Non dire non. L'importanza di comunicare in positivo
Il cervello ha più difficoltà a decodificare messaggi con il “non”. Specie nelle esortazioni, dunque, optiamo per le versioni affermative.
«Spesso contraddiciamo un’opinione mentre ci è antipatico soltanto il tono in cui è stata espressa». Chi di noi non ha verificato almeno una volta questo sagace aforisma di Nietzsche? Quante volte, pur sapendo che ha perfettamente ragione, ci troviamo a discutere con il nostro partner perché siamo infastiditi dalle modalità con cui comunica? Per non parlare dell’irritazione che provocano le prediche, vengano esse dai genitori, dagli insegnanti o dal medico. Benché siamo abituati a pensare che ciò che conta sia solo il contenuto del messaggio, in realtà la forma con cui viene espresso è fondamentale per la sua accettazione o rifiuto.
Uno degli aspetti più importanti di cui tenere conto quando comunichiamo è l’utilizzo di formule negative, ossia di tutto quello che si esprime con il non. Le negazioni non piacciono innanzitutto al nostro cervello. È stato dimostrato, per esempio, che il messaggio «Non dimenticarti di telefonare a tua madre» viene ricordato con maggior difficoltà dell’analogo «Ricordati di telefonare a tua madre», perché richiede al nostro cervello una doppia decodifica del messaggio. Ma le negazioni sono particolarmente subdole anche perché ci obbligano a raffigurare quello a cui non vorremmo pensare. Una richiesta apparentemente innocente come quella di «non pensare a un elefante rosa», per esempio, è impossibile da soddisfare, dal momento che dobbiamo raffigurarci proprio l’elefante color confetto per cercare di non pensarci.
Non dire non. L'importanza di comunicare in positivo
Ma quello che potrebbe sembrare solo un gioco linguistico diventa invece terribilmente serio quando pensiamo a quante volte diciamo ai bambini che «non devono avere paura», ignari del fatto che questo farà loro evocare proprio la paura. Per non parlare di quando la comunicazione negativa arriva da parte di un medico o un infermiere che stanno somministrando una procedura potenzialmente dolorosa a un paziente. La banale affermazione «Non si preoccupi, non sentirà molto dolore», infatti, produce l’effetto contrario, aumentando sia l’ansia sia il dolore percepito da parte del paziente (fenomeno noto come “effetto nocebo”). È per ovviare a questo, per esempio, che l’ipnotista che voglia ridurre la nausea post-operatoria in un paziente eviterà la formula negativa «Quando si risveglia non sentirà assolutamente nausea» in favore di una positiva: «Quando si risveglierà proverà una piacevole sensazione di appetito».
Quando parliamo di negazioni nella comunicazione, però, non facciamo riferimento solo all’uso dell’avverbio “non”, ma anche a tutto ciò che critica o squalifica la percezione dell’interlocutore. L’uso di affermazioni negative nei confronti del comportamento o delle idee dell’altro, infatti, tende a promuovere reazioni di irrigidimento e rifiuto, e innalza le sue resistenze al cambiamento. Un bravo persuasore non solo rispetta le convinzioni altrui, ma le utilizza in direzione dell’obiettivo che vuole ottenere. Come suggeriva Aristotele, «Se si vuole persuadere qualcuno lo si deve fare attraverso le sue stesse argomentazioni».
Immaginiamo, per esempio, di ricevere la richiesta di aiuto da parte dei genitori di un adolescente descritto come insicuro, fragile, incapace di far valere le proprie ragioni. Come si verifica frequentemente in questi casi, la strategia messa in atto dai genitori per cercare di aiutare il figlio è quella di sostituirsi a lui, risolvendogli i problemi, nei rapporti sia con la scuola che con i coetanei. Ma, purtroppo, con le migliori intenzioni il modello iperprotettivo produce gli effetti peggiori, determinando un’involuzione progressiva dell’insicurezza del ragazzo e della sua incapacità. La tentazione sarebbe quella di colpevolizzare i genitori, facendo notare loro che quanto stanno facendo è sbagliato. Ma questa comunicazione, sebbene corretta dal punto di vista del contenuto, non farebbe che suscitare irrigidimento e incrementare moltissimo la loro resistenza al cambiamento.
In tal caso la strategia comunicativa più efficace è quella di “aggiungere per togliere”. Invece di colpevolizzare i genitori per il loro errore educativo, ci possiamo innanzitutto complimentare con loro per tutti i grandi sacrifici che hanno fatto per aiutare un figlio così fragile; possiamo poi aggiungere: «Visto che siete stati così bravi finora, vi chiediamo adesso di esserlo ancora di più, di fare un ulteriore sforzo. D’ora in avanti dovrete aiutarlo a imparare ad assumersi le proprie responsabilità, iniziando a delegargli piccoli compiti e lasciandogli risolvere piccoli problemi da solo».
Riorientando in positivo la comunicazione, la carica interventista dei genitori verrà indirizzata verso comportamenti educativi opposti ai precedenti, che condurranno gradatamente alla risoluzione del problema presentato. Questo tipo di manovra è infatti in grado di promuovere la collaborazione anche di soggetti estremamente diffidenti o irrigiditi nelle rispettive posizioni. Come saggiamente espresso da Pascal, a nessuno piace l’idea di vedere male la realtà e di sbagliare, mentre siamo tutti disposti ad accettare di aver visto bene ma di non avere visto tutto. Concludiamo con un monito per il lettore che voglia diventare ottimo persuasore: «Non aver paura, per non sbagliare basta che non ti dimentichi di non usare negazioni…».
Roberta Milanese, autrice di numerose pubblicazioni, è docente nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica di Arezzo e Firenze e in master di specializzazione in Italia e all’estero.
Riferimenti bibliografici
Milanese R., Milanese S. (2015), Il tocco, il rimedio, la parola, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Watzlawick P. (1990), L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, Milano.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 279 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui