiettivo, dunque, è conoscerle, portarle alla luce. Abbiamo ricordato più volte l’importanza di diventare consapevoli dei propri “trigger”, gli stimoli che fanno scattare la nostra risposta emotiva. Nel caso della paura è molto importante riuscire a distinguere le minacce soggettive, dovute alla nostra immaginazione o a una percezione alterata della realtà, da quelle oggettive, legate a un pericolo reale, concretamente misurabile. Sappiamo anche, tuttavia, che situazioni immaginate possono essere percepite come assolutamente reali dalla nostra mente.
Gli stimoli capaci di spaventarci sono quindi potenzialmente infiniti, ma convergono verso un tema comune, ovvero la minaccia alla propria incolumità fisica o psicologica. Non è difficile allora comprendere come questa emozione, insieme alla rabbia, abbia rappresentato uno dei tasselli fondamentali per la nostra sopravvivenza. Queste due emozioni attivano infatti una risposta che ha origine nella parte più antica del nostro cervello, definita “fight or flight response” dal fisiologo statunitense Walter Bradford Cannon che per primo descrisse questo fenomeno: una reazione automatica finalizzata a determinare la massima efficacia nei comportamenti di attacco o di fuga.
Nel mondo civilizzato la maggior parte dei pericoli che hanno corso i nostri antenati sono scomparsi, ma il nostro organismo continua ad essere programmato per reagire in modo automatico, e questo avviene anche quando le risposte non si rivelano funzionali rispetto ai pericoli odierni. Quando la paura si manifesta di fronte a un esame da sostenere, oppure negli attimi che precedono un discorso di fronte a un pubblico, nell’incapacità di affrontare un incontro o di salire su un aereo, fuggire può rivelarsi del tutto inutile, quando non ampiamente controproducente. Così come non è possibile individuare un nemico fisico con cui lottare. Ciò non significa che non possiamo continuare ad attingere da quella energia, cercando tuttavia di indirizzarla verso una strategia più funzionale.
Il peggior rimedio alla paura è rappresentato dal tentativo di nascondersi. In questo caso la nostra immaginazione continuerà a ingigantire i fantasmi costruiti dalla nostra mente. Di lì a poco ci troveremo immersi nel cosiddetto “periodo refrattario”, una fase nella quale siamo totalmente immersi nel vissuto emozionale, impermeabili a qualsiasi informazione che non sia congruente con l’emozione stessa. È necessario anticipare questa fase. Nel momento in cui avvertiamo l’insorgere dell’emozione è possibile allungare il tempo che intercorre tra l’impulso e il picco di massima intensità, cercando di portare consapevolezza, mediante la formulazione di ipotesi e domande, sulla natura e il significato del nostro coinvolgimento. Guardare le nostre paure in faccia, per poterle poi indirizzare verso un percorso più congeniale ai nostri obiettivi, è una strategia che attinge da quell’energia originaria destinata all’attacco o alla fuga.
Nelson Mandela diceva di aver imparato che «il coraggio non è la mancanza di paura, ma il trionfo su di essa. L’uomo coraggioso non è quello che non si spaventa, ma colui che conquista quella paura». Conquistare la paura diventa allora un modo per espandere le nostre possibilità, acquisire autonomia e consapevolezza, decidendo di non rinunciare alle cose che desideriamo davvero, ma che immaginavamo al di là del confine disegnato dalle nostre paure.
Diego Ingrassia, CEO di I&G Management, si è specializzato in Executive Coaching e si occupa di Assessment e Formazione comportamentale e manageriale presso importanti realtà multinazionali.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 279 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui