Le paure degli adolescenti
Gli adolescenti di oggi non hanno solo una complessiva paura di cambiare, ma anche quella di non essere all’altezza - specie agli occhi dei genitori e dei coetanei - dei modelli di perfezione propagandati dalla società.
Esistono paure ataviche, ancestrali, che accompagnano gli esseri umani da sempre, come la paura dell’ignoto e della morte, del non conosciuto, del non pensato, dell’invasione nemica, della guerra, dell’epidemia, dei disastri naturali. L’attacco alla sopravvivenza genera inesorabilmente paure e ansie anticipatorie adattive, che hanno la funzione di tutelare dal rischio estremo per la specie.
Al di là di queste paure, all’essere umano appartengono fobie collocate a un livello meno recondito della mente, più di carattere affettivo, e che sembrano risentire maggiormente della fase evolutiva specifica in cui vengono esperite, sono cioè più ricorrenti in alcune età della vita rispetto ad altre.
I MOSTRI DELL’INFANZIA
I bambini, per esempio, spesso hanno paura del buio, dei mostri che si nascondono nei corridoi e nelle stanze di casa quando cala il sole e i contorni conosciuti e familiari non appaiono più così rassicuranti come poche ore prima. Cosa si nasconde tra le ombre, tra gli scricchiolii dei mobili e i sussurri impercettibili che provengono dalle pareti domestiche?
La psicoanalisi dell’età evolutiva ci insegna che a fare da regia alle paure infantili fisiologiche vi è la tematica psichica della separazione che accompagna inevitabilmente la crescita. Diventare grandi comporta il crollo delle certezze precedenti e la riformulazione di nuovi equilibri, sintonici con le nuove esigenze evolutive.
Nel corso dell’infanzia diventa sempre più evidente che si dovrà fare a meno dei genitori, che esiste la condizione della solitudine, non sempre vissuta come spinta all’esplorazione e alla creatività, ma specialmente oggi, rappresentata spesso come sinonimo di isolamento, e quindi con un’accezione negativa. I nuovi modelli educativi mal sopportano la dimensione dello stare soli, percepito sostanzialmente come mancanza: di relazioni, di socializzazione, di scambio con l’altro; insomma, come mancanza di benessere.
La socializzazione fin dalla più tenera età è vista come un valore assoluto e imprescindibile per la crescita, in risposta innanzitutto alle altrettanto precoci separazioni messe in atto dai genitori, costretti a rientrare al lavoro a pochi mesi dalla nascita del figlio. In adolescenza la relazione con l’altro, i processi di socializzazione e la costruzione del senso di appartenenza al gruppo dei pari diventano fisiologicamente al centro delle questioni evolutive che si devono affrontare.
Si può sostenere che il cammino di crescita è in ogni tappa animato da tensione verso il futuro, ma altresì concentrato su un presente carico di compiti che devono essere affrontati con la massima urgenza. Per l’adolescente risulta fondamentale integrare la nuova dotazione corporea nell’immagine di sé, separarsi e individuarsi dai genitori, nascere socialmente, costruire un sistema di valori e di ideali di riferimento nuovi e personali.
Aumentano la curiosità e l’entusiasmo verso tutto ciò che è conoscenza ed esperienza, ma allo stesso tempo ci si volta all’indietro e si sperimentano quote più o meno intense di nostalgia per le antiche sicurezze.
Questo processo si riedita ad ogni snodo evolutivo, per sua natura caratterizzato da spinte fisiologiche che animano il bisogno di affrontare il cambiamento, i nuovi compiti evolutivi. Ad esso si accompagnano però paure, angosce e reticenze che talvolta possono essere così incombenti da bloccare il percorso di crescita.
Tali paure, tuttavia, non hanno solo la funzione di ostacolare il lineare sviluppo identitario, ma svolgono anche la funzione di favorire l’espressione di bisogni e conflitti ineludibili, che necessitano di essere riconosciuti e integrati per favorire la crescita. Se il timore e l’incertezza non vengono legittimati ed elaborati psichicamente, si perde qualcosa, si rischia di procedere con spavalderia e apparente sicurezza, mentre nei bassifondi della mente questi vissuti assumono forme e contorni sempre più oscuri.
Le paure sono dunque indicatori preziosissimi delle tensioni e delle ambivalenze che albergano in ognuno di noi, risentono della nostra storia personale e della nostra organizzazione intrapsichica, ma sono influenzate e suggerite anche dal contesto socioculturale in cui viviamo. Ciò che accade intorno a noi, non solo nel limitrofo ambiente familiare, ma a un livello sociale più ampio, ha un’influenza sostanziale nell’orientare paure e ostacoli, nel determinare valori di riferimento con cui confrontarsi nella crescita e modelli di identificazione.
DOLORI NARCISISTICI
Le discipline psicologiche, sociologiche e antropologiche sono in accordo nell’osservare come il conflitto pulsionale, tipico della società del passato, abbia lasciato il posto alla sofferenza narcisistica. Gli adolescenti odierni non hanno solo una generica paura di cambiare, che fa da contraltare alla prepotente spinta alla trasformazione, prima di tutto corporea e più complessivamente identitaria.
L’epoca storica in cui vivono pone di fronte al loro orizzonte di valori modelli irraggiungibili di perfezione, per i quali la performance conta più di tutto e a qualsiasi costo. La società dell’immagine mette al centro il valore della bellezza e dell’apparenza che eterna la giovinezza come età dell’oro a cui tutti ambiscono: i bambini come gli adulti.
Oggi si assiste alla precocizzazione in infanzia di condotte un tempo prerogative dell’adolescenza, nell’abbigliamento, nel modo di gestire le relazioni e gli spazi di autonomia e di decisione. Al contempo, per gli adulti si parla spesso di sindrome di Peter Pan per definire la tensione verso la giovinezza come antidoto all’invecchiamento, al tempo che avanza e lascia poco spazio alla speranza, alla bellezza e al divertimento.
La paura oggi prevalente nella mente dei ragazzi, ma non solo, riguarda quindi il non essere all’altezza delle aspettative proprie e altrui, il non essere popolari, bensì brutti e senza un posto riservato nella mente degli altri, in particolare in quella dei coetanei. La fragilità narcisistica genera il timore di restare soli, di non essere apprezzati né pensati, di non avere amici, mentre bisogna averne tanti, come bisogna sentirsi apprezzati e ricercati in ogni ambiente, dalla scuola allo sport, per non parlare di Internet. Viviamo, infatti, in un contesto sociale dove la partecipazione alla dimensione virtuale sembra diventata imprescindibile.
Nati e cresciuti in un clima familiare lontano dal conflitto e improntato all’amore e al sostegno dei talenti e della realizzazione di sé, gli adolescenti odierni faticano a tollerare la frustrazione dei propri desideri, del non sentirsi riconosciuti e apprezzati; soffrono enormemente quando si frappongono ostacoli di fronte a loro.
Il fallimento e l’errore non sono contemplati come eventualità che si possono incontrare lungo il cammino esistenziale, se non confrontandosi con quote di dolore molto intenso. Deludere le aspettative dei genitori prendendo un brutto voto a scuola non fa paura per il castigo che potrebbe sopraggiungere. Non è nemmeno la rabbia che potrà scatenarsi in famiglia, il timore più grande che dimora nella mente dei ragazzi.
L’angoscia centrale è invece farli soffrire, recare loro un dolore intenso e pervasivo. Andare male a scuola, nella vita, nello svolgimento dei compiti evolutivi, fa soffrire gli adolescenti soprattutto per la possibilità di arrecare un dolore intenso ai genitori. Madri e padri vengono feriti dalla cattiva riuscita nella performance dei figli. I brutti voti e gli insuccessi spesso fanno crollare il castello di carte delle aspettative di buona riuscita e benessere ipotecate sulla vita dei figli, più ancora di quanto questi ultimi sarebbero colpiti dai propri fallimenti personali.
Si tratta di una vicenda ad alta intensità affettiva, di un dramma sentimentale potentissimo che sovente si svolge proprio nel corso dell’adolescenza contemporanea e che vede genitori e figli inseguirsi e farsi carico delle angosce reciproche in modo sovradeterminato e anche piuttosto confusivo. Si mischiano aspettative, desideri, ma soprattutto si sovrappongono gli investimenti, a volte tanto da far perdere ai ragazzi il filo interno della propria personale motivazione a far bene nella vita e da portare i genitori a sostituirsi ai figli come protagonisti della loro esistenza.
La paura di ferire si accompagna al timore di apparire come dei traditori nei confronti dell’antico patto familiare stabilito nell’infanzia, che prevedeva l’assenza di conflitto e l’impegno di ogni risorsa disponibile per la conquista della felicità. “Sii felice”, “sii te stesso”, “trova la tua vera vocazione, il tuo vero Sé” e “da’ libero sfogo alla tua creatività” sono le principali voci del testamento genitoriale contemporaneo. Ma se queste condizioni e questi scenari non sono presenti nella vita dei figli? Se, per qualche motivo, tali possibilità appaiono opache, difficili da raggiungere per adolescenti in impasse nel loro cammino di crescita? È possibile essere tristi, avere dei problemi, soffrire, anche se sono stati forniti tutti gli strumenti e le risorse per scongiurare questi rischi?
IL DEMONE DELLA DELUSIONE
Si può sbagliare, si può avere paura, senza avere la sensazione di deludere, ferire, attaccare, denegare l’ottimo lavoro svolto dai genitori? Si può tutto ciò senza rischiare di far sentire inadeguati o in colpa i genitori, mettendo a fuoco che tali problemi riguardano principalmente l’incontro fra l’adolescente e la realtà, il mondo circostante? Questo è il grande dilemma che affanna le menti dei ragazzi che affrontano un momento più o meno intenso di difficoltà evolutiva e che impegna molto del nostro lavoro clinico con i genitori.
Riuscire a portare alla luce tale questione e affrontarla è fondamentale nel lavoro di presa in carico dell’adolescente, così come in quello di sostegno al ruolo genitoriale. Donare posto, dignità ad esistere e significato alle sofferenze adolescenziali che insorgono inevitabilmente dopo il periodo aulico dell’infanzia è difficile ma fondamentale, poiché infonde la speranza che dalle cadute ci si possa rialzare.
Talvolta gli adolescenti, in risposta alle proprie tribolazioni evolutive, possono sviluppare forme più o meno severe di fobie per il cibo, per il corpo, per il sesso, per lo sguardo degli altri – siano essi coetanei o adulti –, per la valutazione scolastica, per la verifica o l’interrogazione, per la sconfitta, per la prestazione sportiva.
Il senso d’inadeguatezza può dar vita a paure circoscrivibili a una o più delle aree sopracitate, dando origine a disturbi e disagi evolutivi di portata anche molto severa.
Nei disturbi della condotta alimentare, per esempio, il cibo diventa l’oggetto fobico con cui gli adolescenti sia maschi che femmine si confrontano ogni giorno, riempiendosi la testa di pietanze che vengono calcolate, misurate, pesate e sminuzzate per poi essere assunte in quantità tali da garantire un fisico scheletrico, prepubere e lontano dalle vicende pulsionali e relazionali che riguardano l’adolescenza nell’incontro con l’altro e nell’incontro fra corpi.
Sentirsi brutti e delimitati da un “contenitore” che non risulta rappresentativo della bellezza del vero Sé, che non corrisponde alle aspettative proprie né a quelle suggerite dai media, non è una condizione che sta alla base solo della decisione di restringere l’alimentazione fino quasi a morire di fame. Questa precondizione psichica può fare da regia anche ad altre scelte, come per esempio quella di non varcare più la soglia dell’edificio scolastico e di restare chiusi nella propria stanza.
Lo sguardo dell’altro – reale o virtuale che sia, non fa più molta differenza ormai – ha un potere micidiale nella mente dei ragazzi. Incrociare lo sguardo di disappunto, se non di riprovazione, da un coetaneo, o un commento non lusinghiero a una foto postata su Instagram, può avere una risonanza pervasiva e violentissima nella costruzione dell’immagine di sé di un adolescente.
Quello sguardo, quella sensazione di essere “guardati male” dagli altri possono risultare talmente intollerabili da far sì che si sviluppi una vera e propria fobia per gli altri. Il giudizio dei coetanei può avere effetti persino mortali, capaci di infondere un terribile, profondo e pervasivo senso di inadeguatezza e inutilità che può condurre anche a propositi e pensieri appunto di morte.
Proprio per proteggersi da tale possibilità, il ritiro dalle scene sociali può sembrare una buona soluzione, o quantomeno una scelta evitante proporzionata all’entità del dramma e del disagio che potrebbe provocare l’esposizione all’oggetto fobico. Dunque, una scelta per la sopravvivenza, che all’apparenza si pone come scelta di spegnimento, di resa, di abbandono. Il ritiro sociale è l’espressione di disagio più intensa e allo stesso tempo più esemplificativa della condizione in cui versano gli adolescenti contemporanei.
Spesso «sdraiati» (per citare Michele Serra), apatici, senza iniziative, e per questo facilmente definiti “fannulloni”, ma di fatto paralizzati dal confronto con le proprie aspettative e con quelle di un contesto familiare e sociale che non dà tregua, né molto spazio all’incertezza o all’insuccesso, magari anche solo momentaneo.
I ragazzi e le ragazze spesso fanno paura agli adulti, così come la Rete e gli strumenti tecnologici a cui sono sempre connessi per non sentirsi soli, perché incarnano il volto del fallimento educativo, sociale e culturale di cui i veri responsabili e autori sono gli adulti stessi e non certo gli adolescenti.
L’assenza di futuro, la mancanza di prospettive di lavoro, la scellerata erosione delle risorse del nostro pianeta, la caduta della comunità educante, la sottocultura massmediatica che promuove esibizioni di ogni genere e tipo a favore dell’audience, la società individualista, competitiva e del narcisismo non sono infatti un prodotto generato e confezionato dalle nuove generazioni.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 266 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui