Madri detenute e bambini in prigione
Vediamo alcune soluzioni innovative per i minori la cui madre è detenuta. Come starle accanto senza subire il trauma dell’ambiente carcerario?
Il tema della condizione della donna in carcere è un tema complesso, poco trattato dalla letteratura, che suscita un’attenzione molto limitata da parte degli operatori e dell’opinione pubblica: il ridotto numero delle donne detenute in Italia – in media, il 4.5% della popolazione detenuta – è senz’altro una delle motivazioni. Nel nostro Paese, al 30 aprile 2019, su 2659 donne detenute, sono presenti 51 madri detenute, di cui 20 italiane e 31 straniere, per un totale di 55 figli al seguito (fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, www.giustizia.it).
Molte sono le implicazioni di tipo etico-sociale riguardanti la donna detenuta, ma, soprattutto, i diritti e la condizione psicologica del bambino. Il dilemma è centrato su quale sia il maggior interesse del bambino: se mantenere il legame con la madre o evitare un’esperienza così difficile come quella della vita in carcere. Le situazioni possono essere assai diverse a seconda della durata della detenzione della madre, della possibilità di usufruire di una rete familiare, dell’età del bambino e del legame con la madre.
Va tenuto presente quanto possa essere critica per il bambino un’interruzione brusca della relazione affettiva con la madre, visto poi che, una volta in carcere, avrebbe comunque possibilità solo minimali di contatto, considerato che la persona detenuta, a seconda delle situazioni, ha in genere diritto a non più di 10 minuti di telefonata a settimana (ammesso che l’età del figlio sia adatta a un contatto telefonico) e a circa 3 ore di visita settimanale. È evidente che questa situazione può inficiare la relazione con un figlio e l’evoluzione del suo stile di attaccamento, specie se egli non può essere accudito dal padre o da una figura di riferimento già conosciuta. (CONTINUA...)
Si innesca una particolare connotazione di tipo morale, in quanto la donna detenuta madre suscita un’immagine sociale più negativa, essendo comunque considerata in qualche modo ancora più responsabile e deviante, proprio per aver compiuto dei reati sapendo di rischiare una detenzione e dunque di dover interrompere il rapporto con i figli o di rendere necessaria la loro permanenza in carcere con lei. A questo giudizio sociale sulla detenuta-madre si aggiunge una sorta di equazione sussistente nel senso comune anche per i padri, e cioè che l’essere detenuto corrisponda ad essere un cattivo genitore.
La legge prevede che i bambini possano rimanere con la madre fino ai 10 anni di età (L. 62/2011 e successive modifiche), anche se in genere si tratta di bambini molto più piccoli. Per rendere più vivibile il carcere e ammortizzare gli effetti negativi della detenzione sui bambini esistono due tipi di strutture: gli asili nido all’interno degli istituti penitenziari e gli ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri).
Come descritto da Ida Del Grosso (in Pajardi et al., 2018), gli asili nido sono collocati all’interno del carcere in una sezione dedicata, prevedono l’apertura delle “stanze di pernottamento” (nuova denominazione delle “celle”) per permettere ai bambini di spostarsi all’interno della sezione, la presenza di operatori in grado di garantire attività formative e ricreative, e di volontari od operatori esterni che li portino fuori per frequentare asili, giardini ecc.
Gli ICAM, invece, sono strutture innovative dal punto di vista detentivo e dell’obiettivo trattamentale, in quanto, pur dipendenti dall’Amministrazione Penitenziaria, sono notevolmente diversi dagli istituti detentivi tradizionali, con ambienti più somiglianti a quelli di una comunità. Sono infatti situati in una struttura diversa da quella del carcere, presentano finestre e presìdi di sicurezza molto simili a quelli di abitazioni civili e con il personale di polizia penitenziaria in borghese. Sono dotati di cucina, lavanderia e appositi spazi riservati al gioco dei bambini e all’interazione tra madri e figli.
I bambini, nel caso degli ICAM, così come negli istituti in cui è presente un nido, possono recarsi all’esterno grazie all’attività di volontari e operatori, in modo da poter frequentare una scuola esterna dell’infanzia o comunque ambienti liberi. Sono svolte anche attività di tipo osservativo e trattamentale proprio sul tema della genitorialità, per supportare le madri che sono detenute e la loro relazione con i figli, oltre a migliorare le loro competenze genitoriali nel momento in cui venissero ravvisate delle criticità.
Come descritto (in Pajardi et al., 2018) da Gloria Manzelli, direttrice della Casa Circondariale di San Vittore di Milano, che nel 2006 ha istituito il primo ICAM in Italia, l’essere collocato fisicamente all’esterno del carcere ha concretamente garantito l’obiettivo dell’ICAM, ossia evitare che un bambino entri in un carcere, tutelando al contempo il suo diritto ad avere la figura materna vicina. Attualmente sono 5 gli ICAM presenti in Italia: Torino, Milano, Venezia, Cagliari e Lauro (in provincia di Avellino).
La possibilità che la madre detenuta tenga con sé i figli in carcere dipende da vincoli normativi legati alla posizione giuridica della donna, ma anche alla valutazione che questa possa essere una soluzione adeguata per il bambino, in relazione all’età, al rapporto con la madre, alla durata della detenzione, all’eventuale interruzione di legami familiari e sociali fuori del carcere. Spesso la donna che commette reati è una donna sola, priva di supporti esterni, per cui per il figlio l’alternativa diventerebbe l’affido etero-familiare o, in casi estremi, per inadeguatezza della madre o per pene molto lunghe, l’adozione. La situazione del bambino viene di solito monitorata dal Tribunale per i Minorenni anche affidando il minore ai Servizi sociali, che svolgono così un ruolo di supporto e di tutela giuridica.
Daniela Pajardi è professore associato di Psicologia giuridica e sociale all’Università di Urbino, presso cui è anche direttore del corso di perfezionamento su Perizia e consulenza tecnica psicologica in ambito forense.
Vittoria Terni de Gregory, psicologa, collabora con il Centro di Ricerca e Formazione in Psicologia giuridica ed è tutor presso il Polo Universitario Casa di Reclusione di Fossombrone (PU).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Pajardi D., Adorno R., Lendaro C. M., Romano C. A. (2018), Donne e carcere, Giuffrè, Milano.
Ravagnani L., Romano C. A. (2013), Women in prison, Pensa Multi-Media Editore, Lecce-Brescia.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 275 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui