Le parole che curano: il potere delle aspettative
Come attestano numerosi studi, una comunicazione empatica e ottimista nei confronti del paziente amplifica gli effetti della terapia che egli segue.
In un ospedale era ricoverato un paziente gravemente malato di cui i medici non riuscivano a capire la patologia. Fu chiamato a consulto un medico famoso; questi visitò il paziente e guardandolo dritto negli occhi sentenziò: «Moribundus». Poi parlò in privato con i medici dell’ospedale, dicendo loro che non c’era più niente da fare. Alcuni anni più tardi, il paziente, sopravvissuto, contattò il medico affermando: «Sono qui per ringraziarla, poiché i medici mi avevano detto che solo se qualcuno fosse riuscito a capire quale fosse la mia malattia, avrebbe potuto curarmi. Nel momento in cui lei ha espresso la sua diagnosi, ho capito che potevo guarire. E così è avvenuto». Non conoscendo il significato della parola latina “moribundus”, il paziente aveva erroneamente pensato che fosse il nome della sua malattia e che quindi sarebbe stato finalmente curato.
Questo episodio, riportato dallo psicologo Gordon Allport, introduce mirabilmente al potere curativo della parola relativamente non solo ai disturbi psichici, ma anche a quelli fisici. È ormai ampiamente dimostrato, infatti, che la comunicazione tra medico e paziente è in grado di influenzare il decorso di una grande quantità di disturbi, in linea con quanto sostenuto da Ippocrate, padre della medicina, per il quale «il tocco, il rimedio e la parola» sono gli strumenti fondamentali del processo di cura.
L’EFFETTO PLACEBO
Storicamente, per “effetto placebo” si intende il miglioramento che si verifica in alcuni pazienti che ritengono di stare assumendo un farmaco, ma in realtà ricevono una sostanza inerte (per esempio, una pillola di zucchero). Questo affascinante meccanismo per molto tempo è stato considerato “scomodo” dal mondo medico, poiché offuscava la reale efficacia dei farmaci sottoposti a ricerca clinica. Negli ultimi anni, però, è diventato oggetto di studio da parte di molti ricercatori che hanno iniziato a considerarlo un utile strumento di cura e a individuarne i meccanismi neurofisiologici. L’effetto placebo dimostra come l’aspettativa positiva di un miglioramento possa essere già sufficiente di per sé a indurre il miglioramento stesso, a livello non solo di sintomi percepiti (come l’ansia e il dolore), ma anche di parametri misurabili oggettivamente, come le secrezioni ormonali e le difese immunitarie. Perché questo effetto si produca, inoltre, non è necessario che il paziente assuma una sostanza o venga sottoposto a un trattamento medico, ma è sufficiente una comunicazione efficace da parte del curante.
Un interessante studio condotto presso il Massachusetts General Hospital ha studiato il decorso post-operatorio di 2 gruppi di pazienti. La sera prima dell’intervento, tutti i pazienti ricevevano una visita dell’anestesista. Il primo gruppo riceveva solo una comunicazione superficiale, del tipo «Sono il dottor Rossi, domani le somministrerò un’anestesia, non si preoccupi, andrà tutto bene». Il secondo gruppo riceveva invece una comunicazione molto empatica: l’anestesista si fermava per circa cinque minuti, si sedeva sul letto del paziente, gli teneva la mano e gli diceva esattamente cosa avrebbe dovuto aspettarsi in termini di dolore post-operatorio, incoraggiandolo a superarlo. I pazienti del secondo gruppo chiesero la metà degli antidolorifici rispetto a quelli del primo e furono dimessi dall’ospedale due giorni e mezzo prima.
Cinque soli minuti di relazione attenta e di comunicazione empatica da parte del medico erano stati sufficienti a produrre risultati tangibili sulla salute dei pazienti.
IL LINGUAGGIO DELLA SPERANZA
Come evidenziato da uno dei principali studiosi di questo ambito, il neurofisiologo Fabrizio Benedetti, le parole innescano gli stessi meccanismi attivati dai farmaci, o – sarebbe più corretto dire – sono i farmaci ad attivare gli stessi meccanismi delle parole, visto che queste sono nate prima. Ma quali sono le parole che possono “guarire”? Come ben espresso dal poeta e critico Samuel T. Coleridge, «Il miglior medico è quello che sa infondere speranza». E infatti numerosi studi hanno mostrato che le terapie somministrate da medici che usano parole rassicuranti e adottano un comportamento empatico sono più efficaci rispetto a quelle somministrate da medici distaccati, formali e poco propensi al contatto umano, poiché trasmettono maggiore fiducia e aspettative positive sui benefici del trattamento.
Fondamentale è la comunicazione non verbale, veicolo principale per stabilire una relazione calda ed empatica: uno sguardo accogliente, un tocco della mano, un tono di voce che comunichi vicinanza sono elementi essenziali per creare quel clima di fiducia indispensabile a incrementare le aspettative positive del paziente. Allo stesso modo, è importante che questi possa esprimere il proprio punto di vista e le proprie emozioni, che devono essere accolti, compresi e mai squalificati. È importante anche che il medico, ma in generale chiunque si occupi della salute del paziente, sappia utilizzare suggestioni positive ed evitare quelle negative, trasmettendo fiducia nel tipo di trattamento che sta proponendo. La frase «Vedrà che con questo farmaco starà meglio» sarà quindi preferibile alla purtroppo sempre attuale «Provi a prendere questo farmaco e mi richiami se non funziona», magari pronunciata con un tono di voce perplesso.
È ormai chiaro che la medicina “scientifica” di oggi deve associare ai suoi meravigliosi avanzamenti “tecnologici” la riscoperta di un’antica “arte”. Come recita il Carata Smutha, testo di medicina ayurvedica indiana del 1500 a.C., «Le tue parole siano dolci, piacevoli, virtuose, sincere, utili, moderate, atte a creare nel malato uno stato di fiducia».
Roberta Milanese, autrice di numerose pubblicazioni, è docente nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica di Arezzo e Firenze e in master di specializzazione in Italia e all’estero.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Benedetti F. (2018), La speranza è un farmaco, Mondadori, Milano.
Milanese R., Milanese S. (2015), Il tocco, il rimedio, la parola. La comunicazione medico-paziente come strumento terapeutico, Ponte alle Grazie, Milano.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui