Ok l’autocritica, ma poi…
Oltre ai consueti fattori di stress, in un’organizzazione può esserci del malessere anche per un senso di colpa. Magari non sempre giustificato
Come se non ci fossero abbastanza fattori di stress lavorativo, eccone uno in più di cui spesso non ci si rende conto: il senso di colpa. Proviamo a fissare l’attenzione sui sentimenti che derivano dal ripensare a eventi o situazioni di lavoro in cui una persona avrebbe desiderato comportarsi diversamente da come ha fatto o ritiene di non aver fatto tutto ciò che era possibile per “stare al passo” con i propri valori e immagine di sé. Facciamo qualche esempio.
Una lavoratrice, pensando al suo doppio ruolo, può sentire di dover fare di più per gestire al meglio la sua famiglia, avere il dubbio di deludere le aspettative, percepire di trasgredire il suo ruolo di madre criticandosi per essere assorbita dagli impegni di lavoro.
In un contesto molto competitivo che impone di dedicare più tempo del necessario a un determinato compito e di cercare la perfezione per essere apprezzati, un lavoratore può sentirsi in difetto, pensare di danneggiare i colleghi e la sua organizzazione e di essere un incapace, mettendo in crisi il proprio senso di responsabilità per il compito assegnatogli.
Chi mantiene il suo posto di lavoro dopo una fase di ristrutturazione aziendale che ha prodotto tanti licenziamenti può sentirsi non solo un privilegiato, ma quasi responsabile delle sfortune altrui. Così la “sindrome del sopravvissuto” (documentata a seguito di eventi catastrofici o ridimensionamenti organizzativi) tende a provocare sentimenti di paura per il futuro, di ansia, depressione e rimorso che sono ingiustificati per l’obiettiva assenza di responsabilità della persona, ma che ciò nonostante inficiano il sentimento di gioia per lo scampato pericolo.
Sono tre situazioni abbastanza comuni che innescano sentimenti di colpa, ovvero emozioni autocritiche che implicano, da un lato, una buona capacità di riflessione su di sé, ma, dall’altro, un’autovalutazione negativa rispetto a mancanze e trasgressioni vere o presunte delle proprie convinzioni e standard morali.
Si tratta di emozioni “normali” per il mantenimento delle relazioni interpersonali sul lavoro perché agiscono come importanti regolatori sociali, incoraggiando un equilibrio tra desideri dell’individuo e diritti e bisogni degli altri. Esse sono vissute per lo più privatamente e svolgono sia una funzione informativa sul nostro rapporto con le persone e l’ambiente di lavoro (una sorta di campanello d’allarme circa errori relazionali e fallimenti dei nostri obiettivi) sia una funzione motivazionale innescando tendenze all’azione autodifensiva o riparativa, ma con esiti che possono essere adattivi o disadattivi.
Il senso di colpa disadattivo implica di percepirsi non come lavoratore che ha commesso uno sbaglio, ma come “persona cattiva”, colpevole anche per cose immaginate o al di fuori del proprio controllo. È un sentimento di autocritica sproporzionata, fuori luogo e spesso irrazionale. Se non è autoregolato, ha un impatto negativo sul benessere, con sintomi di disagio come il rimuginio, il senso di inadeguatezza, l’autosvalutazione, l’autopunizione, addirittura con effetti psicosomatici (disturbi del sonno, tensione muscolare, cefalee, disturbi gastrici ecc.).
Anche il senso di colpa adattivo o pro-sociale fa sentire male una persona, ma tende ad essere utile, in quanto l’aiuta a comprendere i suoi errori e il suo grado di responsabilità nelle trasgressioni ispirandola a chiedere scusa, a riparare il danno, a migliorare il proprio comportamento, oltre che a mettersi nella condizione di perdonarsi accettando i propri difetti e andando avanti. Si può dire che il senso di colpa disadattivo si impunta sul passato, mentre quello adattivo è più costruttivo, focalizzandosi sul miglioramento e sul fare le cose giuste in futuro.
Si sono osservate forti differenze individuali nel reagire a proprie trasgressioni ed errori sul lavoro. I dirigenti con punteggi elevati nella propensione al senso di colpa tendono a prendere meno decisioni aziendali non etiche e commettono meno azioni disoneste nelle relazioni di lavoro (e al di fuori del lavoro) e nelle decisioni economiche. Inoltre, i dipendenti altamente inclini al senso di colpa: a) si impegnano e lavorano di più e questo sforzo è associato a un aumento del commitment affettivo con la propria organizzazione; b) attuano meno comportamenti controproducenti, sono meno assenteisti e più altruisti; c) pur essendo tra le persone più etiche, comprensive e laboriose con cui lavorare, sono più reticenti a entrare in nuovi gruppi di lavoro, in quanto tendono a pensare di non essere all’altezza e di influenzare negativamente la riuscita del gruppo stesso.
Come si possono gestire i sensi di colpa anche nei contesti lavorativi? Il primo passo è fare un test di realtà, capire cioè quali sono i fattori scatenanti del senso di colpa e quanto sono reali, fondati su fatti od omissioni, oppure solo immaginati o dovuti a situazioni lavorative al di fuori del controllo della persona. Poi non bisogna drammatizzare, da un lato tollerando la possibilità di sbagliare e dall’altro riconoscendo la necessità di porre rimedio velocemente alle conseguenze delle proprie azioni difettose. Ciò significa, per esempio, non vergognarsi di fare ammenda, riadattare i propri standard di comportamento perfezionisti, cogliere gli stimoli dell’insoddisfazione attuale per imparare dagli errori e migliorare le proprie relazioni con gli altri.
Guido Sarchielli è professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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job satisfaction and absenteeism: The role of guilt proneness», Journal of Applied Psychology, 102 (6), 982-992.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui