Il dialogo strategico
Da tecnica retorica e strumento maieutico per la ricerca della verità, in epoca moderna il dialogo diventa una delle principali armi della psicoterapia per indagare la mente e mettere in moto il cambiamento. Come nell’approccio dell’interazione strategica.
Al fine di rendere accessibile e comprensibile la struttura della tecnica del dialogo strategico, che rappresenta una forma evoluta di persuasione all’interno di interventi di problem solving strategico o di psicoterapia, è necessario aprire una panoramica storica su come l’arte di dialogare accompagni fin dalla notte dei tempi l’essere umano tanto da poter affermare che senza capacità dialogica l’uomo non si sarebbe potuto evolvere.
Il significato etimologico del “dialogo”, “dia-logos”, cioè discorso a due, scambio o incontro d’intelligenze, fa riferimento a un atto comunicativo attraverso il quale raggiungere una nuova conoscenza, scoprire insieme qualcosa in più di quello che si può da soli. Non a caso il dialogo è la forma espositiva più ripetuta nelle dissertazioni scientifiche, religiose e filosofiche sia del mondo occidentale che di quello orientale.
Basti pensare al noto dialogo riferito dai primi Profeti biblici cristiani tra il diavolo e Dio, nel quale il Maligno induce Dio a torturare Giobbe, il suo più devoto credente, per mettere alla prova la sua reale devozione.
DA PROTAGORA AD ARISTOTELE
Il primo a trattare di dialogo in qualità di tecnica persuasoria fu Protagora, il principale esponente dei grandi sofisti dell’antica Grecia. Maestro di sapienza, Protagora fa uso del cosiddetto dialogo eristico (“eristiké téchne”, arte del disputare), finalizzato cioè all’obiettivo di persuadere l’interlocutore della propria tesi.
Tale forma di dialogo era un’arte fondata più sul fare domande che sul proporre affermazioni; tali domande erano strutturate in successione per far evolvere le risposte dell’interlocutore nella direzione desiderata dal persuasore. Il segreto risiedeva nell’evitare di contrastare le convinzioni da cambiare con contro-affermazioni, guidando invece l’interlocutore a scoprire alternative attraverso le domande sapientemente proposte.
Il ruolo del dialogo, così, venne elevato a tecnica retorica e, in quanto tale, inserito tra le discipline attraverso le quali gli uomini nobilitano sé stessi e sviluppano la capacità di raggiungere gli obiettivi.
In contrapposizione al dialogo eristico, che era una pura tecnica retorica senza nessuna assunzione ideologica, Socrate propone la maieutica, ovvero il dialogo orientato alla ricerca della «verità», al di là del punto di vista personale. La sua tecnica consisteva nell’ammettere in via di ipotesi le affermazioni dell’interlocutore e nel far vedere, con domande e risposte, che esse non conducevano a nulla o conducevano a conseguenze assurde; l’intento era quello di gettare nel buio l’interlocutore, mettendo in luce l’invalidità dei suoi argomenti e indurlo così alla ricerca della «verità». Eppure, secondo le antiche testimonianze attribuite a Senofonte, quando Socrate era ancora giovane fu invitato da Alcibiade ad assistere a una rappresentazione di Protagora, ma, non trovando gli argomenti nella disputa, passò quasi ad aggredirlo fisicamente.
Successivamente nel Menone Platone formula per la prima volta la teoria della reminiscenza. In questo famoso dialogo Socrate, attraverso domande opportune, riesce a far sì che uno schiavo, del tutto ignaro di geometria, pervenga da sé alla dimostrazione del teorema di Pitagora. Ciò è possibile, sostiene Platone, non perché il linguaggio sapientemente utilizzato, come veniva dichiarato dai sofisti, possa persuadere di qualunque credenza, ma in virtù del fatto che l’uomo porta in sé la conoscenza a titolo di «ricordo» e sta all’arte maieutica del filosofo «far uscire» tale patrimonio.
In seguito Aristotele, allievo di Platone, sviluppò la logica del «vero - falso» e del «terzo escluso».
Da qui in avanti la retorica della persuasione nella logica e nella scienza viene relegata a una mera procedura di spiegazione per «sillogismi», ovvero mediante procedimenti deduttivi rigidamente riduzionisti, del tipo: «Se è bianco, non è nero»; oppure: «Tutti i cani hanno quattro zampe, ha quattro zampe, quindi è un cane».
IL DIALOGO IN PSICOLOGIA
Nel campo della psicoterapia, poi, fin dai suoi albori, il dialogo ha rappresentato una tecnica fondamentale non solo come modello di presentazione delle proprie argomentazioni, ma soprattutto come tecnica d’indagine della psiche e del comportamento umano.
«Le parole in origine erano magiche»: la famosa affermazione di Freud sottolineava il potere della parola e del dialogo tra l’analista e il suo paziente come strumento di conoscenza e di cambiamento. Con Freud nasce il «transfert psicoanalitico», costituito da un setting particolare: il lettino, la posizione dell’analista dietro al paziente… una scenografia atta ad ampliare il potere di tale forma particolare di relazione. Il paziente, sdraiato, senza guardare il suo interlocutore – che rimane seduto alle sue spalle – dà il via alle proprie associazioni mentali. Il commento dello psicoanalista innesca così altre associazioni – per così dire “libere” – cui seguiranno altre interpretazioni ancora. Tutto nella strutturazione del transfert psicoanalitico è orientato ad avvalorare le teorie di Freud sull’inconscio e a farne una dottrina da instillare mediante un percorso di indottrinamento rigidamente ritualizzato.
Tutto ciò ha spostato l’attenzione dall’osservabile al nascosto, dall’interazione delle persone alle loro dinamiche inconsce, fondando una sorta di platonica tirannia dell’inconscio sul conscio, mediante una specifica retorica: il transfert psicoanalitico.
Tuttavia, già ben prima di Freud, alcuni pensatori ritenuti fondatori della moderna psicologia, quali Bacone, Locke e James, avevano messo in risalto l’enorme potenzialità dello scambio comunicativo tra persone sotto forma di dialogo, come strumento di conoscenza e di cambiamento degli individui e delle loro opinioni.
William James in particolare, focalizzando le sue ricerche sui processi personali e interpersonali, dette inizio alla feconda tradizione di studi sistematici sul linguaggio e sull’interazione comunicativa nota come “pragmatismo”. Dopo di lui George Mead procedette sulla stessa scia analizzando anche più specificamente l’aspetto delle interazioni simboliche prodotte dal dialogo tra le persone. Irvin Goffman, in seguito, sviluppò tale prospettiva sino a studiare approfonditamente le dinamiche dell’interazione strategica, ovvero come gli individui possano utilizzare consapevolmente tecniche dialogiche capaci di far loro raggiungere i loro scopi persuasori.
L’APPROCCIO STRATEGICO
Tuttavia, sono due le personalità che effettivamente fecero da contraltare alla dottrina psicanoalitica: Milton Erickson e Carl Rogers. Al primo, noto per il suo studio empirico e applicato dell’ipnosi e del linguaggio ipnotico, si devono anche la prima formulazione di approccio strategico alla psicoterapia e la sistematizzazione di tecniche di comunicazione suggestiva all’interno del dialogo terapeutico. A Rogers si deve la formulazione di un modello di conversazione clinica atta a sviluppare empatia, basata sulla tecnica del «mirroring», ossia il rispecchiamento delle assunzioni del cliente. Ma bisogna aspettare gli anni Quaranta per assistere a un recupero vero e proprio, all’interno delle scienze umane, dell’attenzione specifica alla comunicazione e alla tecnica del dialogo come effettivo strumento per produrre cambiamenti prefissati sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle persone. Si deve a Gregory Bateson e al suo famoso gruppo di studiosi il primo progetto di studio sulla comunicazione e i suoi effetti non solo semantici e sintattici, ma soprattutto pragmatici: «Non si può non comunicare» è il primo postulato della pragmatica della comunicazione. Si deve dunque scegliere se farlo in modo casuale e subire tale ineluttabilità, oppure scegliere di farlo strategicamente e gestirla.
Da questa assunzione nasce l’approccio strategico, ovvero l’applicazione alla comunicazione interpersonale e terapeutica delle formulazioni teoriche e applicative, frutto del lavoro del gruppo di Palo Alto.
Piuttosto che basarsi su una teoria a priori della natura umana in base alla quale analizzare il comportamento, il modello strategico di terapia si occupa del modo in cui l’uomo percepisce e gestisce la propria realtà attraverso la sua comunicazione con sé stesso, gli altri e il mondo, trasformandola da disfunzionale in funzionale al fine di poter operare su di essa.
In questo modo domande, parafrasi, formule suggestive, ingiunzioni, così come gli artifici e gli stratagemmi comunicativi, le prescrizioni e la retorica della persuasione, diventano da semplice manovra comunicativa una vera e propria tecnica eristica di dialogo, ovvero il dialogo strategico. Da questa prospettiva, quindi, il dialogo passa da un semplice scambio di informazioni a un vero e proprio strumento di cambiamento.
DOMANDE STRATEGICHE E RIDEFINIZIONE
Per entrare più nel dettaglio della tecnica, il saper fare domande strategiche vuol dire non solo guidare il terapeuta o il consulente alla comprensione della persistenza del problema da risolvere, ma farne il veicolo per indurre il paziente/cliente a sentire differentemente le cose e per questo a cambiare le sue reazioni, scoprendo le sue risorse bloccate dalle precedenti rigide o patogene percezioni.
A tale proposito i quesiti non saranno più aperti, del tipo: «Quando lei ha il suo attacco di panico cosa sente?», ma diventeranno domande chiuse con due opzioni di risposta: «Quando lei ha l’attacco di panico sente la paura di morire o la paura di perdere il controllo?»; e questo farà sì che le persone rispondano con una di queste due risposte pianificate.
Le domande dovranno essere all’inizio ampie e generali: andranno ad analizzare tutte le caratteristiche del problema da affrontare per poi stringersi come un imbuto fino alla conoscenza del funzionamento del problema. Procedendo così, la terapia o la consulenza diventano un processo di scoperta all’interno del quale paziente e terapeuta, attraverso una serie di domande, una serie di risposte e una serie di parafrasi strategiche, giungono insieme a conoscere il problema e a cambiarne la percezione.
Ogni tre o quattro domande sarà necessario formulare una parafrasi, ovvero rimettere insieme tutte le risposte ottenute fino a quel momento. La necessità di parafrasare nasce sia per verificare la corretta comprensione di quanto comunicato fino a quel momento sia per introdurre un cambiamento di percezione, in quanto riorganizzare le risposte ricevute in una sequenza differente o aggiungendo dei nuovi elementi diventa una vera e propria tecnica di ristrutturazione del punto di vista a livello emotivo e successivamente cognitivo.
Non è un caso che uno dei più grandi persuasori della storia, Blaise Pascal, in uno dei suoi pensieri affermi: «Le stesse parole messe in ordine differente daranno risultati differenti».
Se tutto il dialogo diventa una danza tra domande che inducono le risposte, risposte che genereranno nuove domande e parafrasi calzanti, non dobbiamo dimenticare un terzo ingrediente fondamentale per rendere il dialogo davvero strategico, ovvero l’utilizzo sapiente del linguaggio evocativo e di tutte le figure retoriche che possano essere utili per il raggiungimento dell’obiettivo. Questo terzo elemento, cioè il saper evocare sensazioni attraverso le parole, diventa fondamentale in quanto il cambiamento diventa maggiormente efficace nel momento in cui la persona è portata a sentire differentemente, e non tanto a capire in maniera diversa.
L’utilizzo strategico di analogie, metafore, aneddoti, aforismi e massime fornisce gli elementi essenziali per evocare quelle sensazioni che possano aiutare la persona a creare avversione verso ciò che dovrebbe smettere di compiere o esaltazione verso tutto ciò che andrebbe fatto.
Una volta che sono state svolte tutte le fasi della terapia o della consulenza, prima di concludere la sessione dovremmo concentrarci nell’eseguire una sorta di iperparafrasi che riassume tutti i momenti essenziali e le scoperte fatte durante il dialogo.
Questa manovra, chiamata “riassumere per ridefinire”, diventa essenziale per evidenziare tutti quei cambiamenti avvenuti durante il dialogo e diventa il trampolino per passare all’ultima fase del dialogo strategico, ovvero la prescrizione.
Il cambiamento avvenuto durante il colloquio andrà trasformato in azioni operative e per questo, tramite un linguaggio ingiuntivo, il dialogo strategico si chiuderà con un’indicazione diretta e pratica che porti la persona a “fare”.
Come è stato descritto fin qui, dialogare strategicamente non è solo un esercizio di stile retorico e argomentativo, bensì una vera e propria tecnica di cambiamento che se ben appresa e saputa utilizzare diventa un potenziatore di efficacia ed efficienza del lavoro consulenziale.
Nonostante la tecnica, che richiede studio ed esercizio costante per poter essere ben utilizzata, è necessario rimanere flessibili, disposti ad ascoltare, cambiare le nostre posizioni e, se necessario, rimettere in dubbio le nostre certezze e credenze per poter essere davvero efficaci nella relazione di aiuto.
A tale proposito dovremmo tenere a mente le parole del monaco buddista Thich Nhat Hanh: «Nel vero dialogo, entrambe le parti sono disposte a cambiare». Noi potremmo aggiungere che se l’altro non è disposto a cambiare sarà nostra responsabilità condurlo a vedere la realtà da punti di vista differenti, superare le sue resistenze e aiutarlo a venire fuori dalla trappola in cui è caduto.
Concludendo, ci piace ricordare uno degli insegnamenti delle arti marziali orientali: «La tecnica da sola non è sufficiente. Dobbiamo imparare a osservare l’altro e dialogare prima con la mente, poi con il corpo e infine con le parole».
Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.
Stefano Bartoli è direttore operativo del Centro di Terapia Strategica e personal manager di Giorgio Nardone, con cui ha scritto Oltre sé stessi. Scienza e arte della performance (Ponte alle Grazie, 2019).
Bibliografia
Bateson G. (1973), Verso un’ecologia della mente (trad. it.), Adelphi, Milano, 1983.
Diels H., Kranz W. (2006), I presocratici (trad. it.), Bompiani, Milano.
Nardone G. (2015), La nobile arte della persuasione. La magia delle parole e dei gesti, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Salvini A. (2004), Il dialogo strategico. Comunicare persuadendo: tecniche evolute per il cambiamento, Ponte alle Grazie, Milano.
Pascal B. (1999), Pensieri (trad. it.), Rizzoli, Milano.
Watzlawick P. (1977), Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica (trad. it.), Feltrinelli, Milano, 1988.
Watzlawick P., Beavin J. H., Jackson D. D. (1967), Pragmatica della comunicazione umana (trad. it.), Astrolabio,
Roma, 1971.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 285 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui