Nelle loro relazioni abituali, i giovani di oggi tendono a preferire i messaggi sui social media agli incontri di persona.
Una recente ricerca realizzata dalla società americana Common Sense (il testo completo è disponibile qui: https://goo.gl/3UWfHx) ha evidenziato un dato apparentemente incredibile: la generazione degli adolescenti attuali tra i 13 e i 17 anni preferisce comunicare con i propri amici più attraverso i media digitali – in particolare attraverso i messaggi e i social media – che faccia a faccia.
È la prima volta nella storia che una generazione preferisce comunicare con i propri amici senza poterli guardare negli occhi, senza vederne i movimenti del corpo. Ma perché? La risposta è apparentemente paradossale: per i giovani la comunicazione digitale, appunto anche con i propri amici, è meno problematica e più facile da gestire. Per un adulto un’affermazione di questo tipo sembra assurda. Non ha senso comunicare mandandoci dei messaggi, che tra l’altro obbligano a una comunicazione frammentata e rarefatta, quando possiamo incontrare i nostri amici e parlarci liberamente senza i vincoli posti dalla tecnologia.
Non voglio comunicare faccia a faccia
In realtà le motivazioni che spiegano questa scelta sono 3.
La principale è l’impatto che la comunicazione digitale ha sulla capacità di riconoscere e condividere le emozioni altrui. Le neuroscienze hanno sottolineato come la capacità di imparare a riconoscere le emozioni passi attraverso il corpo. Infatti, esistono dei particolari neuroni, i neuroni specchio, che si attivano sia quando il soggetto esperisce delle emozioni sia quando vede il corpo di un altro soggetto esperire le medesime emozioni. Detto in parole più semplici, vedere il corpo di un soggetto che esperisce delle emozioni attiva in noi un processo di rispecchiamento emotivo: attraverso la mediazione dei neuroni specchio esperiamo le stesse emozioni vissute dall’altro.
Tuttavia, nella maggior parte della comunicazione digitale, il corpo dell’altro non è immediatamente visibile o, se è visibile, come nei selfie, è statico. Per questo anche se vedo il corpo dell’altro non sono in grado di capire quello che prova adesso mentre gli scrivo. Molti casi di cyberbullismo nascono proprio dall’incapacità di percepire nell’altro il disagio generato da azioni come l’insulto o la condivisione online di contenuti sensibili.
L’assenza del corpo dell’altro impedisce anche il rispecchiamento emotivo, con effetti significativi sulle relazioni interpersonali. Per esempio, lasciare il proprio partner mandandogli un messaggio con su scritto «Non stiamo più insieme» è molto diverso dal dirgli la stessa cosa guardandolo in faccia. In questo caso, osservare la risposta emotiva dell’ex ci costringe a condividere la sua sofferenza, spingendoci a moderare le parole e i gesti. Al contrario, su WhatsApp o sui social, l’altro e le sue emozioni non sono immediatamente visibili e non ci impegnano emotivamente. Questo spiega perché molti adolescenti preferiscano confrontarsi solo attraverso i media digitali: non devono pagare il costo emotivo degli effetti che le loro azioni hanno sugli altri.
La seconda motivazione è legata al concetto di amicizia: gli “amici digitali” non sono necessariamente amici nel senso che alla parola diamo noi adulti. Oggi un adolescente medio sui social ha centinaia, e in alcuni casi migliaia, di amici. Ovviamente non possono essere “amici veri” a cui confidare aspirazioni e speranze o a cui chiedere supporto in caso di bisogno. Sono piuttosto dei “conoscenti”, persone con cui qualche volta abbiamo avuto un contatto o una relazione. In alcuni casi non c’è nemmeno mai stato un contatto diretto, ma solo la richiesta di amicizia trasmessa mediante i social.
Per questo la comunicazione con gli “amici/conoscenti” è diversa da quella spontanea e sincera che avremmo con degli amici veri. È infatti strategica e studiata: ho bisogno di pensare attentamente a ciò che scrivo e ai contenuti che condivido perché tutto quello che entra nel mondo digitale non scompare più e un giorno i miei “amici/conoscenti” potrebbero usarlo contro di me.
L’ultima motivazione è che riuscire a trovare e/o a costruire delle relazioni con “amici veri” nelle comunità – la scuola, il bar, la piazza, l’oratorio – che hanno caratterizzato l’adolescenza degli attuali adulti è oggi molto più difficile. Nello scorso numero di questa rivista abbiamo visto come le relazioni sociali siano sempre nate entro i confini delle comunità. Tuttavia i media digitali rompono i confini, riducendo il potenziale sociale dei luoghi d’incontro tradizionali. Per esempio, se in un locale sono seduto di fianco a un amico che mi sembra noioso, invece di perdere tempo a cercare di conoscerlo meglio, posso prendere lo smartphone e guardare cosa succede sui miei social preferiti. Però, senza dedicare del tempo alla conoscenza di coloro che frequentiamo nelle comunità, le relazioni significative non si riescono a creare.
E i social media non riescono a compensare quanto viene perso nelle comunità fisiche. Infatti, non sono delle vere comunità, perché non hanno confini che impegnino gli utenti a collaborare al loro interno. Anzi, come ho raccontato di recente nel mio volume sulle fake news (www.capirelefakenews.eu), i social media fanno di tutto per eliminare i vincoli e il confronto a cui ci obbliga il pensiero divergente. Infatti, i contenuti che vediamo sui nostri profili sono scelti in modo tale da essere il più possibile convergenti con quanto i social sanno e pensano di noi. Perché? Per profitto.
Cerco di essere più chiaro. Come i silos fisici sono dei contenitori sigillati destinati a conservare derrate alimentari come grano o foraggi, i social creano dei silos digitali, gruppi di utenti caratterizzati da caratteristiche sociali simili, da vendere agli inserzionisti. Un elemento critico dei silos è la capacità di conservazione delle derrate. E questo vale anche per i silos sociali: vengono creati per fare in modo che gli utenti conservino le loro idee, minimizzando il confronto con visioni alternative in grado di “contaminarle”.
In altre parole, la capacità dei social media di comprendere i propri utenti porta a meccanismi invisibili di selezione dei contenuti, che tendono a escludere ciò che non corrisponde esattamente ai nostri gusti. Ma questo impedisce il confronto e lo spirito critico. Il risultato sono vere e proprie “casse di risonanza” (echo chambers) in cui gli utenti dei silos si rimbalzano informazioni e visioni simili facendosi eco l’un l’altro. E se per caso una voce divergente riesce a entrare nella soglia di attenzione, spesso genera critiche violente e crudeli che allontanano definitivamente il malcapitato.
Giuseppe Riva è ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi ultimi libri, Fake news. Vivere e sopravvivere in un mondo post-verità (Il Mulino, 2018).
Questo articolo è di ed è presente nel numero 272 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui