Mantenere l'equilibrio sulla corda tesa: gestire lo stress
Spesso la nostra fonte di stress è il bisogno che niente sfugga alla nostra vigilanza, dalla gestione del tempo alla repressione del minimo impulso di rabbia. Una modalità per risolvere questo stato di tensione è provare a smettere di cercare di tenere tutto sotto controllo, stress compreso.
Mal di testa, stanchezza, mal di stomaco, insonnia, ansia sono solo alcuni dei malesseri usualmente correlati allo stress, che, secondo una recente analisi promossa da Assosalute, sembra colpire quasi 9 italiani su 10.
Non per niente, se si digita la parola “stress” su Google, compaiono ben 675 milioni di voci. Sempre più oberati di cose da fare, con la sensazione di non poter mai tirare il fiato, la parola “stress” ha ormai invaso il linguaggio comune, e viene utilizzata per indicare praticamente qualunque stato di affaticamento o disagio. Ammettiamolo: oramai anche parlare di stress ci stressa!
Ma cos’è in realtà lo stress? Lo stress non è altro che la capacità del nostro organismo di adattarsi alle richieste di cambiamento che provengono dall’ambiente, in modo da raggiungere un equilibrio migliore. Secondo Hans Selye, il padre della ricerca sullo stress, ciò rappresenta l’essenza stessa della vita. Come equilibristi che devono oscillare di continuo per procedere sulla corda tesa, dobbiamo attivare costantemente le risorse del nostro organismo per rispondere alle richieste dell’ambiente in cui viviamo.
“Stressato” è quindi sinonimo di “reattivo”, e possiamo tranquillamente affermare che la natura ci vuole tutti “un po’ stressati”. Ogni volta che percepiamo un pericolo, incontriamo una difficoltà, affrontiamo una sfida importante o siamo impegnati in un compito complesso, si attivano meccanismi ormonali (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) e nervosi (sistema simpatico) che regolano fisiologia e comportamento per aiutarci a risolvere al meglio il problema.
Una volta completato il compito e raggiunto il nuovo equilibrio, il sistema ritorna in condizioni di riposo, pronto a scattare di nuovo. Il meccanismo è progettato per accendersi e spegnersi, come un interruttore, e alla reazione di stress dovrebbe poi seguire il suo opposto, cioè la risposta di rilassamento, che rigenera le energie consumate sotto stress.
Tuttavia l’ambiente estremamente complesso in cui viviamo richiede prestazioni cognitive elevate e continue, al pari di competenze emotive raffinate, e un costante controllo sull’espressione delle proprie emozioni.
Le fonti di stress sono quindi molteplici e frequenti e non riusciamo mai a spegnere fino in fondo l’interruttore. Inoltre l’attivazione metabolica e cardiovascolare che prepara la reazione “fight or flight” (attacco o fuga), selezionata dall’evoluzione per affrontare le sfide, è quasi sempre inadatta a gestire le dinamiche psicosociali e le prestazioni richiesteci dalla vita moderna: accelerare il battito cardiaco per mandare più sangue ai muscoli facilita la fuga da un leone affamato, ma è totalmente inutile per superare un esame all’università o un colloquio di lavoro.
L’organismo è attivato in continuazione e spesso non trova uno sfogo appropriato, né riesce a compensare con la necessaria risposta di rilassamento. Facciamo così fatica a rilassarci che dobbiamo affidarci a corsi o manuali per apprendere una capacità che dovrebbe essere innata, tanto che imparare a rilassarsi può paradossalmente diventare un’ulteriore fonte di stress.
A lungo andare, quindi, il sistema si “irrigidisce” in un logorante stato di attivazione perenne, che predispone all’insorgenza non solo di molti disturbi psicologici, ma, indebolendo le difese immunitarie, anche di numerose patologie fisiche (disturbi cardiovascolari, malattie infiammatorie, tumorali, autoimmuni, neurodegenerative), oltre che di molteplici disturbi etichettati nel loro insieme come “funzionali”. Come un farmaco che in quantità eccessive può trasformarsi in un veleno, anche in questo caso è la dose a fare la differenza; poiché lo stress è inevitabile e parte integrante della vita, diventa particolarmente importante saperlo gestire in modo che da limite si trasformi in risorsa.
Vediamo quindi alcuni “antidoti” che possono aiutarci a mantenere lo stress nel giusto dosaggio, impedendogli di trasformarsi in “veleno”.
Gestire il tempo in maniera efficace
La gestione del tempo è indubbiamente uno degli aspetti più critici per l’uomo moderno. Perennemente di corsa, presi tra impegni lavorativi e familiari, siamo costantemente risucchiati da mille cose da fare e il tempo sembra non bastare mai. Gestire questa “overdose” di incombenze richiede non solo la capacità di darsi delle priorità, ma anche e soprattutto quella di sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione.
Si assiste, infatti, al fenomeno sempre più frequente di chi, sapendo di doversi dedicare a impegni sgradevoli o faticosi, continua a procrastinarli, finendo per fare ben poco a fronte di intere giornate passate con il retropensiero (molto stressante) di quello che dovrebbe stare facendo e non fa. Caso tipico non solo di tanti studenti, ma anche e soprattutto di tutti quei professionisti che avendo la libertà di organizzare il proprio tempo in totale autonomia, finiscono per soccombere alla propria incapacità di organizzarsi.
Questo meccanismo, quando prolungato nel tempo, crea una grande sfiducia nelle proprie risorse, fino ad arrivare a trasformarsi, nei casi più gravi, in una vera e propria rinuncia di tipo depressivo (“Tanto, non sono in grado, non ne ho le risorse”).
Uno stratagemma assai utile in tutti questi casi è quello di decidere a inizio giornata quante e quali saranno le ore che saranno dedicate a tutte le incombenze spiacevoli che di solito vengono rimandate. Ebbene, in quello spazio temporale saremo liberi di fare quello che abbiamo pianificato, ma, al di fuori di esso, ci sarà il divieto assoluto di tali compiti fino al giorno successivo.
Questa prescrizione strategica, ridefinendo il significato di “tempo libero” come quello in cui non potrò dedicarmi a ciò che devo fare, sovverte completamente il rapporto tra dovere e libertà, finendo per scardinare la trappola paradossale di chi, più si sforza di fare, più tende a rimandare. Gli effetti dell’indicazione possono essere due: o la persona riesce a fare il previsto nelle ore programmate (aiutata proprio dallo stress di non avere altro tempo a disposizione) o si ribella e trasgredisce alla proibizione (ovverosia svolge le incombenze nelle altre ore). L’effetto finale sarà comunque quello di “spingere il nemico a salire in soffitta e togliere la scala”, riuscendo a fare quello che prima non si era in grado di fare.
Tenere a freno la tendenza al perfezionismo
Cresciuti in una società sempre più esigente, la tendenza al perfezionismo è un’altra trappola che può contribuire ad alzare notevolmente il nostro livello di stress. Che sia legato alla paura dell’errore, del giudizio altrui, al bisogno di eccellere o all’idea che le cose vadano fatte in un certo modo, quando perseguiamo la perfezione finiamo spesso per dedicare troppo tempo ed energie ad attività che potrebbero essere svolte in modo efficace anche con uno sforzo minore.
Tendenza, questa, che quando diventa generalizzata e pervasiva può sfociare in un vero e proprio disturbo ossessivo-compulsivo. Non è raro, poi, che l’eccesso di attenzione ed energie profuse in alcuni compiti finisca per produrre proprio ciò temiamo, portandoci a commettere errori pure grossolani in altre attività. Come rimedio a questa tendenza possiamo prescriverci una “piccola imperfezione che ci protegge dalla grande imperfezione”, ossia obbligarci a lasciare una piccola cosa non del tutto controllata o a inserire un piccolo errore (per esempio un errore di battitura in una e-mail) proprio per interrompere la trappola della grande perfezione. Di fronte alla scoperta di quanto le piccole imperfezioni non solo non limitino l’efficacia della nostra prestazione, ma possano addirittura renderci più simpatici e gradevoli agli occhi degli altri, questa prescrizione ha il potere di rompere la rigidità del perfezionista, riducendo notevolmente il suo stress.
Imparare a delegare
Tema centrale di moltissime richieste di coaching, la tendenza a mantenere tutto sotto controllo, associata alla relativa incapacità di delegare, non è appannaggio dei soli manager, ma si distribuisce in tutta la popolazione. Troviamo così persone (di solito donne) che finiscono per accentrare completamente la gestione dei figli e della loro educazione, al pari di altre che non riescono a delegare le questioni burocratiche della casa o di altre attività familiari. Il bisogno di “avere tutto sotto controllo” crea l’illusione di tenere sotto controllo anche lo stress, quando in realtà è proprio l’eccesso di controllo a stressarci ancora di più, fino a condurci a una vera e propria perdita di controllo, soprattutto emotivo. Anche in questo caso l’antidoto va introdotto quotidianamente, imparando a delegare a piccolissimi passi le cose meno importanti e scoprire così che il controllo sano non è mai rigido, ma è la capacità di lasciare andare il controllo per poi riprenderlo.
La paura: imparare a “occuparsi” invece di “pre-occuparsi”
Un’altra velenosa tendenza dell’uomo moderno, anch’essa frutto del bisogno di controllo, è la tendenza ad anticipare possibili eventi futuri (ovviamente sgradevoli) che sovente diventano fonte di rimuginazione quotidiana: “Potrebbe capitare qualcosa ai miei figli?”, “Il mio capo vorrà sostituirmi con quel giovane collega appena assunto?”, “E se mi capitasse una malattia di quelle brutte?”. Immersi in queste preoccupazioni, anche se l’oggetto temuto è solo immaginato e non materialmente presente, il nostro corpo sperimenta tutti quei fenomeni fisiologici, come l’ansia, che incrementano a dismisura il nostro stress.
Come recita un noto detto, infatti, “preoccuparsi prima del necessario è preoccuparsi più del necessario”. Questa situazione è aggravata dal fatto che, in casi siffatti, non possiamo intervenire concretamente per rimuovere la causa della preoccupazione, visto che quest’ultima non è presente, ma solo mentalmente anticipata. Se generalizzata e pervasiva, tale tendenza può dare origine a disturbi fobico-ossessivi di varia natura (fobie, ossessioni, ipocondria ecc.), spesso accompagnati da veri e propri attacchi di panico.
In tutti questi casi, bisognerebbe essere capaci di “partire dopo per arrivare prima”, ossia di imparare a “occuparci” degli ostacoli o problemi solo quando si manifestano nel qui e ora, invece di continuare a “pre-occuparcene”. Per gestire questa trappola possiamo decidere di dedicare ogni giorno uno spazio di tempo (per esempio, una mezz’ora) in cui concentrare tutte le nostre peggiori fantasie rispetto alle preoccupazioni, in modo tale da riservare loro uno spazio confinato e quindi di liberare il resto della giornata. Nella maggior parte dei casi, inoltre, l’aspetto paradossale della tecnica (“preoccuparsi a comando”) finisce per fare svanire definitivamente i fantasmi delle nostre paure, una volta che sono attivamente ricercati piuttosto che rifuggiti.
Liberarsi dal veleno della rabbia
Di tutte le emozioni, forse la rabbia è quella dotata del potere più grande di innescare forti reazioni di stress. Emozione considerata spesso “inadeguata” da un punto di vista sociale, è anche quella che nella maggior parte dei casi non possiamo esprimere in maniera diretta, pena il danneggiamento delle nostre relazioni personali o professionali.
Chi si sente libero di dire al capo che è un incompetente o di urlare al collega che si è stufi di fare anche il suo lavoro? Ecco allora che i collerici oscillano tra lo sforzo continuo di nascondere la propria irritazione, quando sono in un contesto in cui non sarebbe adeguato esprimerla, e lo sfogarla con le persone più vicine.
Come una pianta innaffiata con un fertilizzante speciale, però, la rabbia socializzata diventa ancora più intensa, dando spesso origine non solo a problemi relazionali, ma a veri e propri disturbi psicosomatici (mal di stomaco, mal di testa, disturbi pressori, solo per citare i più frequenti). Fondamentale è quindi imparare a gestirla in modo efficace, smettendo di condividerla con gli altri e facendola invece defluire in un canale “protetto”.
Per chi non ha la possibilità di dare uno sfogo “fisico” alla rabbia (per esempio attraverso un’attività sportiva) la via più rapida consiste nel concedersi di esprimerla nella maniera più intensa possibile per iscritto. Mettendo nero su bianco tutto la nostra irritazione verso l’interlocutore, come se gli stessimo scrivendo una lettera, non solo permettiamo alla rabbia di defluire su carta, ma, nella maggior parte dei casi, cambiamo anche la nostra percezione dell’altra persona. Non più visto attraverso le lenti deformanti della rabbia, spesso l’altro non ci appare più così negativo, anzi in alcuni casi finiamo per provare per lui anche pena o simpatia.
L’antidoto miracoloso: il piacere
Il piacere è l’antidoto per eccellenza, quello che ha il potere di ridurre, fino ad annullare, il sovradosaggio velenoso dello stress. Per quanto abili a gestire tutti gli aspetti trattati finora, difficilmente riusciremo a tenere sotto controllo interamente lo stress senza questo ingrediente fondamentale.
Saper salvaguardare in ogni giornata un piccolo momento di piacere, dedicandoci a quello che ci fa star bene, è fondamentale per mantenere l’equilibrio sulla corda tesa della nostra quotidianità. Allo stesso modo, godere del nostro tempo libero dedicandoci alle nostre passioni e ai nostri interessi è una fonte di ricarica energetica sia emotiva che fisica. Eppure anche questa indicazione, che dovrebbe incontrare il consenso di tutti, viene spesso disattesa, e non solo per questioni di tempo.
Una caratteristica molto diffusa fra le persone che più si lamentano di essere stressate, infatti, è la tendenza ad anteporre non solo i propri doveri ai piaceri, ma anche i piaceri degli altri ai propri. Ci troviamo così di fronte ad “altruisti patologici”, persone incapaci di concedersi piaceri proprio perché costantemente concentrate sui bisogni e desideri delle persone care.
Per questi individui il proprio benessere viene messo sempre in secondo piano, con il risultato purtroppo scontato di provocarsi una crescente frustrazione, la quale spesso sfocia anche in irritazione o in autentico rancore nei confronti degli altri, il più delle volte completamente ignari dei sacrifici che la persona sta facendo. Sacrificarsi può essere un atto d’amore bellissimo, ma solo se non ci fa pagare un prezzo troppo alto (che finiremo inevitabilmente poi per far pagare anche agli altri).
La via di uscita è imparare a coltivare quello che abbiamo chiamato il “sano egoismo”, cioè la consapevolezza che per fare star bene gli altri dobbiamo in primo luogo star bene noi. Essere dei sani egoisti significa ricordarci di prenderci cura di noi stessi, perché, come sostiene Chuang Tzu, l’uomo perfetto si cura prima di sé, poi cerca di aiutare gli altri.
Riferimenti bibliografici
Milanese R., Mordazzi P. (2007), Coaching strategico, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G. (1998), Psicosoluzioni, Rizzoli, Milano.
Nardone G. (2013), Psicotrappole, Ponte alle Grazie, Milano.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 269 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui