Il videogioco: nuova dipendenza o palestra virtuale?
Ecco una diversa lettura della dipendenza da videogiochi, che per i ragazzi non rappresenta solo un distacco dal reale, ma anche un modo per prepararsi ad esso mediante sfide e battaglie virtuali.
Il mercato dei videogiochi apre le porte su un mondo fatto di grandi numeri e potentissimi affari economici che si estendono a livello planetario. Il fatturato delle aziende di gaming ha sorpassato quello del grande cinema di Hollywood sommato al mercato musicale, determinando il primato dell’intrattenimento web mediato sull’emozione del grande schermo e delle colonne sonore delle nostre vite. Giovani e meno giovani di tutti i continenti appaiono rapiti da battaglie cruente, combattimenti strategici, simulazioni di guida, tornei di calcio – solo per citare i giochi più diffusi – che si svolgono virtualmente in un mondo parallelo ma affollatissimo di vite reali. Esistono campionati, leghe, circuiti di ogni genere e tipo che vedono gli utenti dei videogiochi connessi tra loro grazie alla Rete, anche se si trovano ai lati opposti del mondo, impegnati in una competizione per la scalata al successo e al punteggio più alto.
UN AGONE PLANETARIO VIRTUALE
Il mondo del gaming costituisce un agone planetario virtuale, attivo 24 ore al giorno, senza tregua. Su due estremi opposti, da un lato si hanno storie di successo e di guadagni milionari dei grandi campioni di quello che ormai viene chiamato e-sport, dall’altro un numero sempre crescente di adolescenti si sfila dalla partecipazione al mondo reale per autorecludersi, sbarrando la strada a tutto, tranne appunto che ai videogiochi e alla Rete. L’uso che si fa del gioco online può quindi connotarsi come ludico, ricreativo, dunque fisiologico, oppure come difensivo rispetto all’angoscia e alla fragilità che accompagnano l’esistenza nel mondo reale; o ancora come professionalizzante, in rarissimi e fortunati casi. Esistono categorie di videogiochi davvero molteplici, rispondenti alle più svariate inclinazioni e propensioni, ma ciò che rappresenta una novità del mercato degli ultimi anni è la sempre più imponente contaminazione tra il gioco d’azzardo e il gaming, creata proprio per incentivare la condotta di gioco. Questa tipologia di videogiochi ha la capacità di attivare la ripetizione continua della stessa azione, che può consistere nell’eliminazione di un certo numero di nemici o nel completamento di un determinato livello di gioco, nella speranza di ottenere alla fine il premio virtuale desiderato. Tale meccanismo viene definito, in termini tecnici, “grinding”, ed è considerato uno dei principali indiziati nel favorire condotte di dipendenza. Sia il gioco d’azzardo che la dipendenza da gaming si inscrivono nello spettro delle cosiddette “dipendenze comportamentali”.
Le condotte di “abuso da videogiochi” sono state classificate, nel DSM-5, nella terza sezione, riferita alle condizioni cliniche meritevoli di ulteriori approfondimenti. L’Internet gaming disorder prevede un uso ripetitivo di giochi che si svolgono attraverso il web, spesso con altri giocatori, che porta a significativi problemi di funzionamento sociale, relazionale e lavorativo. I diversi sintomi associati a tale sindrome devono essere presenti per un arco di tempo di almeno un anno.
Anche all’interno dell’ICD-11, la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è presente il gaming disorder, caratterizzato da ricorrente abuso di videogiochi, non necessariamente online, per almeno un anno. Al di là delle classificazioni descrittive e diagnostiche definite in ambito psichiatrico per categorizzare le situazioni di grave compromissione del funzionamento psicologico del soggetto correlate all’uso dei videogiochi, è innegabile il loro potere ipnotico e coinvolgente, soprattutto su coloro che manifestano personali inclinazioni o risultano più suscettibili all’esperienza, come per esempio i bambini e gli adolescenti. L’allarme sociale e mediatico nei confronti del potere che i videogiochi avrebbero sui soggetti in età evolutiva, tuttavia, perde spesso di vista una lettura del fenomeno che tenga conto della sua complessità. Si sottolineano in modo pressoché esclusivo i rischi, legati per esempio al distanziamento dalla realtà, senza tuttavia considerare le ragioni sociali, culturali e affettive che hanno portato le nuove generazioni a incollarsi ai monitor e alle console.
ALLENARSI AGLI SCONTRI VERI DELLA VITA
Il mondo esterno oggi viene vissuto come abitato da rischi e pericoli di ogni genere; non è più solo il possibile incontro col “male intenzionato” a definire le angosce dei genitori, è l’estraneo in termini più generali a rappresentare un pericolo. L’altro non è più percepito quale rappresentante di valori etici e norme condivise, o condivisibili; la fluidità di pensiero, di idee e di principi che caratterizza la nostra società ha di certo una ricaduta nel far percepire gli individui come estranei, anziché parte della stessa comunità educante. La soggettività è il valore imperante del nostro contesto storico: come dicono i sociologi, il “sovranismo psichico” governa indiscusso la ragione di ognuno, costituisce l’unico – paradossale – valore condiviso. Accanto all’individualismo, alberga la diffidenza legata ad ogni tipo di diversità e di fragilità che oggi occupano il nostro pianeta, fino a diventare radicalizzazione, estremismo, razzismo, angoscia per l’estraneo. Il sopravvento di queste e di molte altre paure ha comportato la dimissione progressiva dagli spazi di socializzazione libera che un tempo erano riservati alla crescita dei più giovani, dalle piazze agli oratori, ai cortili. Il recinto entro cui crescere e sperimentare è stato perimetrato dagli adulti con molta cura e attenzione, gli spazi di incontro e di socializzazione sono stati finalizzati e organizzati dai genitori con l’idea di tenere lontani i pericoli e di avvicinare risorse: sport, corsi, laboratori hanno sempre una regia, un presidio che origina dal mondo dei grandi. A partire dalla preadolescenza, nelle ore libere da impegni scolastici e da altre attività strutturate, fino al rientro a casa dei genitori, si rende disponibile uno spazio/tempo che può essere gestito in autonomia dai ragazzi, lontano dagli sguardi delle madri e dei padri al lavoro. Questo inter-regno viene spesso abitato da frequentazioni virtuali sui social network o da battaglie virtuali all’ultimo sangue.
Prima di rappresentare un rischio per la salute psichica dei ragazzi, i videogiochi assolvono due funzioni protettive fondamentali per gli adulti. In primo luogo, consentono di tenere lontani i rischi percepiti nel mondo esterno, perché si gioca e si combatte stando comodamente seduti nella propria stanza, senza incontrare potenziali nemici reali e senza riportare alcun graffio, come invece accadeva in passato nelle zuffe di strada reali. In secondo luogo, tengono molta compagnia e anestetizzano il senso di solitudine così mal tollerato dalle nuove generazioni e dai loro genitori, fin dalla più tenera età. Non è l’attività di gioco in sé a fungere da anestetico alla noia, quanto la possibilità di giocare online con altri utenti, spesso amici che si conoscono e si frequentano nella vita reale.
Quindi, prima di essere incriminati come le sostanze stupefacenti, come responsabili attivatori di una dipendenza patologica, i videogiochi adempiono a un bisogno sociale, affettivo ed educativo fondamentale, di cui gli stessi adulti talvolta fanno fatica a rendersi conto. La promozione del mondo videoludico quale spazio in cui vivere protetti dai rischi del mondo reale è senza dubbio sempre più potente e altrettanto inconsapevole. I videogiochi sono strutturati in maniera da favorire processi di identificazione assai potenti e proprio per questo consentono di dar voce a molteplici aspetti psicologici e affettivi che negli ultimi anni ci siamo trovati a studiare con sempre maggiore attenzione, sia rispetto alla fisiologia dell’adolescenza sia rispetto alle crisi e ai gravi blocchi evolutivi in cui si trovavano i ragazzi che abbiamo incontrato nei nostri studi.
La loro capacità di attivare a livelli molto profondi aspetti emotivi è ormai provata da studi neuro-psicologici. Su questo aspetto il mondo scientifico è ancora assai impegnato nel comprendere se i videogiochi possano alterare le capacità dell’individuo, provocando un aumento dell’aggressività e una riduzione dell’empatia. Alcuni studi hanno dimostrato come nel lungo termine l’uso intensivo di videogiochi violenti non desensibilizzi nei confronti degli stimoli emotivi, non aumenti l’aggressività, né attenui le capacità empatiche delle persone. In controtendenza alle angosce sul tema, esistono inoltre studi neuroscientifici che valorizzano l’utilizzo dei videogiochi nei progetti di riabilitazione cognitiva e li impiegano come sostegno nei disturbi di apprendimento. Il lavoro clinico con gli adolescenti mostra ogni giorno che tali strumenti svolgono un importante ruolo di sostegno nel difficile lavoro di mentalizzazione del corpo, nell’acquisizione di un ruolo all’interno della propria cerchia di amicizie e talora persino nella società, per i casi più fortunati.
IL VALORE SIMBOLICO DELLE PARTITE
Il sogno di diventare un famoso youtuber capace di attirare follower, grazie alla messa in Rete delle proprie imprese videoludiche, costituisce oggi uno dei desideri più diffusi tra i giovani, superando la carriera calcistica o quella musicale, che fino a pochi anni fa ancora dominavano i primi posti della classifica dei traguardi dorati più ambiti nel futuro. Più in generale, il videogioco rappresenta una palestra virtuale in cui sperimentare le proprie nascenti capacità, oltre a consentire di esprimere degli aspetti di aggressività che oggi vengono censurati e inibiti fin dalla più tenera età, in nome dell’educazione al rispetto e alla pace. La negazione delle differenze di genere, che non tiene conto della necessità fisiologica maschile di elaborare e gestire la forza fisica e le spinte esplorative, sempre più spesso viene eretta a vessillo educativo da apporre contro la violenza e la sopraffazione.
Ai maschi in particolare, pertanto, non resta che fare la guerra virtuale, che deporre armi e frecce, loro ancestrali pratiche di gioco che oggi scandalizzano le mamme, rinchiudendosi nel tepore della propria stanzetta a far finta di combattere e di intraprendere mirabolanti imprese. Si gioca dunque una battaglia densa di valore simbolico in ogni partita. La scelta del gioco, dell’arma da utilizzare e delle abilità si accompagna a potentissimi significati affettivi ed emotivi. La selezione dell’avatar, del personaggio con cui si partecipa al videogioco, e delle sue caratteristiche è per i ragazzi una questione molto delicata e pensata, nella quale si racchiudono aspetti ideali o reali di sé. Incontriamo tanti giovani maschi convinti di avere una dotazione corporea assolutamente insufficiente e impotente, in crisi rispetto al compito di integrazione nell’immagine di sé, di un corpo trasformato dalla pubertà e vissuto come estremamente deludente rispetto agli ideali di onnipotenza infantile. Nel lavoro clinico con loro è molto utile valutare se, per esempio, la scelta dell’avatar si rivolge a personaggi goffi e mostruosi o, viceversa, potentissimi e dotati di poteri micidiali, che danno voce ad aspetti ideali o nascosti del loro funzionamento. Il videogioco può quindi consentire di simbolizzare le fatiche evolutive, fornendo una via creativa di elaborazione dei compiti e dei conflitti che gli adolescenti stanno attraversando con la crescita.
Anche il modo di videogiocare riflette aspetti profondi del loro mondo interno. Nel lavoro terapeutico è importantissimo risimbolizzare ciò che succede nel videogioco, metterlo in relazione a come sono vissute e gestite le esperienze della vita reale, specialmente in relazione ai conflitti, alle frustrazioni e alle aspettative. Accompagnare i ragazzi in questo processo di rielaborazione dei significati sottesi alle loro azioni virtuali costituisce un’azione clinica con alto potere trasformativo. La monumentalizzazione del valore insito nell’attività svolta nei videogiochi ha lo scopo di rendere i ragazzi più consapevoli anche delle fatiche che vivono nella realtà.
Questi temi diventano ancora più rilevanti con gli adolescenti in condizione di ritiro sociale, che non hanno altro mezzo di relazione col mondo oltre al videogioco, il quale spesso li vede impegnati in relazioni anche assai intense con i giocatori che si trovano dall’altra parte dello schermo. Quando la fragilità narcisistica che li attanaglia prende potere assoluto e impedisce agli adolescenti di affrontare le fatiche della crescita, battere in ritirata, ritirarsi dalle scene sociali e relazionali del mondo reale può apparire come l’unica soluzione possibile per non perdere completamente il contatto con la vita e con la realtà. In casi del genere, il mondo videoludico rappresenta una risorsa “salvavita”, l’unica fonte di ossigeno e di relazione che questi ragazzi riescono a tollerare.
Loredana Cirillo è psicologa e psicoterapeuta, e docente del master in Psicologia dei nuovi media all'Istituto Minotauro. Tra gli altri libri, ha scritto Adolescienza (con G. Pietropolli Charmet, San Paolo, 2010).
Matteo Lancini è psicologo e psicoterapeuta. Presidente della Fondazione Minotauro di Milano, insegna all’Università Milano-Bicocca. Tra i suoi ultimi libri: Il ritiro sociale negli adolescenti (Raffaello Cortina Editore, 2019).
Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui