La psicoterapia come tecnologia artistica
Una psicoterapia equilibrata è chiamata a contemperare il rigore di metodiche e protocolli con l’intuizione creativa che le permetta di aderire di più alla originalità del paziente.
"Il rigore da solo è la morte per asfissia, ma la pura creatività è follia", affermava Gregory Bateson. Eppure, nell’ambito della psicoterapia continuano a contrapporsi due fazioni opposte. La prima fazione è rappresentata da coloro che ritengono che ogni psicoterapia debba sempre essere un atto creativo, cucito su misura su ogni singolo individuo, come nel caso dei grandi terapeuti Milton Erickson, Virginia Satir e Carl Withaker; la seconda fazione è propria di quegli studiosi che ritengono invece indispensabile standardizzare e manualizzare in maniera precisa gli interventi terapeutici, come Albert Bandura, Aaron Beck e Richard Lazarus. (CONTINUA...)
La “folle” creatività
L’esasperazione della prima visione ha portato alla nascita di approcci totalmente basati sull’improvvisazione, come la terapia creativa di Bradford Keeney, secondo cui la seduta terapeutica dev’essere sempre «creata sul momento» dal terapeuta, grazie alle sue doti di «spontaneità, improvvisazione e imprevedibilità». Ma, facendo un passo indietro nella storia della psicologia, troviamo anche illustri vittime di un’esasperata creatività sconfinante in follia. Basti ricordare lo psicoanalista austriaco Wilhelm Reich, che sosteneva di aver scoperto un’energia cosmica primordiale, definita «energia orgonica» od «orgone», contenuta negli esseri viventi sotto forma di libido. Secondo Reich, alla base delle patologie psichiche vi è un accumulo di energia orgonica, per il suo mancato scaricamento attraverso l’orgasmo. Reich arrivò perfino a costruire degli appositi macchinari, chiamati «accumulatori orgonici», che sarebbero dovuti servire come presìdi terapeutici per la cura delle più svariate patologie psichiche e addirittura per il cancro. Fu arrestato per aver propagandato le sue teorie e morì in prigione nel 1957.
Il rigore asfittico
La seconda visione trova la sua massima espressione nella medicina evidence-based (basata sulle prove), ove la procedura di valutazione dell’efficacia dei vari trattamenti terapeutici si fonda su progetti di ricerca rigidamente strutturati secondo specifiche regole da laboratorio. In questi studi vengono confrontati due gruppi di soggetti; il primo, definito “gruppo sperimentale”, è realmente sottoposto a un intervento di tipo psicoterapeutico; il secondo, detto “gruppo di controllo”, non riceve invece alcun trattamento. I risultati sono quindi sottoposti a sofisticate operazioni statistiche che contribuiscono ad alimentare l’illusione che utilizzare misurazioni di tipo quantitativo sia di per sé garanzia di oggettività e scientificità.
In realtà, queste metodiche sono presentate e imposte come se fossero le migliori solo perché sono più controllate e rigorose all’apparenza; ma in realtà non tengono conto del fatto che il mondo asettico del laboratorio non riproduce affatto quanto avviene nella vita reale. E infatti, se osservata con gli occhi scettici del ricercatore piuttosto che con quelli del fedele al metodo, tale modalità di valutazione dei risultati mostra un’intera serie di distorsioni metodologiche (bias) che impediscono di generalizzare al di fuori di essa i risultati rinvenuti in laboratorio. Fra tutte, basti ricordare l’impossibilità in psicoterapia di avere un vero e proprio “gruppo di controllo”, dal momento che è ormai noto il fenomeno del cosiddetto effetto aspettativa, per il quale perfino i pazienti in lista di attesa spesso migliorano la propria condizione già solo in virtù della fiducia riposta nella “terra promessa” del trattamento che riceveranno.
Nonostante la posizione rigorista stia ricevendo sempre più critiche da parte di illustri studiosi, negli ultimi anni anche il trattamento dei disturbi psicologici si è orientato verso una sempre maggiore standardizzazione e rigidità degli interventi. Negli Stati Uniti, l’esasperazione di questa visione ha portato all’approntamento di protocolli terapeutici estremamente rigidi e normalizzati, che, per paradosso, sta determinando la scomparsa della psicoterapia. I pazienti infatti, insoddisfatti della fredda applicazione di rigidi protocolli poco calzanti alla propria condizione personale, ricercano sempre più interventi di aiuto alternativi, come quelli di life coaching o di consulenza filosofica, che li fanno sentire maggiormente ascoltati e considerati come esseri umani.
Arte e scienza della psicoterapia
Il dualismo che contrappone la creatività a tutti i costi al rigore quantitativo può però essere superato se si passa dalle disquisizioni puramente teoriche all’analisi della concreta pratica clinica dei terapeuti afferenti alle due posizioni. Difatti, anche i fautori del primo approccio – Erickson, Satir e Withaker – di fronte a persone che presentavano la stessa patologia tendevano a replicare le stesse strategie, pur adattandole alle peculiarità personali e contestuali. Allo stesso modo, Beck, Bandura e Lazarus, nell’applicare rigorosamente i loro protocolli, cercavano sempre di calzarli alla singolarità del caso. Ciò non dovrebbe stupire, se consideriamo che in natura, come nelle dinamiche umane personali, relazionali e sistemiche, si osservano cambiamenti che si ripetono nello stesso modo, al pari di quelli che assumono forme e modi originali e irripetibili. Parafrasando un suggestivo aforisma, per quanto la sofferenza possa essere la stessa, ognuno la interpreta a suo modo.
Il terapeuta che voglia essere realmente efficace ed efficiente dovrà quindi saper coniugare la conoscenza e padronanza di tecniche specifiche di trattamento, già applicate con successo a situazioni analoghe, con il guizzo creativo che gli permetta di andare oltre i limiti della tecnica predefinita, inventando ex novo o adattando l’intervento sulla base delle caratteristiche uniche e irripetibili del singolo paziente. L’intervento terapeutico diviene così una sorta di “tecnologia artistica”, in linea con l’antico costrutto greco di téchne. Per i greci, infatti, la téchne si riferiva a un “saper fare” che superava il pregiudizio della tecnica quale dominio della ragione e del rigore, contrapposto all’arte, dominio dell’irrazionale e dell’incontrollato, per esprimere piuttosto in uno stesso termine entrambi i concetti. «Cerca, cercatore, il tuo destino è cercare», diceva il filosofo Ortega y Gasset, rappresentando in maniera notevole quanto contraddistingue tutti i grandi innovatori in grado di lasciare un segno importante nella storia.
La spinta a cercare, a sperimentare e sperimentarsi, è ciò che ha permesso ai grandi artisti e scienziati di esulare dai limiti propri e delle conoscenze prestabilite, coniugando mirabilmente arte e scienza, intuizione creativa e rigore metodologico. Anche le scoperte che sembrano essere state il frutto di un improvviso atto di creatività, come la legge di gravitazione universale formulata da Newton dopo che la famosa mela gli era caduta sulla testa, in realtà sono state rese possibili da tutto lo studio e la ricerca precedenti, visto che, per dirla con Fleming, «Il caso aiuto solo le menti preparate». In qualunque ambito scientifico, quindi, non può esserci innovazione senza tradizione, non possono darsi scienza senza arte né arte senza tecnica e rigore.
Le invenzioni terapeutiche nella terapia breve strategica
La sintesi tra rigore e creatività in psicoterapia è rinvenibile dal lavoro di ricerca-intervento condotto presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo negli ultimi trent’anni, che ha portato all’istituzione di protocolli di trattamento specifici per specifiche patologie. Sebbene siano strutturati in una sequenza rigorosa di tecniche, questi non sono rigidamente normalizzati (a differenza di quelli comportamentali), ma richiedono sempre un adattamento alle particolarità dei soggetti e dei lori contesti, soprattutto in termini di linguaggio e di tipologia di relazione. All’interno di classi di problemi clinici, infatti, vi sono varianti note ma anche possibilità di espressione della sintomatologia totalmente singolari, così come ogni quadro clinico di solito ha modalità tipiche di relazionarsi e di comunicare del soggetto, fermo restando che possono esserci sorprendenti eccezioni.
L’esempio forse più eclatante in cui la sintesi delle due istanze “intuizionista” e “rigorista” si rivela proficua è rappresentato dal trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), vera e propria bestia nera della psicopatologia per la sua formidabile resistenza, il quale presenta un’estrema variabilità delle manifestazioni sintomatologiche. Fra quelle più comuni e ridonanti troviamo le compulsioni di controllo, come per esempio il fatto di dover ricontrollare ripetutamente di aver chiuso la porta di casa o il gas prima di uscire, rileggere tante volte un’e-mail di lavoro prima di inviarla, o tornare indietro per strada a controllare di non aver investito nessuno con l’auto. Una delle invenzioni terapeutiche rivelatesi particolarmente efficaci per intervenire su questi casi è quella del “controrituale terapeutico”. Alla persona si chiede di rispettare l’indicazione per la quale, ogniqualvolta si ritroverà a eseguire uno dei suoi rituali, dovrà ripeterlo 5 volte, né una volta di più né una volta di meno. Certo, potrà non farlo; ma se deciderà di farlo una volta, sarà poi tenuto a ripeterlo altre 4 volte.
Questa prescrizione, comunicata con un linguaggio fortemente suggestivo e ridondante, permette al terapeuta di impossessarsi del sintomo del paziente, il quale avrà ora solo due alternative: o ripetere il rituale 5 volte, e quindi agire la reiterazione in base a quanto prescritto dal terapeuta, e non come la sua ossessione imporrebbe, oppure decidere di non ripeterlo per niente, scoprendo così di riuscire a resistere alla forza della compulsione, una cosa, prima, nemmeno immaginabile. Le ripetizioni vengono progressivamente aumentate, fino alla totale risoluzione del disturbo. In tal modo il terapeuta fa letteralmente «salire il nemico in soffitta per poi togliere la scala», come recita un antico stratagemma cinese. Usualmente, nell’arco di pochi mesi, persone che spesso si affannano per anni praticando percorsi terapeutici inefficaci giungono alla completa remissione della loro invalidante patologia grazie a questo tipo di indicazione.
Tale disturbo presenta peraltro anche manifestazioni estremamente originali: persone che devono effettuare lunghissimi e sofisticati rituali di pulizia su sé stesse e sulla propria casa; altre, costrette a eseguire sequenze di azioni ritualizzate sovente estremamente bizzarre, nel tentativo di propiziare magicamente il futuro, o che devono ripetersi mentalmente lunghe formule per proteggersi da una sorta di “contagio” che arriverebbe tramite il pensare a persone o situazioni percepite come negative. E la lista potrebbe proseguire, visto che esistono tante paure (e quindi rituali per tentare di gestirle) quante se ne possono inventare. In situazioni come queste, al terapeuta è spesso richiesto di creare prescrizioni o controrituali ad hoc che, pur muovendosi all’interno della stessa logica dell’intervento (far salire il nemico in soffitta e togliergli la scala), spesso richiedono formulazioni originali e dunque una notevole creatività.
Se ci spostiamo dalla formulazione della prescrizione strategica alle modalità comunicative e relazionali, poi, l’importanza della capacità del terapeuta di adattarsi alle caratteristiche individuali della persona è ancora più evidente. A parità di disturbo, infatti, il modo in cui il terapeuta comunicherà con il paziente varierà moltissimo in base al fatto che questi appaia collaborativo piuttosto che decisamente oppositivo, che si tratti di una persona molto rigida e controllante piuttosto che orientata alla divagazione, che sia una persona intellettualmente sofisticata e colta piuttosto che semplice. Allo stesso modo, le formule evocative del linguaggio scelte dovranno sempre calzare alle caratteristiche della persona: poco senso avrebbe sottoporre una madre di famiglia a lunghe e articolate metafore calcistiche, così come il giovane appassionato di sport ad analogie tratte dal mondo della crescita dei figli.
Sulla stessa scia, il terapeuta dovrà scegliere di volta in volta se assumere una posizione relazionale di tipo “one-up” (superiore) oppure “one-down” (inferiore), a seconda del tipo di paziente che ha davanti; dovrà decidere se stabilire una relazione emotivamente molto calda, come spesso è necessario fare, per esempio, con le giovani che soffrono di disordini alimentari, piuttosto che una più fredda e tecnica, che faccia sentire al paziente ossessivo di essere di fronte a un professionista capace, in grado di avere quel controllo che quegli sente, o teme, di aver perduto. Gli esempi potrebbero andare avanti all’infinito, visto che infinite sono le caratteristiche che differenziano ogni essere umano dall’altro.
Riassumendo quanto detto fin qui, un intervento di cambiamento che voglia essere efficace dovrà sempre tenere presenti la tecnica più idonea alla tipologia del problema da risolvere, le modalità di comunicazione più adatte per influenzare la persona che resiste al suo cambiamento e le posizioni relazionali da assumere di volta in volta, per creare e rimanere in contatto emotivo con chi chiede aiuto e deve sentire di essere compreso. Tutto ciò crea un contesto ove lo stesso agire cambia sempre, poiché adattato alle originali prerogative che caratterizzano le differenze individuali. Parallelamente, anche gli espedienti più creativi e le forme di comunicazione più evocative devono esser parte di un processo rigoroso e sistematico orientato al raggiungimento dello scopo che ci si è prefissi.
«Tutto cambia, ma rimane lo stesso», come indicano sia l’antica saggezza orientale esposta nel Libro dei Mutamenti di Lao Tse sia la filosofia greca di Eraclito, il quale con il suo concetto di enantiodromia esprimeva come, nell’evolversi costante, tutto ciò che esiste passi nel suo opposto, alternando il nuovo e il vecchio. Per essere realizzato in maniera efficace ed efficiente, replicabile e predittiva, il cambiamento terapeutico richiede grandi rigore e precisione, ma al tempo stesso flessibilità e inventiva. Illuminanti al proposito le parole del grande teorico della medicina Francis W. Peabody: «La cura della malattia può essere un fatto del tutto impersonale. La cura del paziente dev’essere un fatto del tutto personale».
Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.
Roberta Milanese, autrice di numerose pubblicazioni, è docente nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica di Arezzo e Firenze, e in master di specializzazione in Italia e all’estero.
Riferimenti bibliografici
Nardone G., Balbi E. (2008), Solcare il mare all’insaputa del cielo, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Bartoli S. (2019), Oltre sé stessi, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Milanese R. (2018), Il cambiamento strategico, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Watzlawick P. (a cura di, 1997), Terapia breve strategica, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 274 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui