Il trauma: problema clinico o paradigma teorico?
Le alterne fortune, nella storia della psichiatria e della psicoterapia, della nozione di trauma, un costrutto a cui è sbagliato riferire ogni forma di esperienza dolorosa.
Di trauma oggi si parla ovunque. Dopo essere stato trascurato per anni, è di nuovo al centro dell’attenzione, è il grande tema della sofferenza emotiva e mentale di questa epoca. Da alcuni anni, infatti, sono popolari alcuni trattamenti specializzati per gli stati traumatici. Queste terapie del trauma sono indubbiamente efficaci per trattare i disturbi determinati da situazioni di pericolo estremo. Il caso migliore è quello dell’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) di Shapiro (2001) per il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) soprattutto in infanzia e adolescenza.
Il problema si ha quando una terapia aspira a diventare un modello universale dell’intera sofferenza emotiva. Così accade che il concetto di trauma tende a estendersi sempre di più: si passa dal trauma incontrovertibile, in cui la stessa sopravvivenza fisica è stata messa in pericolo, al trauma cosiddetto “cumulativo”, in cui un susseguirsi di eventi dolorosi diventa traumatico. Oppure si passa al neglect, la trascuratezza, la freddezza e la deprivazione emotiva. Insomma, la serie di circostanze che vanno sotto il nome di “trauma piccolo” o “trauma dell’attaccamento”.
Questo tipo di trauma minore è meno facilmente definibile e distinguibile da una più comune esperienza di sofferenza umana ed esistenziale. Esplorare questo tipo di trauma può prestarsi a scorrettezze cliniche e anche pratiche quando si allarga a qualsiasi esperienza della vita soprattutto dell’infanzia, ma anche oltre. Una madre ansiosa o criticista è traumatica? O è soltanto una madre che insegna ansia o che spinge al perfezionismo?
Insomma, siamo di fronte a un nuovo modello di psicoterapia in cui ogni tipo di esperienza dolorosa è in realtà traumatica e quindi la migliore terapia dev’essere sempre la cura degli aspetti traumatici? Per capirlo, ripercorriamo il percorso storico di questi trattamenti e riconsideriamo la loro affidabilità in base ai dati empirici disponibili.
IL TRAUMA NELLA PSICOANALISI
È merito della psicologia francese avere inaugurato lo studio degli aspetti psicologici del trauma. Il primo fu Jean-Martin Charcot (1825-1893), che nelle sue osservazioni cliniche su donne isteriche traumatizzate nell’ospedale Salpêtrière di Parigi alla fine del XIX secolo comprese che l’origine dei sintomi isterici era un trauma psicologico che poteva indurre uno stato dissociativo e di elevata suggestionabilità all’ipnosi. Pierre Janet (1859-1947) confermò che gli stati dissociativi erano reattivi alla percezione di eventi traumatici. Anche Janet raccolse i suoi dati attraverso la riesposizione ai ricordi traumatici, che alleviava i sintomi (van der Kolk et al., 1996).
In un primo momento anche Freud proseguì su questa linea, dando rilievo alla realtà del trauma come abuso sessuale. Qualche anno dopo, però, egli cambiò idea e considerò i traumi non più reali bensì frutto di fantasie, insomma sostanzialmente dei falsi ricordi. La teoria del trauma passò in secondo piano, ma non scomparve mai del tutto dal campo psicoanalitico. Alcuni psicoanalisti continuarono a mantenerne l’interesse, come per esempio Ferenczi, che considerava veritiere le storie dei suoi pazienti sull’abuso sessuale infantile, o Bromberg, con il quale si è riaffacciato un vero proprio modello psicoanalitico del trauma e della dissociazione. Bromberg sosteneva che siamo tutti un po’ dissociati in seguito a una trauma infantile e che non possediamo un Sé unitario.
LA DEFINIZIONE DI "TRAUMA" NEI MANUALI DIAGNOSTICI
In seguito a questi studi il trauma fu inserito nei vari sistemi diagnostici della psichiatria. La definizione di “trauma” nelle varie edizioni dei manuali dei disturbi mentali è andata incontro a diverse vicissitudini, ora allargandosi a comprendere molti stati avversivi, ora invece restringendosi fino a limitarsi alle situazioni di estremo pericolo di vita. Nei manuali DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) essa fu inizialmente ristretta: nella terza versione, il trauma risulta un evento eccezionale e al di fuori della normale esperienza umana. Le edizioni successive ne presentarono una definizione più ampia: furono considerate un’esperienza traumatica anche eventualità meno eccezionali, come per esempio una relazione infelice.
Questa definizione ampliata generò un aumento del 59% delle diagnosi di trauma. Nella quinta e a tutt’oggi ultima versione fu riproposta una definizione restrittiva di trauma che eliminava l’aspetto di stress soggettivo e doveva includere l’esperienza diretta.
LO STUDIO DEI TRAUMI MILITARI E DOMESTICI
Negli anni Venti del Novecento, mentre nella psicoanalisi l’interesse per il trauma scemava, esso cresceva negli studi psichiatrici sui reduci di guerra e sulla violenza domestica. Gli psichiatri si resero conto che i soldati tornavano con la nevrosi di guerra, inespressivi e con lo sguardo fisso, ovvero in stato dissociativo da stress da bombardamento. Il passo successivo fu lo studio dei traumi nei sopravvissuti dei campi di concentramento. In questi pazienti le reazioni emotive si presentavano come stati somatici e dissociativi poveri di verbalizzazione e sfocianti in comportamenti disorganizzati e caotici.
L’interesse per la violenza domestica subita dalle donne nacque come conseguenza del movimento della psicologia femminista e stimolò indagini epidemiologiche che mostrarono che 1 donna su 4 era stata violentata e 1 su 3 era stata abusata sessualmente in casa. Tali dati scioccarono, visto che problemi così fino a quell’epoca erano stati poco conosciuti, nascosti o addirittura negati.
LA PSICOTERAPIA DEL TRAUMA
Prendiamo ora in considerazione le principali proposte di trattamento. Esse implicano una definizione ampia o ristretta di “trauma”? Una breve lista comprende i modelli terapeutici cognitivo-comportamentali (Foa et al., 2008), corporeo-esperienziali (Ogden e Fisher, 2015), psicodinamici (Bromberg, 1993), cognitivi (Foa et al., 2008) e infine l’EMDR (Shapiro, 2001).
Tra questi, il trattamento cognitivo-comportamentale vanta i migliori dati di efficacia per gli adulti e l’EMDR per gli adolescenti. Il trattamento cognitivo-comportamentale aiuta il paziente a rielaborare le memorie traumatiche attraverso il lavoro sui pensieri espliciti e l’esposizione a esperienze che stimolano i ricorsi traumatici. L’EMDR è una psicoterapia integrativa che fa dipendere i disturbi emotivi da ricordi traumatici non integrati che irrompono nella mente come memorie intrusive e sgradevoli (Shapiro, 2001). La nota tecnica EMDR di stimolazione mediante movimenti oculari ridurrebbe il livello di disturbo dei ricordi intrusivi traumatici aiutando il paziente a rielaborare il trauma.
Tra le psicoterapie corporeo-esperienziali la più popolare è la sensorimotor psychotherapy (Ogden e Fisher, 2015) o quella corporea di van der Kolk et al. (1996). Queste terapie aiutano i clienti a regolare gli stati emotivi monitorando i segnali disturbanti e sgradevoli di provenienza corporea e incoraggiandoli a sperimentare esercizi motori che promuoverebbero il benessere.
La proposta psicodinamica di Bromberg e quella cognitiva di Liotti e Farina (2011) sostengono dei modelli teorici per i quali la sofferenza emotiva è determinata da esperienze traumatiche che hanno danneggiato le strutture psichiche, determinando esperienze di dissociazione in cui la mente del paziente è invasa da ricordi dolorosi. Tuttavia, questi due modelli non hanno prodotto al momento dei protocolli manualizzati di intervento la cui applicabilità e la cui efficacia siano controllabili e replicabili. Per il momento, questi pur interessanti modelli, una volta esaurito il loro sostanzioso messaggio teorico e clinico, preferiscono raccomandare il ricorso a tecniche esperienziali, corporee e psicoanalitiche.
VERSO UNA DEFINIZIONE PIÙ AMPIA: IL TRAUMA COMPLESSO
Il movimento tendenziale delle correnti di sviluppo che vanno dalla psicologia della dissociazione alla psicoanalisi, fino ai sistemi diagnostici, sembra convergere, con qualche eccezione, verso una definizione ampia di “trauma”: il trauma complesso. Il concetto è stato introdotto da Ford e Courtois, i quali proposero che l’incapacità delle persone affette da disturbo di personalità borderline di regolare le proprie emozioni era associata a storie di trascuratezza e carenza (neglect) traumatizzante nelle relazioni di assistenza primaria. Di conseguenza, il trauma è sempre più definito non in base all’evento oggettivo causale, ma più soggettivamente.
L’EMDR
Le strade da imboccare per dirimere la questione se il trauma sia un paradigma indipendente oppure una possibilità clinica all’interno degli altri orientamenti dipendono in parte dai dati dei vari studi disponibili, sia correlazionali che sperimentali, ma anche da come si definisce il trauma: una definizione ampia porta a un paradigma indipendente, una ristretta a una possibilità clinica.
Una strada aggiuntiva prevedrebbe che si verificasse il vantaggio terapeutico assicurato dai protocolli di cura specializzati sul trauma. Questa operazione è stata tentata dall’EMDR, ma al momento i dati di efficacia a favore dell’EMDR, pur presenti, non la qualificano come terapia superiore, bensì solo come di eguale efficacia alla terapia cognitivo-comportamentale, e solo nel caso degli adolescenti (Cusack et al., 2016).
Se è così, si torna alla domanda di partenza: perché questo crescente successo? Ci riferiamo non alla corretta applicazione di tali procedure ai casi di trauma definiti in maniera ristretta, ma all’applicazione indiscriminata favorita dalla definizione ampia di “trauma”. Accanto a ragioni cliniche ce ne sono altre. Per esempio, potrebbero esserci ragioni culturali che forse dipendono da una visione naïve della psicologia: nel cinema e in letteratura, trauma e psicologia sono spesso associati. E poi potrebbero esserci ragioni pratiche. La terapia cognitiva ha lasciato troppo poco spazio alle storie personali più o meno traumatiche. Prima in Italia con Guidano e Liotti, poi all’estero con Jeffrey Young, si è cercato di rimediare a questa trascuratezza. Ci sembra, tuttavia, che l’interesse per la storia personale del paziente abbia generato uno scompenso nella direzione del trauma e che la terapia sia diventata sempre più emotiva, relazionale e però anche difficile da definire e replicare in procedure protocollari. Di qui il dilemma: rigore o storia personale? Dilemma risolto dalle procedure specializzate sul trauma: le tecniche sensorimotor o EMDR sono proceduralizzate. Esse offrono, quindi, la quadratura del cerchio: rigore metodologico e attenzione agli aspetti emotivi.
Questa potrebbe essere una delle ragioni che stanno dando forza e popolarità alla definizione ampia di “trauma”. In fondo, i protocolli cognitivi sono sempre stati difficili da eseguire, con la loro enfasi sull’intervento verbale che lascia spazio alla oppositività verbale del paziente. Un intervento di tipo fisico, invece, lascia più controllo nelle mani del clinico e al tempo stesso non dà l’impressione di essere impositivo, perché presuppone un accordo. Un esercizio sensorimotor o EMDR costringe il clinico a concordarlo in anticipo (aspetto talvolta trascurato, invece, prima di un intervento verbale) e contemporaneamente non può essere modificato a piacimento dal paziente o sottilmente boicottato e tantomeno interrotto. Le interruzioni e le digressioni operate dal paziente che ci fanno uscire dai protocolli cognitivi spesso sono invece date per scontate, sottovalutate e temute. Abbiamo paura di rovinare la relazione, se le blocchiamo. Dunque, benvenuta a questa nuova attenzione alle procedure di tipo esperienziale e corporeo portate da tali neo-terapie per il trauma. Attenzione, però, a non perdere definitivamente un patrimonio di tecniche verbali non sempre ben padroneggiate e ora a rischio definitivo di deterioramento.
Giovanni Maria Ruggiero, psichiatra e psicoterapeuta, è direttore della scuola di psicoterapia cognitiva “Psicoterapia cognitiva e ricerca”. Autore di numerosi saggi, insegna presso la Sigmund Freud University di Vienna, sede di Milano.
Sandra Sassaroli, psichiatra e psicoterapeuta, è direttore della scuola di psicoterapia cognitivo-comportamentale “Studi Cognitivi” e del Dipartimento di Psicologia Clinica della Sigmund Freud University, sede di Milano. Ha scritto molti saggi.
Gabriele Caselli, psicologo e psicoterapeuta, è didatta della scuola di psicoterapia “Studi Cognitivi” e direttore della scuola “Psicoterapia e Scienze cognitive”. Oltre ad avere scritto tanti saggi, insegna alla Sigmund Freud University, sede di Milano.
Riferimenti bibliografici
Bromberg P. M. (1993), «Psicoanalisi interpersonale
e psicologia del Sé: un confronto clinico», Psicoterapia e Scienze Umane, 27, 123-140.
Cusack K., Jonas D. E., Forneris C. A., Wines C., Sonis J.,
Middleton J. C., Weil A. (2016), «Psychological treatments for adults with Posttraumatic Stress Disorder:
A systematic review and meta-analysis», Clinical Psychology Review, 43, 128-141.
Foa E. B., Chrestman K. R., Gilboa-Schechtman E. (2008), Prolonged exposure therapy for adolescents
with PTSD emotional processing of traumatic experiences, therapist guide, Oxford University Press, Oxford.
Liotti G., Farina B. (2011), Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Ogden P., Fisher J. (2015), Sensorimotor psychotherapy: Interventions for trauma and attachment, W. W. Norton & Company, New York.
Shapiro F. (2001), Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR): Basic principles, protocols, and procedures, Guilford Press, New York.
Van der Kolk B. A., Weisaeth L., van der Hart O. (1996), «History of trauma in psychiatry». In B. A. van der Kolk, A. C. McFarlane, L. Weisaeth (Eds.), Traumatic stress: The effect of overwhelming experience on mind, body, and society, Guilford Press, New York, pp. 47-74.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 279 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui