Ma è vero che la mente non ha limiti?
Purtroppo o per fortuna, i limiti fisici nello sport esistono e sono misurabili. La mente non può forzarli (a meno di non credere nella magia), tuttavia può lo stesso fare la differenza.
Negli ultimi vent’anni mi sono occupato del rapporto tra mente e prestazione lavorando con le squadre olimpiche di sport di endurance (resistenza) come il fondo, il triathlon, il canottaggio, e con atleti top in discipline non olimpiche come l’ultramaratona o l’alpinismo. Credo che la maggior parte degli atleti – specialmente a livello amatoriale – condivida un approccio sbagliato all’aspetto mentale della prestazione. O di totale rifiuto («Psicologia dello sport? Son tutte balle!») o un approccio magico e miracolistico: «La mente può tutto, i limiti non esistono!». Entrambi questi atteggiamenti sono falsi e fuorvianti: la testa influenza la prestazione, questo è vero; ma da sola non può tutto: se non siete allenati, una fortissima motivazione vi permetterà al massimo di terminare la gara, ma non vi permetterà certo di spingere per ore sui pedali più watt di quelli che avete nelle gambe; né vi consentirà di tenere a lungo velocità di corsa a cui non vi siete preparati.
Vogliamo fare un po’ di ordine, liberandoci da miti e leggende? Questo articolo vi servirà soprattutto se praticate uno sport di resistenza come la corsa, lo sci di fondo, il ciclismo o il triathlon. Ecco quindi alcune cose interessanti da ricordare.
1. Il limite teorico di una prestazione di endurance non è mentale: è metabolico. È la cilindrata del vostro motore (cioè la massima quantità di ossigeno che riuscite a consumare nell’unità di tempo necessaria per produrre contrazioni muscolari) che determina la massima velocità con la quale potreste teoricamente ultimare il percorso di gara. Questa è la realtà scientifica. Sostenere altri punti di vista significa “spacciare onnipotenza”: far credere che la mente possa operare miracoli, svincolando il corpo dalle leggi del funzionamento fisiologico. Il limite metabolico è determinato da vari fattori, tra cui genetica, quantità (e qualità) di allenamento che si ha alle spalle ed età: per cui la massima prestazione che un soggetto può ottenere è sempre relativa al momento e alle circostanze presenti.
2. Ma allora, vi starete chiedendo, a cosa servono gli psicologi in questo tipo di performance sportiva? Il problema è che quasi mai un atleta raggiunge i limiti metabolici durante la prestazione. Questo perché intervengono diversi fattori (limitanti) a complicare le cose: e gran parte di essi sono mentali. Alcuni di questi – molto comuni – hanno a che fare con l’ansia e con l’emotività: per esempio, è tipico di molti atleti andare più forte in allenamento e poi non rendere in gara. È come se questi soggetti in allenamento si avvicinassero di più al loro limite metabolico, salvo poi riperdere terreno in competizione. Per capire in che modo i fattori emotivi influenzano la prestazione, non dobbiamo dimenticare che ogni elemento psicologico, persino i pensieri o le emozioni, ha un effetto sul corpo. Se il giorno della gara, per esempio, ho paura di fare una brutta figura o di non essere all’altezza delle aspettative degli amici, questo timore non si limiterà a essere uno stato mentale, ma avrà anche effetti sul corpo: l’ansia, infatti, è un segnale che induce il corpo a produrre una famiglia di ormoni detti “catecolammine” (conoscete l’adrenalina?) che causano – a parità di lavoro fisico – un’accelerazione della frequenza cardiaca, oppure un consumo più rapido del glicogeno epatico e muscolare, che potrebbe farvi finire “cotti” a metà percorso. La soluzione di questo problema di prestazione si pone a livello psicologico: sta nel capire insieme all’atleta perché l’evento gara rappresenti per lui uno stimolo minaccioso di tale intensità da innescare livelli di ansietà elevati, e nell’allenare il soggetto a gestire l’ansia e i suoi effetti corporei.
3. Un altro fattore psicologico che media la nostra possibilità di avvicinarci al limite metabolico è la capacità di soffrire: ossia la tolleranza che abbiamo della fatica e del dolore atletico. Ci sono atleti con grandi “motori” che non riescono a raggiungere alte intensità di lavoro perché non accettano la sofferenza. Spesso accade che in gara incontrino gente dotata di “motori” più modesti (oppure più avanti negli anni), ma che sa soffrire di più e che finisce per batterli. La tolleranza della fatica e della sofferenza è un capacità motivazionale, e – al contrario di quanto spesso si pensa – non è innata, ma appresa; ed è molto allenabile. Già nel 1969 il fisiologo Wilmore aveva osservato che il tempo di esaurimento di un atleta impegnato in un test massimale sul tappeto, si allunga se egli corre affiancato a un avversario. Il quadro basato semplicemente sui dati metabolici viene ancora una volta scompigliato dai fattori motivazionali: il limite raggiunto dall’atleta che corre da solo è un limite percepito come massimale, ma non è quello metabolico! Una fortissima motivazione permette di reclutare livelli metabolici più alti, prossimi a quelli del limite reale. L’aspetto motivazionale è il meno conosciuto, ma anche il più interessante della prestazione sportiva.
4. Come vedete, mente e allenamento non sono fattori che concorrono separatamente alla realizzazione del mio limite metabolico: infatti, solo avendo una grande motivazione potrò sostenere carichi di lavoro tali da permettermi di avvicinarmi al mio limite. Viceversa, una mente debole mi concederà di realizzare solo una frazione limitata del mio potenziale fisico. Proprio perché le capacità motivazionali non sono innate, ma sono influenzate dallo stile di vita, oggi dobbiamo tanto lavorare su questi aspetti; la società in cui viviamo, infatti, tende a iper-proteggerci da ogni forma di disagio fisico e a diseducare le nostre capacità motivazionali: di conseguenza le nostre competenze in tal senso si sono assai atrofizzate.
Per riassumere, in molti sport la mente non è tutto e non è onnipotente: ma può aiutarvi a fare la differenza.
Pietro Trabucchi si occupa di motivazione, gestione dello stress e resilienza, in particolare applicata alla psicologia dello sport. Insegna nell'Università di Verona.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 262 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui