Oltre lo sfogo: la regolazione emotiva
Saper verbalizzare le proprie emozioni è un modo per controllarle. Una virtù che andrebbe appresa fin da bambini.
È successo a tutti di vedere bambini di 4 o 5 anni (ma anche più grandi) in preda ad accessi di rabbia quando qualcosa che desiderano parecchio viene loro negato, oppure quando trovano un ostacolo e non riescono a fare qualcosa cui tengono molto, per esempio un disegno o una costruzione. Alcuni bambini reagiscono a questa frustrazione con pianti e urla, si buttano per terra, gettano gli oggetti, scalciano, picchiano l’adulto che sta tentando di calmarli. Altri bambini della stessa età, nella medesima situazione, non si abbandonano a simili manifestazioni psicomotorie ma esprimono la loro irritazione in modo più contenuto sul piano fisico, ricorrendo soprattutto alla parola per esprimere i sentimenti negativi che stanno provando.
Tanti adulti sono convinti che non si debba intervenire quando i bambini reagiscono esternando le proprie emozioni in azioni e manifestazioni fisiche, nella convinzione che sia meglio che “si sfoghino” in quel modo anziché ricorrere a forme più contenute, quali quelle verbali. Lo sfogo motorio delle proprie emozioni sarebbe infatti utile, e anzi necessario, per impedire danni psicologici maggiori: in concreto, per evitare che il bambino cresca represso e complessato, con il corollario che possa manifestare in seguito le sue emozioni in modo ancora più pericoloso e distruttivo.
Convinzioni del genere sono ancora assai diffuse, benché siano basate su una concezione “idraulica” (detta anche, in modo più colloquiale, “della pentola a pressione”) del funzionamento psichico, ed emotivo in particolare, mutuata dalla fisica ottocentesca. Secondo tale visione l’energia emotiva si accumula e, se non trova espressione saltuaria in sfoghi motori, finisce per tracimare con danni ancora maggiori. La psicologia e le neuroscienze già dal secolo scorso ci hanno insegnato, al contrario, che un’emozione è diversa a seconda delle modalità tramite le quali si esprime. Ciò significa che non c’è un quantum predeterminato di energia emotiva che, raggiunto un dato livello critico, si deve obbligatoriamente scaricare, e significa che l’esternazione motoria, viceversa, comporta un aumento progressivo dell’attivazione emotiva, sempre più automatico e sempre meno controllabile. Ne conseguono la fissazione progressiva e l’apprendimento di moduli comportamentali che non sono utili né a livello individuale né sul piano relazionale: buttare gli oggetti fa stare peggio e non aiuta certo a risolvere il compito; inoltre gli altri – non solo gli adulti, ma per primi proprio i bambini – tendono a evitare chi si comporta in questo modo.
In concreto, ciò significa che è diverso, non solo a livello psicologico ma anche a livello neurofisiologico, esprimere la rabbia urlando, scalciando e picchiando, oppure attraverso le parole. Nel primo caso, l’emozione è molto più forte e travolgente, in un crescendo di attivazione fisica e psicologica ben più marcato e sempre più difficilmente regolabile da parte dell’individuo; egli sarà sempre più in balia della propria emozione, la quale diventerà soverchiante. Questa esperienza lascerà, di conseguenza, una traccia forte e persistente, e si fisseranno nei nostri circuiti neuronali delle abitudini di comportamento che finiranno per scattare in futuro sempre più in modo automatico di fronte a determinati stimoli.
Verrà così a mancare sempre più quella capacità di regolazione emotiva che è oggi riconosciuta dagli psicologi come una delle competenze essenziali sia per un buon equilibrio personale sia per intessere buone relazioni sociali. Esprimere l’emozione per mezzo della parola non impedisce la manifestazione dell’emozione, ma la fa vivere in modo diverso, con minore attivazione fisiologica: l’emozione viene infatti, per così dire, messa fuori di sé, e può quindi essere guardata e valutata con maggiore distacco. Inoltre, in questo modo, essa diventa condivisibile. La rappresentazione simbolica attraverso la parola permette insomma di guardare le situazioni, e le emozioni che suscitano, dall’esterno, trovando insieme modi per affrontarle e gestirle, come realtà padroneggiabili. Anche la rappresentazione simbolica tramite il disegno, che è complementare a quella tramite la parola, svolge la medesima funzione.
L’alternativa, quindi, non è tra l’espressione fisica e motoria dell’emozione e la sua repressione. Non si tratta di far finta che il bambino non provi alcunché – che non senta rabbia, tristezza, paura, gelosia – negandogli la possibilità di esprimere ciò che sta dolorosamente vivendo. Si tratta di insegnargli a esprimere queste emozioni soprattutto attraverso la parola, che è lo strumento principe della riflessione su di sé e della coscienza: ragioni per le quali la parola è stata definita il “microcosmo della coscienza”. Il bambino deve sentire, grazie alla disponibilità di ascolto e di condivisione dell’adulto, che gli è consentito dire quello che sta provando; in tal modo imparerà gradualmente a dare un nome all’oscuro disagio fisico che prova, senza reprimerlo ma anche senza abbandonarsi ad esso. Per questo, riconoscimento delle proprie emozioni e autoregolazione vanno insieme, poiché solo la comprensione, per quanto graduale, dell’emozione che viviamo permette di regolarla sempre di più. Il vissuto della capacità di regolare l’emozione fa poi sentire chi la vive, e non solo il bambino, padrone di sé stesso e di conseguenza rafforza la fiducia in sé e l’autostima.
Da quanto si è detto, risulta chiaro che l’educazione a esprimere le emozioni in modo simbolico e non fisico, in primis attraverso il linguaggio, non può aspettare l’adolescenza, ma dev’essere attuata fin da quando il bambino comincia a parlare, sapendo che si tratta di un processo lento e graduale. Non pochi educatori, primi fra tutti i genitori, rimandano invece all’adolescenza la richiesta a ragazzi e ragazze di esprimere ciò che li agita, non più in modo fisico: «Ormai sei grande e devi saperti controllare». Le delusioni sono in genere cocenti, perché a quell’età il ragazzo e la ragazza avranno ormai imparato a utilizzare modalità fisiche, e saranno quindi impreparati ad affrontare con altri strumenti le tempeste emotive dell’età, incapaci sia di dare un nome a ciò che vivono sia di sentirsi in grado di fronteggiarlo. Rischiano così di cadere in un giro vizioso di emozioni negative: dalla rabbia al senso di fallimento per come le hanno espresse e per come ne sono stati travolti.
Silvia Bonino è professore onorario di Psicologia dello sviluppo nell’Università di Torino. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo Amori molesti (Laterza, 2015).
Questo articolo è di ed è presente nel numero 278 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui