Giorgio Nardone, Luca Mazzucchelli

Luca Mazzucchelli intervista Giorgio Nardone

Una bella conversazione con un autore che da anni collabora con la nostra rivista e che in questa occasione si esprime su relazioni i cui nodi possono andare dalla incompatibilità delle reciproche differenze sino a forme di prevaricazione-sottomissione, come nel caso del bullismo.

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 Questo numero di Psicologia contemporanea verte sul tema delle Relazioni tossiche: secondo te, qual è il ruolo della diversità nell’inquinare un rapporto? Si può dire che due persone troppo diverse siano più propense ad avere una relazione disfunzionale? 

Nel mio libro sulla solitudine cito la prospettiva di John T. Cacioppo, proveniente dalla psicologia sociale, il quale sostiene la tesi secondo cui tu stai insieme agli altri, ne vieni influenzato e quindi hai un principio di imitazione sociale. Ma si dimentica qualcosa che qualcuno ha detto prima degli psicologi: già Wolfgang Goethe, parlando di “affinità elettive”, spiegava che le persone si associano per affinità, non per somiglianza. Stiamo insieme alle persone per complementarietà e non perché siamo simili.

Chi ha una posizione psicosociale un po’ troppo impostata sul cognitivo-comportamentale tende a vedere solo i principi di imitazione, una sorta di “riflessologia” per cui io sto con te e mi modello a te. Mentre l’idea più avanzata, proposta già da Paul Watzlawick e da Bateson, è che le persone si associano perché si incastrano: la persona fragile si incastra con quella forte, la persona che parla molto ha bisogno di chi l’ascolta, chi ascolta ama chi parla. Lo ripeto: ci si sceglie non perché ci si somiglia, ma perché si è complementari. Le relazioni complementari sono le più durature, anche se questo non vuol dire che siano buone, perché la relazione tra vittima e aguzzino, per esempio, si basa proprio su questo principio.

Le relazioni si stabiliscono perché le persone trovano degli incastri relazionali. Le coppie che sopravvivono a lungo, e che magari continuano ad amarsi, sono fatte di persone che hanno tra loro una complementarietà quasi perfetta: quando uno sente il vuoto, l’altro lo riempie. Essere complementari non vuol dire essere opposti, perché gli opposti si mantengono in simmetria, altro concetto fondamentale della teoria della pragmatica della comunicazione di Watzlawick.

Luca Mazzucchelli intervista Giorgio Nardone

La simmetria vede due linee parallele che vanno avanti senza mai intersecarsi, la complementarietà invece è fatta di linee che si intersecano. Gli opposti hanno spesso delle relazioni molto forti, ma sempre a distanza. Paul Watzlawick sosteneva che una relazione funzionale deve avere una buona dose di entrambe le cose: non deve avere solo complementarietà, non deve avere solo simmetria, sennò diventa tossica. La relazione solo simmetrica è conflittuale, quella solo complementare diventa morbosa. Quindi, per avere equilibrio in una relazione ci vogliono uno spazio di simmetria e uno di complementarietà. Le due cose oscillano, come nell’antica visione cinese per cui l’equilibrio è un’oscillazione tra gli opposti, non l’essere fermi in una cosa.

 Quindi, gli elementi che oggi intossicano le relazioni sono questi disequilibri tra simmetria e complementarietà? 

Sì, sono convinto di ciò. C’è rigidità invece che flessibilità nell’alternanza di queste dinamiche relazionali, di come ci si posiziona a livello relazionale e quindi emozionale, sentimentale e comportamentale.

 Possiamo dire che in alcuni contesti relazionali, per esempio in famiglia, è più frequente vedere la rigidità di tali dinamiche? Perché le relazioni famigliari sembrano più complesse da risanare? 

Semplicemente perché sono quelle più influenzate dalle dinamiche affettive ed emotive. Quando qualcuno dice che la famiglia è il posto più sicuro al mondo si sbaglia: la famiglia è il posto più pericoloso al mondo! La stragrande maggioranza degli omicidi avviene dentro le famiglie, così come il 90% degli atti di violenza sessuale. La famiglia è un crogiolo di emozioni, dove viene fuori il meglio ma anche il peggio, proprio per questa dinamica. Quindi è evidente che in seno alla famiglia si hanno le dinamiche relazionali più complesse: al confronto, la gestione di una folla è un gioco da ragazzi. E poi, soprattutto, al suo interno vi sono i conflitti nascosti, le rivalità, le invidie peggiori. Non dimentichiamoci che non c’è religione monoteista che non parli dell’omicidio del fratello. L’inizio della religione cristiana, con Caino e Abele, è la metafora proprio di questo.

 Un altro contesto nel quale questa tossicità emerge e raggiunge un estremo pericoloso è il bullismo. C’è sempre la stessa rigidità o credi che ci sia qualcosa di diverso? 

Il termine “bullismo” è stato coniato con grande successo da Ada Fonzi, tanto da essere stato tradotto dall’italiano all’inglese. In questo fenomeno si osserva che l’evoluzione della nostra cultura verso modelli sociali e famigliari sempre più protettivi nei confronti dei giovani ha contribuito a una via via maggiore fragilità relazionale. Il bullo che perseguita e sottomette la persona fragile è sempre esistito: nella mia infanzia ricordo episodi terribili, e il famoso libro La guerra dei bottoni è stato scritto quando io non ero ancora nato! Nella situazione attuale il bullismo ha trovato un incremento esponenziale perché i ragazzi sono sempre più fragili, troppo protetti dalle loro famiglie, è loro permesso di essere perdonati per qualunque cosa facciano. Permissività e iperprotezione sono due veleni nella costruzione dell’equilibrio di un giovane, soprattutto per quel che riguarda le relazioni.

Se una società perdona tranquillamente un ragazzo che insieme a un gruppo ha violentato una ragazzina, o il genitore lo protegge, capisci che siamo arrivati a un livello di protezione e permissivismo patologico davvero tossico. La misura dei limiti, la misura del rispetto altrui si sono quasi dileguate. In più, abbiamo un altro fenomeno di cui non si ama parlare perché può sembrare poco politicamente corretto, ed è quello dell’immigrazione di famiglie provenienti da culture molto diverse dalla nostra nelle quali non ci sono né iperprotezione né permissivismo. Ciò fa sì che i giovani di queste culture siano molto più duri e più aggressivi dei nostri, che finiscono per soccombere.

A Milano ci sono gang di sudamericani che hanno messo a ferro e fuoco le piazze e che ricattano i ragazzini, li costringono a dare i soldi, il telefono, qualunque cosa: questo fenomeno sociale non può essere nascosto, è più che bullismo. L’incontro fra culture diverse crea nei giovani della nostra cultura opulenta, benestante e protetta una grande difficoltà nel gestire chi proviene da realtà nelle quali la conquista del ruolo passa ancora attraverso la forza, e non attraverso l’intelligenza o la gentilezza. Per me il bullismo è un fenomeno, da certi punti di vista, troppo chiacchierato e sopravvalutato. Inoltre, l’atteggiamento che si ha – e che mi fa sorridere – è la protezione della persona bullizzata rendendola ancora più fragile. Al contrario, dobbiamo lavorare sul fortificare i ragazzi giovani, sul non far più loro fare le vittime, perché ogni vittima costruisce l’aguzzino: Humberto Maturana lo diceva già trent’anni fa.

 Questa dinamica è un po’ controintuitiva, ma è interessante. In che senso? Come fa una vittima a costruire un aguzzino? 

Io sono cresciuto con un fratello di due anni più grande di me che era alto, magro, timido e fragile sia fisicamente che emotivamente. Lui stanava un bullo ovunque fosse, perché aveva sempre questo atteggiamento timido e spaventato, eppure sto parlando di più di mezzo secolo fa. Io, siccome ero il suo opposto, mi sono trovato nella condizione di doverlo sempre difendere. Ora, a distanza di tempo, direi che questa è stata una delle cose che hanno forgiato il modo in cui sono cresciuto, per cui sono diventato il difensore del fratello e degli amici perché ero più forte, più determinato. Non è stata una scelta, mi ci sono ritrovato, non bisogna essere deterministici. Monod direbbe che ci costruiamo grazie al caso e alla necessità: come diremmo noi strategici, se la tua “tentata soluzione” funziona, ci costruisci sopra; se è disfunzionale, vai verso la difficoltà e il disagio.

 Il fatto che sia la vittima a costruire, almeno in parte, il carnefice mi sembra che da una parte possa essere un’idea inquietante, dall’altra apre una strada su alcune possibili soluzioni, perché se noi abbiamo anche solo una parziale responsabilità in questa dinamica vuol dire che abbiamo anche qualche possibilità di cambiarla. Parlando di vie d’uscita, qual è secondo te la prima cosa che deve fare una persona che sente di vivere all’interno di una relazione tossica? 

Cominciamo dai primordi: Don Jackson, fondatore del Mental Research Institute di Palo Alto e fondatore anche della terapia sistemica strategica familiare, sosteneva – ma lo sostengono tutti i terapeuti familiari – che in una famiglia la prima cosa che dobbiamo fare è stanare la vittima, perché se non stani la vittima essa tiene in ostaggio tutti. Quindi, invece di essere protettivi con la vittima, essa va fatta emergere. Poi va messa di fronte al fatto che deve uscire da quel ruolo, che, per quanto sofferto, molto spesso è anche vantaggioso. Nella società, quando si ha a che fare con una vittima, dobbiamo smettere di volerla tutelare, ma al contrario dobbiamo aiutarla ad esprimere quelle caratteristiche che non ha imparato a utilizzare, o costruirle insieme a lei. Se ti trovi ad essere vittima, devi fare i conti con te stesso e dire: «Finché sto in questa posizione, sicuramente le cose continueranno ad andare così, quindi devo far leva sulle mie risorse facendomi aiutare da chi me le può estrarre».

 Fino a che punto possiamo farcela da soli? 

Tu sai che nei miei due libri che hanno coniato anche due neologismi, “psicotrappole” e “psicosoluzioni”, parlo proprio del fatto che se mi sono costruito una trappola in cui cado che non è troppo profonda, ne posso saltare fuori da solo, mentre se è scavata profondamente e ne sono all’interno ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a uscirne. La differenza la fa quanto la situazione è diventata invalidante. Se io sono invalidato dalla mia condizione di vittima, quindi non posso farcela a combattere con i bulli, con la situazione professionale o altro, allora ho bisogno di un aiuto specialistico che non sia consolatorio. Oggi la maggioranza degli interventi, anche da parte delle forze dell’ordine, è consolatorio per la vittima, e questa è proprio una tentata soluzione fallimentare: la vittima deve uscire dal ruolo di vittima acquisendo competenze sociali e capacità personali attraverso aspetti sia terapeutici che formativi.

 Hai qualche libro o film da suggerire per approfondire questi temi? 

Io, con i miei collaboratori, ho scritto il libro Aiutare i genitori ad aiutare i figli, nel quale si parla molto di queste cose per ciò che riguarda tutti gli stadi della vita. Credo che in questo momento quello sia il testo più indicato, anche perché è stato composto proprio come una sorta di manuale con istruzioni per l’uso per le varie fasce d’età. Anche il mio classico Cavalcare la propria tigre rimane un testo che indica come ti costruisci le trappole e a quali espedienti puoi ricorrere per uscirne.

 Abbiamo parlato di relazioni tossiche, ma ci sono anche le relazioni virtuose. Questo secondo tipo di relazioni può essere un antidoto parziale? 

Non può essere – è un antidoto! La cosa importante, e più rara oggi, è incontrare buoni maestri, quelli a cui ci si ispira, che si vogliono imitare per diventare uguali a loro o anche migliori di loro. Oggi è veramente difficile trovare buoni maestri: in tanti che si propongono come tali, nel mondo della crescita personale ne trovi uno ad ogni angolo. Dico sempre che se vuoi trovare un buon maestro, prima di tutto devi studiare la sua vita. Se ha una vita infelice, non può essere un buon maestro. Io ho avuto la grandissima fortuna di incontrare un grande maestro, Paul Watzlawick. La relazione che ho avuto con lui è stata paragonabile a quella tra un grande maestro di arti marziali e il suo allievo prediletto: un insegnamento mai diretto, ma sempre agito con tecniche indirette. Pensa che non mi ha mai detto “bravo” in più di 25 anni! La volta che mi ha fatto il complimento più grande è stata dopo un seminario a San Francisco sulla terapia sistemica e strategica che riscosse un grandissimo successo perché avevo portato dei video di terapie sugli attacchi di panico e sul disturbo ossessivo-compulsivo che stupirono. Mi dette una pacca sulla spalla e mi disse: «Non è andata troppo male». Una sera eravamo a cena con sua moglie e lei disse: «Paolo», perché lo chiamava in italiano, «ma perché non fai mai dei complimenti a Giorgio per come si impegna, per quello che fa?». Lui, senza guardarmi, guardando lei, rispose: «Quando ho vissuto in India studiando il buddismo zen ho imparato che bisogna sempre punire l’allievo migliore». E continuò dicendo: «I peggiori non hanno niente da migliorare, se li punisci peggioreranno. Il migliore invece, qualora sia davvero il migliore, se lo punisci cercherà di migliorare ancora di più».

GIORGIO NARDONE, psicologo e psicoterapeuta, ha fondato ad Arezzo nel 1987, insieme a Paul Watzlawick, il CTS Centro di Terapia Strategica. Ha scritto molti volumi, tradotti in diverse lingue straniere, alternati fra registro specialistico e registro divulgativo.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 282 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui