Il lutto, entrarne e uscirne
Un modo per affrontare il vuoto di senso procurato dalla morte di una persona cara è quello di intersecare il proprio smarrimento con una ritualità del lutto che ci ricongiunga alla vita segnando spazio e durata del dolore.
«La tristezza calò buia sul cuore e dovunque guardavo era morte. E il mio paese divenne un patibolo, e la casa paterna m’era penosa e strana, e tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui diventava uno strazio enorme. Il mio sguardo lo cercava invano dappertutto, e odiavo tutte le cose perché lui non era fra loro e non potevano più dirmi “Eccolo, viene”, come quando era in vita e mi mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso e chiedevo a quest’anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto, e lei non sapeva rispondermi. [...] Solo il pianto mi era gradito e aveva preso il posto del mio amico fra i piaceri dell’anima».
IL DOLORE
In questo brano tratto dalle Confessioni, sant’Agostino ricorda un doloroso periodo della sua vita – la morte di un amico – descrivendo alla perfezione qual è la situazione emotiva di chi è in lutto per la scomparsa di una persona cara: sofferenza acutissima, smarrimento, rabbia, disperazione, alienazione, perdita di senso. Dato che il lutto è un’esperienza che tutti dobbiamo prima o poi affrontare, è legittimo chiedersi se c’è qualche concreta possibilità per prepararsi. Naturalmente non esiste una risposta univoca, poiché la risposta al lutto è estremamente soggettiva, ma alcuni modi per predisporsi alla perdita esistono (paradossalmente il più efficace è legato alla capacità di ognuno di noi di prepararsi e di affrontare la propria morte serenamente, in tal modo facilitando enormemente il lutto dei superstiti): atteggiamenti e disposizioni mentali per affrontare la perdita in maniera adattiva, trasformando in crescita personale la crisi esistenziale determinata dal lutto.
Non esistono, invece, modalità per evitare la sofferenza, a parte quelli patologici. Sostanzialmente, infatti, l’unica vera patologia del lutto è quella di non accettare la perdita, una patologia che può essere declinata in molti modi: la fissazione in una condizione di dolore perenne e/o di depressione (la melancolia di Freud), o, al contrario, il rifiuto del dolore e della sofferenza (la negazione). Ma anche la somatizzazione e le preoccupazioni eccessive per la propria salute, o l’adozione di comportamenti a rischio (modalità tipica degli adolescenti), il ricorso all’alcol e/o alle sostanze stupefacenti. Questi comportamenti sintomatici e altri ancora (per esempio la museizzazione, cioè il non toccare, spostare o modificare nulla di ambienti e oggetti appartenuti al defunto) testimoniano dell’estrema difficoltà della persona a integrare nella propria storia, superandola, una perdita che viene percepita come distruttiva anche della propria identità.
LA CRISI E L’OPPORTUNITÀ
Il lutto, con il suo carico di fatica emotiva e dolore, a volte può essere considerato anche una crisi evolutiva: infatti è nelle relazioni con alcune persone (i genitori, i partner, i figli ecc.) che costruiamo gran parte della nostra identità e che apprendiamo ad attribuire significato alle esperienze. Entro tali relazioni riceviamo conferme e valore (sia positivi che negativi) per i nostri molteplici ruoli. La perdita di queste persone ci costringe a mobilitare tutte le nostre risorse per consolidare la nostra identità senza più le conferme legate alla relazione con la persona scomparsa. E ci costringe a superare, quando c’è, la dipendenza affettiva. Ci vuole tempo, e non poco. Ci vuole dolore, e non poco.
Naturalmente ci sono alcuni lutti che difficilmente possono tramutarsi in occasioni di crescita: la scomparsa del compagno di una vita che colpisce una ultraottantenne, difficilmente potrà diventare crisi evolutiva (considerando anche che a quella età si sono di solito subiti già molti lutti e quindi, se da essi si poteva imparare qualcosa, lo si è già abbondantemente imparato). Così come la perdita di un figlio o di un nipote, oppure la morte per suicidio di una persona cara. Morti che lasciano una lunga serie di domande angosciose e pochissime risposte.
Ma, in definitiva, cos’è il lutto? Sostanzialmente, è l’esperienza della mutilazione e del dolore, ed è anche il processo di adattamento alla scomparsa di una persona amata, ovvero alla scomparsa definitiva di tutto ciò che a quella persona ci lega nel passato, nel presente e nei progetti futuri: sguardi, parole, sostegno, gesti, pensieri, emozioni, fantasie, progetti, condivisioni ecc. Il lutto è anche la presa di contatto diretta con una paura profonda e ancestrale che è sempre presente, ma che di solito riusciamo a tenere a bada: quella della propria morte. È proprio questa miscela, il senso di mutilazione di un assetto relazionale, sommato alla paura della propria morte, ad essere alla base di tanta sofferenza. Ed è con que sti due elementi che, durante il processo del lutto, la persona deve venire a patti: accettare la scomparsa definitiva di una persona amata e accettare la propria mortalità significa mobilitare le risorse per:
a. affrontare il futuro entro una nuova prospettiva, in cui non c’è più spazio per la persona che è morta;
b. trovare una posizione equilibrata fra la paura della propria morte e quella della sua imprevedibilità;
c. continuare a considerare il futuro come obiettivo progettuale, malgrado tale imprevedibilità.
Il compito non è facile, anzi è così difficile che nel corso dei millenni l’uomo ha ideato e sviluppato complessi e sofisticati apparati filosofico-religiosi con lo scopo di rassicurarsi sul fatto che non si muore davvero e che il decesso è semplicemente un passaggio verso un altro luogo, auspicabilmente migliore di questo, in cui potremo ricongiungerci con le persone che sono morte prima di noi e la cui scomparsa ci ha fatto soffrire così tanto. Tutte le tradizionali teorie psicologiche che si sono occupate di organizzare un quadro esplicativo del fenomeno del lutto, e cioè la teoria psicoanalitica (Freud), quella biologica (Bowlby) e quella esistenziale (De Martino; Binswanger), a cui di recente si è affiancata la teoria del processo duale (Stroebe e Schut), considerano risolto il processo del lutto quando gli elementi di questo trittico – 1) quello che è stato e non potrà più essere; 2) quello che avrebbe potuto essere e non sarà; 3) quello che potrà essere – riescono a convivere senza sofferenze laceranti. Più precisamente, quando la persona in lutto riesce a integrarli nella propria narrazione in modo equilibrato. Soltanto quando questo processo sarà compiuto, la persona in lutto avrà riconquistato una dimensione progettuale e sarà di nuovo inserita pienamente nel flusso della propria vita.
I fattori che influenzano il processo del lutto (cioè la sua elaborazione) e il suo esito sono molti, a cominciare da qual era la natura del legame con chi è morto; da come la morte è arrivata (dopo malattia, oppure improvvisamente, traumaticamente, per suicidio, per incidente o catastrofe naturale ecc.); da chi era lo scomparso nell’ambito della relazione (genitore, figlio, nonno, partner ecc.); da quali sono le risorse personali e familiari; se ci sono stati altri lutti recenti ecc.
Una considerazione particolare va fatta per il lutto anticipatorio, ossia quella disposizione psico-emotiva che, in un clima di assoluto rispetto reciproco, permette alle persone che saranno coinvolte dalla futura (prossima) morte di uno di loro, di parlarne, esprimendo paura e dolore, ma anche chiedendo (e dando) conforto e rassicurazione, pure a chi sta per morire. Questa è una modalità tanto efficace per rassicurare chi muore e per aiutare chi resta, che su di essa è stato elaborato un vero e proprio modello di intervento: la terapia della dignità (Chochinov).
I MODELLI
A parte quella del processo duale, le altre teorie che ho citato guardano alla persona in lutto come se fosse un elemento passivo di un processo di elaborazione (il lutto) che si svolge altrove (nell’inconscio), del tutto al di fuori della sfera di intenzionalità, e che fa filtrare alla coscienza soltanto massicce dosi di sofferenza (che possiamo anche considerare alla stregua di scorie dell’elaborazione). Un’elaborazione che dunque sfugge al controllo di chi è in lutto. Anche le cosiddette fasi del lutto – secondo Bowlby, 1) shock, 2) struggimento e ricerca, 3) disorganizzazione e disperazione, 4) riorganizzazione; oppure, secondo Kübler-Ross (la quale in origine le aveva rilevate nelle persone a cui era stata fatta una comunicazione di malattia terminale, quindi in una situazione di lutto anticipatorio), 1) negazione e rifiuto, 2) rabbia, 3) patteggiamento, 4) depressione, 5) accettazione – paiono susseguirsi senza che la persona possa in qualche modo intervenire, e la loro evoluzione dipende, più o meno fortunosamente, dalle complesse dinamiche intrapsichiche della persona stessa e, forse, dalla risposta del contesto relazionale.
In realtà, invece, il dolore ha caratteristiche di plasticità che, almeno parzialmente, consentirebbero una certa modulazione intenzionale. Da quando si hanno testimonianze archeologiche, si sa che è stato il cosiddetto campo sociale a farsi carico di questa opportunità, sia offrendo una certa diluizione temporale al processo di presa d’atto della morte della persona amata (tutti i riti funebri hanno una durata, offrono quindi ai superstiti un tempo supplementare, una manciata di giorni che può consentire di fronteggiare meglio il trauma della perdita) sia, con la partecipazione rituale collettiva, rassicurando i superstiti che non saranno lasciati soli e che saranno di nuovo presi dentro l’inarrestabile flusso della vita. La partecipazione collettiva ai riti funebri e alle commemorazioni ha inoltre l’obiettivo di combattere l’insidia più perniciosa del lutto, che è la perdita di senso. I riti ci rassicurano che il senso della vita sta proprio nel ricordo che la persona amata ha lasciato in noi e quindi nel ricordo che noi lasceremo quando moriremo, cioè nell’eredità affettiva che abbiamo ricevuto e che lasceremo.
I RITI
Purtroppo, negli ultimi decenni la ritualità del funerale e del lutto si limita a una cerimonia frettolosa, lasciando poi ai superstiti l’onere di gestire la propria sofferenza in solitudine o con il solo conforto dei familiari, anch’essi in lutto. Si sono perdute tutte quelle ritualità che si snodavano lungo un percorso temporale: per esempio, il cromatismo del lutto. Proprio la scomparsa dei cromatismi del lutto merita una considerazione in più. Scrive Serena Giusiano nella tesi di laurea Spazi e riti della morte a Torrette (Valle Varaita): «Nel caso della morte di un parente stretto, come un coniuge o un genitore, erano previsti due anni di nero, un anno di bianco e nero, sei mesi di bianco e blu (con la facoltà di aggiungere il nero e il marrone ed il divieto del verde e del rosso) e sei mesi di verde e blu (con la sola interdizione del rosso), arrivando così ad un periodo di quattro anni. L’uscita dal percorso di lutto era sancita dalla possibilità di tornare ad indossare il rosso».
Ora, senza arrivare alle meticolose regole della Val Varaita, in tutto il territorio italiano il cosiddetto lutto stretto contemplava che le donne parenti del defunto portassero esclusivamente vestiti di colore nero per un determinato periodo, si poteva poi passare al grigio e alle camicette bianche per un altro periodo, mantenendo l’assenza di segni di frivolezza o vanità, come gioielli e altri accessori. Passato anche questo periodo, si poteva smettere il lutto. Gli uomini potevano invece portare una cravatta nera, oppure una mostrina al bavero della giacca, o una fascia al braccio. Accanto a un indubbio aspetto “coercitivo” (naturalmente, non esisteva un vero obbligo a portare il lutto, ma la pressione sociale era così forte che difficilmente se ne poteva fare a meno) e a quello relativo al messaggio che la persona in lutto voleva inviare al contesto sociale (circa l’intensità del proprio dolore e la disponibiltà a un eventuale nuovo investimento affettivo), vi è un altro elemento che è necessario sottolineare, e cioè l’aspetto liberatorio: dopo un determinato periodo (di solito un anno) il lutto cessa. A questa regola si sono adattate per secoli, più o meno consapevolmente, tutte le persone in lutto, facendosi accompagnare dalla norma sociale che stabiliva i tempi dell’elaborazione. Il confronto quotidiano con la manifestazione esteriore del proprio dolore (il nero) dopo qualche tempo sollecita nel dolente una serie di riflessioni sulla necessità e l’opportunità di riprendere a vivere. Non esiste una norma che ci dica qual è la durata “giusta” del lutto, le persone hanno risorse e reazioni assolutamente individuali e tempi diversi di adattamento. L’unico criterio, forse, atto a dire allo specialista che si sta entrando nella patologia è una certa fissità emotiva, una scarsa dinamicità psicologica.
Vale la pena a questo punto soffermarsi un poco sul processo duale del lutto. Secondo tale modello le persone in lutto sperimentano costantemente un’oscillazione tra due opposte polarità: una tesa a vivere il dolore legato alla perdita (loss-oriented), l’altra ad allontanarsi dal dolore per poter fronteggiare le incombenze legate alle necessità del vivere (restoration-oriented). È un’oscillazione che non prevede fasi e che può verificarsi anche più volte al giorno. Ovviamente, nel primo periodo sarà prevalente la polarità orientata al lavoro sulla perdita, ma, man mano che passa il tempo, prenderà il sopravvento l’altra polarità, quella orientata alla ricerca di un equilibrio accettabile.
USCIRNE
Poiché per la persona in lutto entrambe le polarità sono fonte di stress, si rendono necessarie strategie di coping, ed è a questo punto che può inserirsi lo psicologo che vuole affrontare insieme al paziente il difficile percorso del lutto (non è raro che pazienti già in trattamento o in consulenza per altri motivi si trovino prima o poi a dovere affrontare un lutto): accanto ai pur utilissimi compiti che per esempio prescrive Worden e a quelli di Neimeyer, io vorrei suggerire una strategia che, nel recuperare una componente quasi perduta del lutto – quella rituale –, possa restituire alla persona una traccia inconfondibile per organizzare il proprio percorso di lutto. Il recupero individuale o meglio ancora familiare di una ritualità perduta restituisce, infatti, un ruolo attivo a chi deve affrontare una delle prove più difficili della sua vita.
Si possono allora suggerire, creare e costruire insieme riti che contengano necessariamente i due aspetti fondamentali dei riti sociali: l’accompagnamento e il commiato, magari servendosi proprio dei cromatismi, per esempio “vietando” di indossare il colore preferito per un certo periodo. Le possibilità offerte dai riti co-costruiti sono infinite. Il tentativo terapeutico, piuttosto scoperto, è quello di portare fuori di sé ciò che fino ad allora è stato tenuto tutto dentro. Naturalmente, i riti non esauriranno il più importante lavoro introspettivo, ma per il paziente e lo psicologo costituiranno un validissimo aiuto. Il percorso di elaborazione potrà a questo punto proseguire in modo adattivo.
Il poeta giapponese Minamoto no Sanetomo (1192-1219) immaginando il “dopo” scriveva:
«Anche se me ne vado
e lascio la casa sguarnita,
tu, susino mio
nel cortile, saprai da te
quand’è primavera».
Chi fosse interessato a sottopormi dubbi o domande sui temi di questo articolo può scrivermi all’indirizzo: primogel@yahoo.it
Primo Gelati,psicologo, specializzato in Psico-oncologia e in Terapia familiare, è docente allo EIST (European Institute of Systemic-relational Therapies) e alla SIMPA (Scuola Italiana di Medicina e Cure Palliative), presso la quale è anche responsabile del Corso Psicologi.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 264 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui