La gestione del conflitto
In un contrasto, restare imprigionati nel dualismo “o si vince o si perde” significa non superare mai la tensione conflittuale. La soluzione, semmai, è quella che trasforma l’ostilità riuscendo a mantenere la relazione.
In una famosa scena del film Il grande dittatore di Charlie Chaplin, Adenoid Hynkel e Bonito Napoloni si affrontano facendo sfoggio delle loro reciproche “grandezze”. La sfida a chi vince, spingendosi più in alto, si svolge su due particolari poltrone da barbiere: perfetta e geniale rappresentazione di una “escalation simmetrica” nella quale i ruoli one-up/one-down e le dinamiche all’origine della contesa ci appaiono quanto mai chiari.
Il genio di Chaplin anticipa, attraverso questa scena, quello che le teorie di Paul Watzlawick sulla pragmatica della comunicazione ci avrebbero spiegato una trentina di anni dopo: il vero conflitto è primariamente un conflitto di relazione, le parole svolgono un ruolo di supporto, raramente sono funzionali, e soprattutto risolutive, durante le prime fasi della disputa. È per questo motivo che Chaplin fa recitare ai suoi protagonisti frasi stupidissime, come avviene in molte liti a cui assistiamo nei talk show televisivi: quando scatta l’escalation simmetrica la qualità dei contenuti inevitabilmente si deteriora, perché è in atto una sfida, molto più antica, tra chi vince e chi perde. (CONTINUA...)
Vincere o perdere
Il primo elemento da prendere in considerazione quando parliamo di gestione dei conflitti, e quindi di una loro possibile soluzione, è proprio questo: acquisire consapevolezza di quello che accade dentro di noi. È nella parte più antica del nostro cervello, infatti, che avviene qualcosa che è molto importante comprendere a fondo. L’innesco del conflitto determina una risposta automatica del nostro organismo definita di “attacco o fuga”, nota in letteratura anche come “fight or flight response”, in onore del fisiologo statunitense Walter Bradford Cannon che per primo descrisse tale fenomeno. Questo meccanismo, com’è noto, attiva una serie di mutamenti fisiologici finalizzati a determinare la massima efficacia di tali comportamenti. Ma l’aspetto che ci preme sottolineare nella presente sede è come comportamenti del genere, che hanno svolto un ruolo fondamentale nel corso dell’evoluzione per la sopravvivenza della nostra specie, assumano significati completamente diversi quando vengono inseriti nel contesto di una dinamica sociale.
Quello che cercheremo di dimostrare è che lasciarsi coinvolgere in una sfida all’“o si vince o si perde” non genera mai le migliori premesse per una risoluzione del conflitto. Risoluzione da intendersi sempre come “trasformazione” del conflitto orientata al proseguimento della relazione. Perché, chiaramente, sia la fuga che l’attacco, nella loro essenza, non mirano a tale risultato. La possibilità di gestire strategicamente le dinamiche conflittuali parte dunque da questo primo elemento di consapevolezza, che aiuta anche a superare convinzioni e stereotipi, molto radicati e prevalentemente negativi, che da sempre accompagnano il tema dei conflitti.
L’illusione dell’inizio
Un secondo importante elemento di consapevolezza, che ancor più diverge dal senso comune, consiste nell’abbandonare l’illusione di poter stabilire con certezza l’origine del conflitto, per poter dimostrare chi ha ragione e chi ha torto. Fin da bambini ci hanno inculcato questo pensiero, sia genitori che insegnanti ci hanno indotto a rispondere alla domanda: «Chi ha cominciato?».
La convinzione di poter definire con precisione l’evento iniziale di un conflitto decade quando si comprende la natura sistemica e circolare dell’interazione comunicativa. La semplice frase «Non sono io a spiegarmi male, sei tu che non capisci» può evidentemente essere ribaltata da qualsiasi interlocutore che non condivide o non accetta questo punto di vista. Tale concetto, nella sua semplicità realmente “rivoluzionario” rispetto al pensiero comune, è ben spiegato da uno degli assiomi della pragmatica della comunicazione, definito la “punteggiatura della sequenza di eventi”. Ciò che accade è che in genere i protagonisti di un conflitto non negano l’oggettiva realtà di una situazione – nel caso dell’esempio precedente: non riuscire a capirsi – ma si definiscono solamente l’“effetto”, perché la “causa”, il motivo per cui non si capiscono, dipende dall’altro. Se i due contendenti si irrigidiscono su questa posizione, e non sono disposti a cambiare la loro visione del conflitto, non si potrà che assistere a un’ulteriore immissione di forza nel sistema (escalation simmetrica).
Lo schema descritto finora è, nella sua essenza, molto semplice e la sua natura è così radicata nel profondo del comportamento umano da poterci permettere di paragonare il piccolo litigio tra due bambini con i grandi conflitti internazionali. Quando ai tempi della guerra fredda si parlava di corsa agli armamenti, nessuno dei due contendenti, USA e URSS, negava l’oggettiva realtà della situazione; difatti, se interpellati, rispondevano: «È vero che stiamo aumentando i nostri armamenti, ma lo facciamo solo per ragioni difensive (l’effetto) perché gli altri hanno assunto posizioni minacciose e offensive (la causa) alle quali siamo costretti a rispondere. In sintesi, sia nelle piccole dispute come nei grandi conflitti, ci troviamo di fronte a un deficit di consapevolezza dovuto alla difficoltà di accettare la natura indubbiamente complessa, e per certi versi controintuitiva, della comunicazione; quest’ultima, proprio nel conflitto, rivela in modo quanto mai esplicito la sua natura sistemica (circolare e ricorsiva), che porta, attraverso il concetto di feedback, a superare la visione lineare causa-effetto, per approdare a uno scenario nel quale le persone coinvolte sono unite da un particolare legame: si influenzano e dipendono nel medesimo tempo.
Il legame di interdipendenza
Questo particolare legame, o vincolo di interdipendenza, diviene inevitabile quando i protagonisti di una disputa, per quanto in modo conflittuale, non sfuggono alla relazione, e possiamo esprimerlo nei seguenti termini: il legame tra le parti è tale per cui l’obiettivo di ciascuna parte può essere raggiunto solo attraverso l’altra. È quanto accade nelle negoziazioni, all’interno delle quali nessuna delle parti coinvolte dispone di tutto il potere e l’azione di ognuna delle parti in gioco influenza e dipende dall’azione dell’altra. Perciò possiamo considerare questa particolare condizione, il “metodo negoziale”, quando viene formalmente accettata, come una tra le conquiste più alte della nostra civiltà. Chi negozia decide infatti di “abbandonare le armi” e di mettersi attorno a un tavolo a discutere, avendo fiducia di trovare una soluzione.
Affermare questo non significa certo sottovalutare l’intrinseca difficoltà del metodo. Per millenni gli esseri umani hanno risolto i loro confitti (e continuano a farlo) tramite la lotta, lo scontro fisico, la guerra, accettando di sottomettersi, di dipendere, solo se sconfitti. Per la nostra mente, quindi, è estremamente difficile far coesistere queste due forme di relazione all’interno della medesima situazione: affermare e concedere; convincere e accettare; influenzare e dipendere.
La consapevolezza di tale limite della natura umana era ben chiara a un geniale pedagogista, Loris Malaguzzi, creatore a partire dagli anni Sessanta di un modello di scuole per l’infanzia divenute molto note anche all’estero sotto il nome di “Reggio Emilia approach”. Per affrontare questa difficoltà aveva ideato un gioco assai efficace: stendeva sul pavimento un grande foglio contenente la sagoma di un animale e chiedeva ai bambini di ricalcare il bordo di quella sagoma con una matita colorata a loro disposizione. La matita di ciascuno di loro era però legata alle matite di tutti gli altri mediante una fitta ragnatela di sottili cordicelle. Ogni singolo bambino si accorgeva a quel punto che in alcune fasi poteva avanzare e che in altri momenti era invece necessario fermarsi per far procedere qualcun altro, fino a quando, diminuita la tensione della corda, poteva nuovamente spingere in avanti la propria matita. Dunque, non era necessaria alcuna elaborazione cognitiva, i bambini sperimentavano direttamente sul loro corpo, fisicamente, questo strano ossimoro: per poter avanzare devi fermarti.
L’aspetto più importante per risolvere i conflitti, per trasformarli in una dimensione, magari sofferta, ma intenzionalmente costruttiva, è rappresentato pertanto da una profonda consapevolezza della dinamica relazionale che li caratterizza. Il passo successivo impone due scelte precise: opporsi alla logica dell’“o si vince o si perde”, che rischia di trascinarci in una spirale regressiva (attacco/fuga), e abbandonare l’idea di potersi ricavare un vantaggio stabilendo la causa originaria del conflitto, perché all’interno di qualsiasi relazione continuativa chiunque è sempre capace di poter attingere a un “prima” e, quando ciò non è possibile – com’è realmente avvenuto in molte vicende umane –, di inventarlo.
La gestione delle emozioni
Quanto analizzato finora è stato utile a comprendere l’importanza fondamentale della consapevolezza ai fini di un’efficace gestione delle situazioni conflittuali. Tuttavia, anche la migliore consapevolezza non può sottrarci allo stress emotivo che può derivare da una dinamica conflittuale. L’argomento è estremamente vasto, ci limiteremo dunque a tracciare le linee guida più rilevanti.
Anni di ricerca sullo stress convergono su un punto importante: non è possibile stabilire un criterio oggettivo per valutare il potenziale stressante di un certo stimolo ambientale. Lo stress emotivo, quindi, anche all’interno di una dinamica conflittuale, non dipende tanto da ciò che accade o da ciò che facciamo, quanto dal modo in cui lo interpretiamo. Ed è proprio su questo punto che è necessario riflettere, perché ci consente di individuare sia l’origine del problema che le possibili soluzioni. Quasi sempre la nostra incapacità di agire in modo flessibile all’interno di un conflitto dipende da una mancanza di consapevolezza rispetto alle nostre dinamiche emotive e alle loro conseguenze. Limiti che si manifestano nella difficoltà di mettere in atto relazioni positive e nella scarsa capacità di gestire le emozioni quali, per esempio, la rabbia, la paura o il disprezzo per ciò che viene percepito come diverso o lontano da sé.
Riconoscere i fattori che scatenano l’emozione (trigger) che si sta vivendo ci aiuta a individuare una strategia migliore rispetto a un comportamento abituale e poco consapevole. In tal modo possiamo prepararci a gestire meglio le nostre reazioni emotive traendone un grande vantaggio anche all’interno della dinamica relazionale.
Una semplice tecnica, che può essere di aiuto per sviluppare una migliore competenza emotiva, consiste nel redigere una lista di tutte le situazioni in cui una certa emozione ha avuto il sopravvento, attraverso un meccanismo di blocco che ci ha impedito di agire in modo efficace. Il passaggio successivo è cercare di abbinare, a quelle specifiche situazioni, il fattore (trigger) che ha scatenato la nostra reazione di blocco. L’esperienza ci ha insegnato che se riusciamo a stilare un elenco composto da almeno una decina di situazioni, ci accorgeremo che gli elementi scatenanti si possono in genere racchiudere in un paio di categorie alquanto simili tra loro. Comprendere l’origine delle nostre emozioni, essere consapevoli dei propri trigger, è un elemento fondamentale per migliorare la nostra capacità di gestire la componente emotiva all’interno di situazioni conflittuali.
Massimo Berlingozzi, formatore e coach con trent’anni di esperienza, si occupa di gestione dei processi di cambiamento e di sviluppo del potenziale umano. Ha collaborato con le più importanti aziende e società di consulenza in Italia.
Diego Ingrassia, CEO di I&G Management, si è specializzato in Executive Coaching e si occupa di Assessment e Formazione comportamentale e manageriale presso importanti realtà multinazionali.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 274 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui