Giuseppe Riva

La psicologia dei robot sociali

Alcune particolari implicazioni psicologiche quando ci troviamo a relazionarci con robot dalle sembianze umane.

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Negli ultimi mesi sono arrivati sul mercato una serie di robot antropomorfi, cioè di forma umana, di nuova generazione, di cui i rappresentanti più famosi sono i modelli Nao e Pepper, prodotti dalla società giapponese Softbank Robotics (https://www.softbankrobotics.com/), e i modelli R1 e iCub, prodotti dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (https://www.robotiko.it/robot-r1-prezzo/). A differenza dei robot industriali che da una decina di anni sono presenti in numerose aziende italiane e straniere, i robot antropomorfi non si limitano a eseguire compiti, ma sono in grado di attivare interazioni e relazioni sociali con altri robot e con soggetti umani. Da questo punto di vista la diffusione di robot autonomi, con una struttura fisica che ricorda il corpo umano – o, in alcuni casi, simile a quella di animali domestici –, dotati di capacità decisionale e capaci di esternare e generare emozioni, ha aperto un nuovo filone di ricerca, la psico-robotica, il cui obiettivo principale è la comprensione delle dinamiche di interazione sociale generate dall’incontro tra robot e umani, dal punto di vista sia della teoria dell’interazione che della sua progettazione.

La psicologia dei robot sociali

Una prima dimensione analizzata dalla psico-robotica riguarda le modalità con cui percepiamo i robot durante l’interazione con loro. È indubbio che i robot di nuova generazione siano percepiti in modo diverso dalle altre macchine. La loro forma umana e la capacità di comunicare, sia verbalmente che tramite i movimenti corporei, rendono l’interazione molto più semplice e in generale abbastanza simile a quella umana. Per questo vengono definiti anche “robot socialmente assistivi” (Socially Assistive Robots, SARs) e cominciano ad essere utilizzati per interagire socialmente con le persone, aiutandole pure nella gestione del loro benessere fisico e psicologico. 

Una recente review sistematica («Use of social robots in mental health and well-being research: Systematic review», http://www.jmir.org/2019/7/e13322/) ha analizzato in dettaglio 12 studi che hanno utilizzato i robot sociali per fornire conforto e compagnia a diverse categorie di soggetti deboli: da anziani con demenza a pazienti psichiatrici. I risultati emersi sono molto interessanti. In generale, gli impatti degli interventi e delle interazioni sociali andavano da generalmente positivi a misti, con un miglioramento dell’umore e del comfort, e una riduzione dello stress dopo l’interazione con i robot sociali. In pratica, i robot sociali erano in grado di generare vere e proprie forme di attaccamento da parte degli umani coinvolti nelle interazioni. E l’intensità di questo legame può essere assai forte. Per esempio, l’esercito americano ha celebrato un “funerale” per la distruzione del proprio robot Boomer impiegato durante la guerra in Iraq nella ricerca di mine ed esploso durante un’operazione militare. Come racconta la BBC (https://tiny.cc/z06iaz), numerosi soldati che avevano utilizzato il robot hanno sperimentato delle sensazioni di perdita e di dolore simili a quelle provate per la morte di un animale domestico. 

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Allo stesso tempo, però, la review ha evidenziato anche delle emozioni negative legate all’interazione con i robot. In particolare, negli studi con popolazioni di soggetti anziani, tanti soggetti hanno sperimentato aggressività, ansia e depressione dopo l’interazione con i robot sociali. Perché? Una possibile spiegazione viene dal fenomeno dell’“uncanny valley”, descritto per la prima volta dallo studioso di robotica nipponico Masahiro Mori nel 1970. Secondo Mori, la somiglianza dei robot antropomorfi al corpo e alle interazioni umane non produce sempre emozioni positive. Esiste una soglia, che può essere diversa da individuo a individuo, superata la quale il realismo di questi robot smette di generare emozioni positive per produrre sensazioni negative, come ansia e repulsione.

In apparenza, dato che gli studi non hanno ancora fornito una risposta definitiva, questo fenomeno sembra essere legato a quanto l’individuo ritenga simile a sé il robot. Più il robot viene considerato “umano”, maggiore è la delusione che si sperimenta quando l’interazione non è altrettanto efficace quanto quella umana. E ciò provocherebbe una vera e propria disaffezione nei confronti della tecnologia, simile a quella che si prova nei confronti di un amico che ci ha delusi o di un partner che ci ha traditi. 

Una seconda dimensione analizzata dalla psico-robotica riguarda l’interazione tra uomo e robot nel contesto di un’attività condivisa. Cosa succede quando un robot umanoide deve collaborare con un umano per fare qualcosa insieme? Anche in questo caso uno studio recente ha iniziato a fornire una serie di indicazioni («Preferred interaction styles for human-robot collaboration vary over tasks with different action types», http://tiny.cc/i49iaz). La prima è che le modalità di collaborazione ottimale cambiano in base al tipo di compito. Per rispondere alla domanda: gli umani come vogliono interagire con i robot collaborativi? 

Quando il compito è di tipo motorio e va realizzato insieme al robot – per esempio, realizzare insieme una torre di cubetti – sono preferite le interazioni guidate dall’uomo. Infatti, quando è critica la trasmissione di informazioni temporali fra uomo e robot, i soggetti preferiscono essere loro a dare il via all’azione. Invece, nelle situazioni ad alto carico cognitivo – per esempio, realizzare insieme una torre di cubetti usando delle regole complesse e precise – sono preferite le interazioni guidate da robot. In particolare, i soggetti preferiscono che sia il robot a definire la strategia, comunicando il suo piano condiviso riguardo a ciò che l’uomo dovrebbe fare. 

Questi esempi mostrano con chiarezza che anche un ambito strettamente tecnologico, come la robotica, nel momento in cui si sposta nel dominio della comunicazione e dell’interazione sociale richiede necessariamente l’intervento delle scienze umane per comprendere i processi da riprodurre e la strategia da utilizzare. Perciò la strategia migliore per raggiungere tale obiettivo è la costituzione di gruppi di ricerca multidisciplinare che affrontino lo studio dell’interazione uomo-robot integrando le competenze di diverse discipline: elettronica, informatica, neuroscienze, psicologia sociale, economia comportamentale e così via. Un esempio in tal senso è la recente creazione dell’Human-Robot Lab (HURO-Lab) all’interno dell’Università Cattolica di Milano, che, insieme ai ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, ha iniziato a studiare come comprendere e rendere efficace e utile l’interazione uomo-robot.

Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Fake news. Vivere e sopravvivere in un mondo post-verità (Il Mulino, 2018) e, con A. Gaggioli, Le realtà virtuali. Gli aspetti psicologici delle tecnologie simulative e il loro impatto sull’esperienza umana (Giunti Psychometrics, 2019).

www.giusepperiva.com

Questo articolo è di ed è presente nel numero 276 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui