Giorgio Nardone

La dipendenza dall’idea di dipendenza

Applicare la logica terapeutica dei gruppi di mutuo aiuto a “dipendenze non da sostanze” può portare a rafforzare l’addiction stessa. Si pensi ai gruppi degli ipersessuali.

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In seno alla tradizione delle terapie rivolte a chi presenta una problematica psicologica è presente, dalla metà del secolo scorso, una visione che più che prendere spunto da una vera e propria teoria formalizzata, si basa su una particolare esperienza di supporto nei confronti della cosiddetta dipendenza: costrutto, questo, che fa riferimento a una forma di patologia che si identifica nel dipendere da qualcosa o qualcuno a cui è difficile rinunciare e su cui inesorabilmente si finisce per ricadere. L’approccio fondamentale di trattamento delle dipendenze è basato su un associazionismo studiato in gruppi di incontro, guidati, il più delle volte, non da un esperto certificato, ma da un “ex dipendente”.

Durante le sessioni, ognuno dei presenti testimonia la propria esperienza di chi cerca di uscire dal suo problema, esprimendo sia le proprie difficoltà che i propri successi, supportato dalla coesione psicologica del gruppo, che incita costantemente il singolo alla lotta con il suo disagio. L’Anonima Alcolisti è stata la prima di queste esperienze e la maggioranza delle associazioni analoghe ne segue il modello, con i suoi “Dodici passi” per liberarsi dalla dipendenza. Gregory Bateson studiò il funzionamento di tale procedura mettendo in risalto le proprietà terapeutiche dell’aggregazione relazionale e della coesione di gruppo, e il suo potere di influenzarne l’agire in direzione della riduzione della dipendenza dall’alcol, soprattutto in soggetti giunti a isolamento sociale che proprio nella dinamica del gruppo trovavano un marcato supporto e una notevole spinta verso la liberazione dalla addiction.
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Da decenni, oggi un lavoro di questo tipo viene svolto con la tossicodipendenza e la devianza sociale all’interno di comunità di recupero o di libere associazioni di incontro a cui i soggetti aderiscono volontariamente. Questa tipologia di intervento ha avuto grande popolarità; grazie anche ai numerosi film che ne hanno parlato, l’esperienza in questione ha avuto un ruolo cruciale e un gradiente significativo di risultati terapeutici. Tanto che ormai esistono associazioni di ogni tipo che trattano problematiche di qualunque patologia, con tale modalità terapeutica.

Il problema si presenta quando questo modello di intervento riabilitativo, messo a punto per la dipendenza da sostanze che alterano la chimica dell’organismo, viene applicato a condizioni patologiche con caratteristiche completamente differenti, come i disordini alimentari, la gelosia patologica, gli attacchi di panico, gli attaccamenti morbosi, i disturbi ossessivo-compulsivi, i disturbi borderline e di personalità ecc. La trasposizione a questi disturbi di tale pratica appare chiaramente arbitraria e ben poco calzante a realtà patologiche caratterizzate da un funzionamento ben diverso da quello osservabile nella dipendenza da sostanze. La cosa peggiore è l’effetto che questa produce a livello di relazionalità in soggetti che condividono una psicopatologia – ossia la coesione al gruppo di appartenenza – basata sull’identità di persona, con un disturbo che si associa a persone con esperienze simili, con le quali si strutturano un legame e una sorta di lealtà sistemica che vanno a configurarsi come una vera e propria dipendenza dal gruppo.

All’interno di una dinamica psicosociale del genere, paradossalmente il guarire dal proprio disagio, che unisce agli altri, diviene pericoloso e fonte di sofferenza da perdita di appartenenza al gruppo. Ciò risulta ancora più chiaro se si considerano le caratteristiche specifiche, a livello di tipica relazionalità morbosa, di molte forme di psicopatologia, come per esempio gli attacchi di panico, ove il soggetto cerca costantemente protezione per la paura di stare da solo e di essere aggredito dalla sintomatologia, per lui ingestibile: in questo caso il gruppo diviene una sorta di protezione patogena, che alimenta il disturbo invece di aiutare a estinguerlo. Oppure si pensi all’anoressia, ove la paziente crea legami, affettivi e relazionali, ambivalenti e morbosi all’insegna di una forma di attaccamento che in seno a un gruppo trova nutrimento; tutto questo fa capire come il gruppo di incontro possa divenire iatrogeno invece che terapeutico. 

Al proposito è davvero curiosa l’esperienza di un giornalista del Time il quale, fingendosi “ammalato” di ipersessualità, si è unito a un gruppo di incontro appositamente organizzato per la dipendenza da sesso, un’associazione assai di moda negli ultimi anni negli Stati Uniti, anche perché i soggetti affetti da ipersessualità possono eludere il pagamento di ingenti somme ai partner in caso di separazioni causate da ripetuti tradimenti. Il giornalista “infiltrato”, nel suo articolo, riporta che ciascun partecipante raccontava tutte le sue fantasie erotiche o le sue funamboliche pratiche sessuali osservando un elevato tasso di attenzione e partecipazione da parte degli astanti e che, ogni tanto, qualcuno correva al bagno e tornava con un’espressione di soddisfazione e di profonda rilassatezza. Lascio immaginare al lettore cosa accadesse… Se infatti si tratta una compulsione basata sul piacere come se fosse una dipendenza, si finisce per alimentarla anziché ridurla.

Purtroppo applicare una forma di terapia a disturbi o disagi eterogenei, come se fosse una panacea universale, non è un fatto isolato in psicoterapia, ma anzi quasi una costante, e a ciò dobbiamo prestare una particolare attenzione, per evitare di esserne prima artefici e poi vittime. Innamorarsi e dipendere dalle proprie teorie e pratiche cliniche è piuttosto frequente poiché queste provengono dalle identità personali, oltre che professionali, dei terapeuti. Perciò vengono praticate anche quando non sono idonee. Del resto, una delle psicotrappole più frequenti per l’essere umano è applicare una buona soluzione per un problema a condizioni simili ma non isomorfe, solo per una fedeltà inconsapevole alle proprie idee e convinzioni. Come ammoniva Nietzsche, ripreso da Bill Gates: «Chi ha solo un martello vede solo chiodi su cui batterlo».

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 273 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui