La psicologia tra scienza e senso comune
Qual è il rapporto tra le idee e le credenze che le persone comuni hanno sui processi psichici e le teorie proposte dalla psicologia contemporanea? perché lo psicologo ricorre talvolta a spiegazioni che possono apparire banali?
Alla fine dell’Ottocento si diffuse l’idea che la psicologia, attraverso l’adozione del metodo sperimentale, avrebbe potuto conquistare uno statuto scientifico simile a quello che aveva permesso il fiorire della scienza moderna, dalla fisica alla chimica o alla biologia. Così la psicologia non sarebbe stata più un ramo della speculazione filosofica, ma sarebbe entrata a pieno titolo nel novero delle discipline scientifiche.
La “nuova psicologia”, titolo di varie monografie apparse fino al primo decennio del Novecento, diveniva “scienza” nel momento in cui abbandonava l’impostazione soggettivista e introspezionista del passato (il filosofo che medita sulla propria mente: la armchair psychology, la “psicologia da poltrona”, come la chiamarono i “nuovi” psicologi di lingua inglese) e la ricerca era praticata nei laboratori con strumenti e misure oggettive ed esperimenti su “oggetti” esterni (cioè esseri umani che in seguito sarebbero stati chiamati “soggetti”, con una sorta di ritorno all’antico, tant’è che poi si è preferito parlare di “partecipanti”).
LA GENESI DELLA PSICOLOGIA COME SCIENZA
Hermann Ebbinghaus, lo psicologo tedesco noto per i suoi esperimenti sulla memoria, nel suo manuale Psicologia (1908) fece un’affermazione che è stata più volte ripetuta («La psicologia ha un lungo passato, ma solo una breve storia») per indicare che fino dai tempi della filosofia greca vi erano state descrizioni della psiche e dei suoi processi, ma che soltanto in tempi recenti era iniziata la sua vera storia come scienza. Lo stacco tra il passato e il presente era stato determinato per lo sperimentalista Ebbinghaus dall’introduzione di metodi empirici, e in primo luogo del metodo sperimentale in senso stretto. Mentre Ebbinghaus scriveva questa frase, era già divenuto chiaro per la comunità degli psicologi che la loro disciplina poteva applicare il metodo sperimentale solo in certe aree di base, mentre altri settori, in particolare la psicologia clinica e la psicoterapia, non vi potevano ricorrere. Allo stesso tempo si formarono sistemi teorici legati necessariamente a metodologie diverse: così il comportamentismo si fondò sul metodo sperimentale, mentre la psicoanalisi si presentò come lo studio e la cura della psiche al di fuori dei canoni galileiani.
Mentre le varie scuole si contendevano il riconoscimento di quale fosse la teoria psicologica (un dibattito che portò negli anni Venti alla discussione sulla crisi della psicologia e alla perdita della illusione di una scienza sperimentale unitaria nella constatazione di una progressiva e divergente ramificazione teorica), Wolfgang Köhler pose un problema di natura diversa, più “fondativo” come si direbbe in epistemologia. Le scienze fisiche e naturali, osservava questo teorico della Gestalt, lavorano su concetti e fenomeni che nel corso dei secoli sono stati introdotti nel panorama della ricerca sperimentale (oggi potremmo menzionare, per esempio, i seguenti: quanto, quark, DNA, buco nero, ecc.). Al contrario in psicologia, al di là dei metodi usati, si lavora su concetti e fenomeni che sono rimasti fondamentalmente gli stessi da quando su di essi è caduta l’osservazione dei filosofi e scienziati della Grecia classica (fermiamoci alla tradizione occidentale). In primo luogo «non ci sono state scoperte scientifiche semplicemente perché – assai prima che fosse scoperta la psicologia scientifica – praticamente l’uomo era già a conoscenza di tutti i campi della vita mentale». Quando gli psicologi «mossero i primi passi in questa scienza non era rimasto nessun fatto mentale completamente sconosciuto da scoprire». In secondo luogo, non si deve essere psicologi per conoscere l’esistenza dei concetti e fenomeni psichici: «Ciascuno di noi ha familiarità con le principali funzioni dell’uomo, come l’abitudine, la memoria, i sentimenti, le emozioni, il pensiero, l’attenzione, il sonno, i sogni».
IL BAGAGLIO DELLA PSICOLOGIA DEL SENSO COMUNE
In altri termini, alla psicologia come ricerca e pratica professionale preesiste una conoscenza psicologica che non si acquisisce nelle aule universitarie, nei laboratori o nei setting clinici, ma che è patrimonio di ciascun essere umano. Un bagaglio di concetti e osservazioni empiriche che è stato definito “psicologia del senso comune” (common-sense psychology) o “psicologia popolare” (folk psychology). Quindi si contrappone alla psicologia “alta” (accademica e professionale) degli psicologi e degli psicoterapeuti, certificati tali da una istituzione, la psicologia “bassa” delle persone comuni. La studentessa e lo studente che si iscrivono a un corso di psicologia aspirano ad accedere a tale livello “alto” di conoscenza, da subito istruiti dai docenti ad abbandonare la vecchia tradizione filosofica, ma mai sono avvertiti appieno che il problema più radicale è come rapportarsi alla loro implicita, non consapevole, preesistente conoscenza psicologica “comune”. Prendiamo dei laureati in psicologia che hanno superato l’esame di stato e sono iscritti a una scuola di psicoterapia (quindi con almeno cinque anni di studio più un anno di tirocinio): mi è capitato più volte durante i seminari di psicologia generale che ho tenuto per le allieve e gli allievi di queste scuole di sottoporre loro una specie di test nel quale vi era una decina di affermazioni sintetiche sui processi psichici, sia cognitivi sia dinamici, e di indicare se ciascuna di esse poteva essere stata ripresa da un testo di psicologia. Per esempio: «Sono importanti gli esempi forniti da modelli di persone percepite simili a sé che hanno avuto successo ed hanno superato delle difficoltà. Anche l’incoraggiamento da parte di altri e la consapevolezza di aver fatto quello che si doveva fare consentono di superare i risultati temporaneamente negativi» o «Il ricordo di un forte trauma emotivo, causato da un episodio di violenza, può essere alterato in chi ne è stato testimone o vittima».
Queste affermazioni sono state scritte da un professionista della psicologia o da una persona di media cultura, che può non aver mai letto un libro di psicologia? Le risposte sono casuali. A meno che non le si faccia precedere da premesse del tipo «Come sostiene una teoria psicologica…» oppure «Secondo alcuni esperimenti…». Allora quelle affermazioni vengono inglobate, o si tenta di farlo, in un modello teorico. Quindi un’affermazione generica, che potrebbe essere sostenuta da qualsiasi donna o uomo, come si dice, della strada, acquista una autorevolezza scientifica per una semplice premessa. Va notato che nelle due affermazioni qui portate a esempio vi sono termini (“percepite” da percezione, “consapevolezza”, “ricordo”, “emotivo” da emozione) che si riferiscono a specifici processi psichici. Dunque di questi processi si parla e si può parlare anche senza un minimo di conoscenze in psicologia (ciò non accadrebbe se si trattasse di argomenti di neurochimica, astrofisica, ecc.). Vi sono due aspetti che emergono quando si discute dei risultati di questa semplice esercitazione con i futuri psicoterapeuti. Primo, si riscontra una certa difficoltà a comprendere il problema. Si risponde che la psicologia è un’altra cosa, che vi sono teorie, esperimenti, scuole di formazione, ecc. Se si fa presente che la fenomenologia psichica, qual è documentata da un lessico inveterato fissatosi 2500 anni fa nel mondo occidentale, grazie alla cultura e alla scienza greca, è di fatto una “sovrastruttura culturale” e che ciò non accade per la scienza moderna, allora – e questo è il secondo aspetto critico – si constata una forma di resistenza e talvolta di reazione polemica.
I DUBBI DELLA PSICOLOGIA POSTMODERNA
Una corrente teorica sorta nella psicologia contemporanea nell’ultimo decennio del secolo scorso, ma tuttora minoritaria nell’ambito della ricerca accademica, ha invece richiamato l’attenzione sulla relatività storico-culturale della concezione occidentale della psiche e sull’esigenza di considerare le altre concezioni maturate in contesti culturali diversi (in particolare in Cina, Giappone e India). Questa corrente, in analogia alle impostazioni anti-universalistiche in letteratura e architettura (un complesso di idee e movimenti culturali noti come postmodernismo), è nota come “psicologia postmoderna”: sostanzialmente è una critica delle teorie psicologiche che, basandosi sulla nozione di una Mente universale, propongono un modello dei processi psichici stabile nel corso della storia della specie umana e valido nello stesso tempo per tutti i popoli del nostro pianeta. Di fatto, questo modello non ha solo un valore conoscitivo, ma diviene un parametro applicativo per individuare le menti che deviano dalla norma e che per evidenti ragioni non appartengono alla cosiddetta popolazione wasp (White Anglo-Saxon Protestant) o alle popolazioni simili, su cui è si consolidata la ricerca psicologica “scientifica” occidentale (con le distinzioni: bianchi-neri, maschi-femmine, normali-patologici). Una bambina e un bambino crescono in un dato contesto culturale, dal quale apprendono pattern di comportamento personale e individuale, il tutto inquadrato in una determinata rappresentazione del mondo psichico proprio e altrui, espressa in un lessico altrettanto relativo (il che, notoriamente, rientra nelle ricerche contemporanee sulla Teoria della Mente). È su questa rappresentazione “ingenua” che viene edificata la rappresentazione “scientifica”. D’altronde questa rappresentazione infantile era stata già esaminata, fra gli altri, e in modo sistematico, da Piaget nel suo celebre libro La rappresentazione del mondo nel fanciullo del 1926, dove i bambini sono interrogati non solo su che cosa sia la vita, come e perché si muovano il sole e la luna, da dove nascano gli alberi, l’acqua o le montagne, ma anche da dove vengano i sogni, che cosa sia la coscienza, perché ci siano i nomi. Risposte, quelle sul mondo psichico, di una tale profondità e articolazione che fanno pensare a piccoli psicologi. Però, come notò Vygotskij, sono ricerche che Piaget condusse sui propri figli e sui loro compagni di asilo: i risultati riflettevano quindi sia lo sviluppo psichico del “bambino svizzero” dell’epoca sia, si può aggiungere, la concezione del mondo psichico che questi bambini avevano interiorizzato già dai primi anni di vita nel loro contesto sociale e culturale.
PSICOTERAPIA E “PSICOBANALISI”
In psicoterapia il rapporto tra psicologia “scientifica” e psicologia “popolare” è complesso e, a quanto sembra, non è stato affrontato se non sporadicamente. Se un medico comunica al paziente che i sintomi sono probabilmente causati da ateromasia, a meno che il paziente stesso non sia un medico o gli sia già noto questo termine, occorre tradurlo in termini più semplici e comprensibili. Se uno psicoterapeuta comunica al paziente che i suoi sintomi nevrotici sono probabilmente causati da un conflitto irrisolto con il padre, il paziente comprende immediatamente il messaggio. Lo psicoterapeuta può complicare, più o meno consapevolmente, il discorso con riferimenti teorici e termini meno frequenti per un vocabolario medio, ma generalmente la cura delle parole si svolge grazie a un vocabolario di base condiviso. Questo quadro diviene evidente soprattutto quando uno psicologo o uno psicoterapeuta si pronunciano su un quotidiano o alla televisione su eventi e problemi di largo interesse pubblico. Si pensi a quanto abbiamo spesso letto o ascoltato sugli effetti psicologici della pandemia da Covid e a quante volte ci siamo chiesti se era indispensabile una formazione universitaria in psicologia per esprimere quelle opinioni. Il colloquio tra chi intervistava nel talk show televisivo e l’esperta psicologa o l’esperto psicologo aveva l’aria di una conversazione di buon senso più che di informazione scientifica sul problema. Sulla banalità dei messaggi psicologici vi è una crescente letteratura. Essa riguarda appunto il fenomeno dello psychobabble (“babble”: ciancia, chiacchiera) o, termine diffuso recentemente in Italia da un noto comico televisivo, della “psicobanalisi”: espressioni e opinioni banali si mescolano a termini scientifici, un miscuglio che può essere condiviso da un famoso esperto tanto quanto da chi non abbia mai letto un libro di psicologia. Non è solo una semplice questione di livello di conoscenze o di grado di divulgazione/volgarizzazione della psicologia, ma della necessità di analizzare con metodologie rigorose il significato e il ruolo della psicologia del senso comune nella vita psicologica e sociale di tutti noi. Questo punto fu espresso chiaramente da Fritz Heider, uno dei più fini psicologi del secondo Novecento:
«Possiamo dire che esiste una “psicologia ingenua” che consiste nei processi inespressi che utilizziamo per rappresentarci l’ambiente sociale intorno a noi e che guidano le nostre reazioni nei suoi confronti. Una spiegazione di questo comportamento, pertanto, deve tenere in considerazione la psicologia ingenua indipendentemente dal fatto che i suoi postulati e i suoi principi si rivelino più o meno validi a un esame scientifico. Se una persona ritiene che le linee che solcano il palmo della mano dicono il suo futuro, questa credenza deve essere tenuta in considerazione nello spiegare certe sue azioni e aspettative».
Questo resta un campo ancora da esplorare, proprio nella prospettiva della fondazione di una psicologia svincolata dal potere delle concezioni “ingenue” della psiche, secondo la via teorico-metodologica che ha permesso alla fisica moderna di liberarsi dalla concezione “ingenua” del mondo fisico.
LE RISPOSTE DEI BAMBINI DI OGGI
Alcuni anni fa, nell’ambito di una serie di seminari e esercitazioni di psicologia per gli insegnanti della scuola primaria, chiesi di raccogliere le risposte dei loro bambini a domande come «Sai cosa è la memoria?», «Cos’è un sogno? Come si fa a sognare?», «Cosa vuol dire: mi sono emozionato?», «Cos’è un’idea?» ecc. Il risultato principale fu che dai 6-7 anni in poi tutti i bambini comprendevano questi termini e ne davano una spiegazione, o tautologica («L’attenzione è quando il maestro ti dice di stare attento alla lavagna») o ricorrendo a metafore che rispecchiano il contesto culturale dei nativi digitali rispetto ai bambini piagetiani di un secolo fa. Ecco un esempio di come una spiegazione tautologica si integra con una metafora. Gaia (G) ha 8 anni e l’insegnante (I) le domanda cos’è la memoria:
I – Gaia, fai fatica a ricordare le tabelline?
G – No, mi sembra di no; me le ricordo bene.
I – Con cosa ti ricordi le tabelline?
G – Con la mente.
I – Cos’è la mente?
G – Non lo so.
I – Ma secondo te come funziona la mente?
G – Mi è venuto in mente cos’è la mente: è una specie di computerino.
I – E come funziona questo computerino?
G – Penso una cosa e trovo la soluzione nel computerino.
Alla domanda su cos’è un’idea, Alessia di 8 anni dà una risposta che ci porta… alla concezione di Vygotskij sul rapporto tra ciò che è “pensato” e una parola: «Ci sono delle farfalle che si dicono: [la prima dice:] mi è venuta un’idea! [La seconda:] dai raccontami! Queste sono parole pensate».
Luciano Mecacci, ricercatore del CNR, poi docente di materie psicologiche nell’Università di Roma la Sapienza e da ultimo nell’Università di Firenze, si è occupato di psicofisiologia e storia della psicologia. I suoi libri sono stati tradotti in sette lingue.
Bibliografia
Heider F. (1958), Psicologia delle relazioni interpersonali (trad. it.), Il Mulino, Bologna, 1972.
Köhler W. (1940), Principi dinamici in psicologia e altri scritti (trad. it.), Giunti-Barbèra, Firenze, 1966.
Lilienfeld S. O., Lynn S. J., Ruscio J., Beyerstein B. L. (2011), I grandi miti della psicologia popolare. Contro i luoghi comuni (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano.
Mecacci L. (1999), Psicologia moderna e postmoderna, Laterza, Roma-Bari.
Mecacci L. (2008), Manuale di storia della psicologia, Giunti, Firenze.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 287 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui