In una società come quella occidentale contemporanea, quanto più sentiamo sfuggire la nostra identità, tanto più ci attacchiamo al corpo. Un'identificazione che tuttavia ci crea ansia, considerato il nostro tabù della morte.
«Non sopporterei di vedere il mio corpo cadere, diventare flaccido» racconta Dina. Dopo una vita sedentaria, passati i 30 è diventata una fanatica dell’aerobica. Da alcuni anni è approdata al triathlon, disciplina in cui si allena due volte al giorno e che è diventata la sua religione personale. Ci dà dentro come una professionista, anche se, in circa sei anni di attività, ha disputato solo due gare amatoriali. Gli allenamenti e il lavoro le occupano tutta la giornata.
Non ha tempo da dedicare a nient’altro e gradualmente ha perduto tutte le amicizie che aveva. Però non le basta ancora: sta meditando di chiedere il part-time, ma solo per inserire allenamenti più lunghi. Non ha legami o fidanzati: «Non ho tempo per queste cose» dichiara risoluta. «Ma forse mi andrebbe a genio un ragazzo che mi aiutasse negli allenamenti». L’impressione è che la scelta di una disciplina impegnativa come il triathlon le fornisca una sorta di “alibi sociale” per allenarsi compulsivamente. Credo che quello che le sta a cuore non sia lo sport, ma tacitare con l’allenamento una serie di angosce che riguardano il suo corpo. «Ho terrore di invecchiare» confessa infatti all’improvviso in un empito di sincerità. (...)
Questo articolo è di ed è presente nel numero 263 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui