di: Paola A. Sacchetti
Mobbing: quando il lavoro ti distrugge
È di pochi giorni fa la notizia del licenziamento, da parte dell’Azienda Sanitaria, dell’ex primario del reparto di ginecologia e ostetricia dell’Ospedale Santa Chiara di Trento, dove lavorava Sara Pedri, la ginecologa trentenne scomparsa da marzo. A metà ottobre l’ex primario e la sua vice sono stati anche iscritti nel registro degli indagati per maltrattamenti: ancora non sappiamo cosa accadrà e non vogliamo entrare nel merito della vicenda giudiziaria, ma vogliamo prendere spunto da questo fatto per riflettere sul mobbing e sul segnale che non sempre gli abusi e le angherie perpetrati sul posto di lavoro passano sotto silenzio. In questo caso, purtroppo, sono serviti la scomparsa di una giovane donna che è stata schiacciata dal mobbing subìto in reparto, forse, se l’ipotesi del suicidio troverà conferme investigative, fino ad annullarla come essere umano, e l’impegno della sua famiglia nel voler far emergere la verità. Dalle testimonianze di familiari e colleghi, il giorno prima della sua scomparsa Sara Pedri aveva dato le dimissioni, proprio a causa del clima tossico respirato in reparto e dei mesi di continuo mobbing: aveva perso peso per il forte stress, era diventata insicura, tanto da non riuscire più a operare, era diventata triste e ombrosa. Purtroppo l’auto lasciata vicino al ponte del torrente Noce, in Val di Non, lascia intendere che abbia posto fine al suo tormento. Come se quello che ha vissuto fosse causa sua. Come se non riuscisse ad accettare il peso di non essere riuscita a “resistere” in quel posto di lavoro, come se le dimissioni fossero un fallimento, il frantumarsi di un sogno, la conferma e il monito di “non essere in grado”.
Per capire meglio di cosa si tratta e, forse proprio attraverso queste righe, riuscire ad aiutare qualcuno a capire se sta subendo mobbing e come reagirvi, abbiamo intervistato Guido Sarchielli, Professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna.
Prof. Sarchielli ci può spiegare che cosa è il mobbing?
Si parla di mobbing quando una persona sul proprio luogo di lavoro subisce maltrattamenti, atti incivili e viene tormentata e vessata. I promotori di tali condotte possono essere datori di lavoro, dirigenti senior, manager di linea, supervisori, coordinatori (mobbing verticale) oppure colleghi (mobbing orizzontale) o anche sottoposti.
I numerosi tipi di azioni di mobbing possono essere suddivisi in due grandi gruppi:
- gli atti palesi, che sono più facili da riconoscere e includono forme di controllo estremo sul lavoro, demansionamento ingiustificato, aggressioni e abusi verbali con insulti, insolenze e minacce;
- gli atti nascosti, ovvero indiretti e passivo-aggressivi, che comprendono invece le comunicazioni ostili, il nascondere informazioni, i pettegolezzi, le ingiuste valutazioni negative, i continui richiami disciplinari, l’assegnazione di compiti indesiderabili e molto gravosi, come forma iniqua di punizione, le interferenze sul lavoro che arrivano persino al sabotaggio dell’attività; a questi si aggiungano i trattamenti discriminatori e umilianti che denigrano la persona per l’etnia, la religione o l’appartenenza a qualche gruppo minoritario.
Bisogna ricordare che il mobbing non è un evento occasionale, ma è un processo che diventa sempre più distruttivo nel tempo. Si fonda su una relazione interpersonale distorta, un conflitto distruttivo tra due attori principali, il mobber e il mobbizzato, spesso con il coinvolgimento di altri come partecipanti attivi (side-mobber), come spettatori coscienti degli atti negativi ma incapaci di aiutare (by-stander) oppure come persone che in qualche modo cercano di segnalare l’illecito (whistleblower). Quindi è un processo devastante che da interpersonale diventa rapidamente sociale, inquinando anche il clima organizzativo. Le sue diverse manifestazioni concrete si riconoscono per il fatto che sono unificate dalla sistematicità degli atti negativi e dalla comune intenzione vessatoria.
Particolarmente grave è il mobbing perpetrato da chi si trova in posizione di comando. In questo caso esso rappresenta l’esito comune di una leadership tossica, che si esprime con comportamenti narcisisti, malevoli, manipolativi, prepotenti. È facile allora che si attivi un vero e proprio processo di mobbing verso qualcuno poiché in generale i leader tossici tendono a frustrare colleghi e collaboratori, a comandarli tramite la paura di sanzioni, a svalutare il loro impegno, a creare danni con la loro insensibilità psicosociale, l’assenza di empatia, l’arroganza e gesti vendicativi. Spesso questi capi distruttivi risultano incoerenti nelle loro condotte, sono inaffidabili e assumono a fatica le responsabilità connesse con la loro posizione, lasciando soli i collaboratori proprio quando servirebbe sostenerli, motivarli, correggerli, guidarli. Mostrano, inoltre, una debole integrità morale, essendo mossi da un’eccessiva ambizione di potere e successo, anche adottando comportamenti machiavellici, non trasparenti e a danno degli altri.
Come si sente la persona che subisce mobbing?
Quando i contesti organizzativi complessi, ad alto tasso di stress lavorativo e di pressioni per il risultato (come quelli sanitari) sono anche connotati da formalismo comunicativo, mancanza di rispetto, intolleranza per le diversità, insensibilità per le emozioni lavorative attivate da uno stress lavorativo incontrollato, pessimismo e vi è una prevalenza di controllo autoritario da parte di leader tossici, è assai probabile che emergano fenomeni di mobbing. Questi possono essere sia diretti (cioè verso una persona-bersaglio), sia indiretti (la persona non sperimenta direttamente atti di mobbing, ma ne sente parlare e li vive “di seconda mano”).
Le persone-bersaglio di mobbing sentono di subire un attacco pesante e spesso inaspettato alla loro integrità psicofisica, percepiscono la rottura di un legame affettivo con il lavoro e il contesto sociale e subiscono effetti psicofisici negativi spesso drammatici. Si sentono ansiose, depresse, impaurite, perdono il sonno, sviluppano mal di testa, vertigini, mal di stomaco, problemi cardiaci e disturbi del comportamento alimentare. Tendono a rimuginare di continuo l’insicurezza e la rabbia e possono manifestare sintomi comunemente osservati nella sindrome da stress acuto o da stress post-traumatico (flashback ricorrenti, cali di umore, irritabilità voglia di isolarsi ecc.); possono andare incontro a disturbi della salute mentale, sperimentare una rassegnazione passiva (o viceversa dare risposte aggressive improvvise), avere ideazioni suicidarie e condotte auto-aggressive che, in un numero rilevante di casi, si traducono nel suicidio.
Anche chi sperimenta il mobbing in modo indiretto può avere esiti simili per la consapevolezza traumatica di vivere in una situazione di minaccia grave, per lo sviluppo di sentimenti di sfiducia e la percezione che essa sia tollerata dall’organizzazione in cui operano.
Perché la vittima di mobbing arriva a credere di non valere più nulla e, in casi estremi, a pensare al suicidio? Si tratta di burnout portato alle estreme conseguenze?
C’è qualche elemento di somiglianza tra il mobbing e le forme più gravi di burnout, tuttavia quest’ultima è una sindrome molto più definita come esito di strain cronico dovuto a molti stressors, tipico per certe professioni di aiuto. L’esperienza di mobbing è invece meno delineabile come sindrome univoca, in genere è più concentrata nel tempo, con atti singoli negativi meglio identificabili, tende a presentarsi in tutti i contesti organizzativi dove è presente alto stress lavorativo associato a una cultura tossica.
Su piano soggettivo, l’esperienza di mobbing non solo rompe la fiducia della persona verso il suo contesto di lavoro e diventa un vissuto di delusione rispetto a un’attività e a un ruolo sociale su cui ha investito desideri ed energie, ma rappresenta un colpo pesante ai propri progetti di vita. La persona sente frantumarsi i presupposti di base su cui ha costruito la sua identità personale e professionale; si incrinano cioè i significati di ciò che sta facendo, la percezione di benevolenza verso il mondo, l’importanza del rispecchiamento degli altri, il valore cognitivo e affettivo dei legami interpersonali. L’autostima è danneggiata dai crescenti sentimenti di impotenza verso un nemico percepito come invincibile, dalla preoccupazione di non farcela e dall’idea, confusa ma frustrante, di non avere più vie di uscita, di essere con le spalle al muro e senza speranza. L’autoefficacia che normalmente aiuta le persone a mantenere un senso di sicurezza e di ottimismo verso il futuro si riduce in modo pericoloso. È facile cedere alla demoralizzazione e alla vittimizzazione quanto più è presente sfiducia organizzativa, si percepisce una mancanza di aiuto e sostegno da parte di coetanei e colleghi e crescono spiacevoli sentimenti di isolamento e di abbandono. Si è visto anche in ambito sanitario che, se tali tratti depressivi non si fermano, diventano possibili purtroppo anche condotte suicidarie.
Possiamo dare qualche consiglio a chi è vittima di mobbing? Come può capire se il malessere che sta vivendo sul posto di lavoro è mobbing? E che cosa potrebbe fare per tutelarsi, affrontare e uscire da questa situazione?
Ancora troppe organizzazioni (anche quelle sanitarie) non investono tempo o risorse per creare un luogo di lavoro emotivamente sicuro. Allora sono necessarie sia tattiche di sopravvivenza individuale, sia interventi di livello organizzativo.
Tra le prime possiamo indicare:
- non perdersi d’animo, non incolpare sé stessi per la situazione e non cedere alla tentazione di dimettersi in modo reattivo;
- rendersi conto che il mobbing può capitare a tutti (specialmente quando si comincia a lavorare, nei cambiamenti di lavoro, in fasi di mobilità, quando cambia un direttore ecc.);
- non accettare un confronto/scontro diretto con il mobber, che è sempre in posizione di vantaggio, rispondere invece con i risultati indiscutibili del proprio lavoro e semmai dare visibilità sociale alla vicenda;
- cercare di aumentare i legami con persone fidate (fonti di sostegno affettivo con cui confidarsi) e con il Consigliere di fiducia, presente nelle organizzazioni pubbliche, a cui ricorrere in caso di emergenza;
- essere consapevoli che il diritto alla salute lavorativa è protetto dalla legge (il Testo Unico sulla Sicurezza lavorativa riguarda anche lo stress correlato al lavoro) e che ci sono specifiche prescrizioni per le possibili malattie professionali con obbligo di denuncia dovute alle costrittività organizzative (Gruppo 7, Lista II: Malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro);
- sapere che non tutti i contrasti di lavoro sono mobbing e che quindi occorre saper discriminare bene le situazioni che si configurano come illecito (e che rinviano a reati perseguibili);
- rendersi conto che si possono seguire le vie legali, ma essere consapevoli che sono complicate da affrontare (avendo l’onere della prova, occorre che la persona raccolga per tempo documenti, e-mail, sms, possibili testimoni a favore ecc.);
- in ogni caso, è indispensabile evitare una gestione individuale della situazione di possibile mobbing, ma riferirsi precocemente a sostegni collettivi (per esempio, al sindacato o ad alcuni degli strumenti organizzativi di cui diremo dopo).
Tra gli interventi di prevenzione e sostegno organizzativo si possono richiamare:
- gli Sportelli di ascolto (se presenti in azienda; che sono gestiti da psicologi in posizione di terzietà rispetto all’azienda);
- le politiche di “tolleranza zero” dell’aggressività e inciviltà organizzativa (che richiedono, per esempio, la diffusione e la discussione pubblica sui report delle indagini obbligatorie sullo stress lavorativo e, soprattutto, l’adozione canali accurati per la denuncia riservata e protetta di atti violenza e mobbing; la risposta immediata alle segnalazioni e ai reclami);
- il buon funzionamento dei “CUG-Comitati Unici di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni”, obbligatori nelle pubbliche amministrazioni (comprese le aziende sanitarie) per sensibilizzare il personale anche con iniziative formative su questi temi.
Spesso si sente dire che è il lavorare vittima di mobbing a doversi “strutturare”, lavorando su sé stesso per rafforzare l’autostima, curare le patologie che emergono come conseguenza del mobbing stesso, imparare a gestire meglio l’ansia e lo stress e così via. Le stesse “richieste di miglioramento” però non vengono fatte a chi il terrore psicologico lo esercita, a meno che il mobbing non diventi “pubblico” e l’azienda sia costretta a prendere provvedimenti, come è accaduto nel caso della Dott.ssa Pedri. Perché accade e che cosa possiamo fare perché questa pratica non sia più accettata o tollerata?
Attivare percorsi di counseling psicologico focalizzati su autostima e resilienza potrebbe sicuramente essere una via confidenziale utile per attenuare il disagio delle persone colpite dal mobbing. Sembrano però indispensabili gli strumenti di prevenzione citati prima, che possono contribuire a intaccare la “cultura organizzativa del silenzio” di fronte alle prevaricazioni che rappresenta il terreno di coltura anche del mobbing. I top manager e i responsabili delle Risorse Umane dovrebbero sensibilizzare i membri del personale, e soprattutto i leader, sui modi appropriati per gestire i conflitti e le critiche. Dovrebbero rendere chiaro che di fronte a situazioni di mobbing “non si lascia perdere”, ma si attivano immediatamente indagini e monitoraggi; è necessario poi che vengano presi provvedimenti tempestivi, prima in modo confidenziale (ascolto separato delle parti e discussione delle opzioni disponibili) e poi esplicitamente (per esempio, con l’istituto della mediazione); inoltre devono essere previste, e applicate con rigore, azioni disciplinari e sanzioni di vario grado (dall’avvertimento, alla mobilità fino al licenziamento) nei confronti dei mobber riconosciuti come tali.
Guido Sarchielli, Professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi e articoli su riviste scientifiche e divulgative, tra i suoi principali interessi di ricerca ricordiamo socializzazione al lavoro e valori del lavoro; disoccupazione; formazione professionale e acquisizione delle competenze sociali e professionali; effetti psicosociali della flessibilità e del lavoro contingente; invecchiamento e lavoro (pensionamento); leadership.