Psicologia e professioni limitrofe
Il moltiplicarsi di coach, counselor, motivatori e altre professionalità contigue – ma non sovrapponibili – all’ambito psicologico rivela molto sulla crescita di un bisogno, ma anche sull’evoluzione interna alla psicologia stessa. Che sta diventando sempre più pop
Parlare delle nuove professionalità nel campo della psicologia oggi non è facile: per questo ho deciso di esporre la questione in modo generale, partendo da un punto di vista particolare, quello del mio podcast. Una trasmissione web che da oltre 10 anni cerca di divulgare la psicologia, attraverso la quale ogni settimana ho la fortuna di interagire con migliaia di persone. In questi anni ho visto nascere e morire diverse mode psicologiche, ho osservato la parabola ascendente del coaching e di altre professioni limitrofe alla nostra. Nelle prossime righe cercherò di raccontare ciò a cui ho assistito e come ciò stia cambiando il mondo della psicologia: ci tengo a sottolineare che queste sono mie opinioni che andrebbero indagate in modo approfondito.
UNA DOMANDA IN CRESCITA
Lo stato attuale della psicologia e delle sue applicazioni professionali è davvero molto frastagliato; negli ultimi anni ci sono stati cambiamenti radicali che hanno modificato profondamente l’andamento della psicologia (o delle psicologie) e la direzione dei professionisti in tale ambito. Da un lato la rivoluzione digitale che ha “disintermediato” qualsiasi tipo di attività, dall’altro lato la maturità di chi ha investito il proprio tempo nella formazione psicologica degli ultimi anni. Iniziamo dalle cattive notizie: la maggior parte degli psicologi iscritti all’albo e all’ENPAP svolgono la libera professione. Questo significa che non esistono né istituzioni né aziende abbastanza grandi da assorbire questa grande fetta del mercato: verrebbe da pensare che non ci sia bisogno di psicologia, tecnicamente sembrerebbe che non ci sia domanda. E invece, in modo paradossale, sembra proprio che la richiesta di psicologia, praticamente in ogni ambito della vita umana, sia sempre più alta. Non è solo un effetto della pandemia, e qui la storia si intreccia con un aspetto che non possiamo definire completamente negativo: il fatto che la gente stia diventando sempre più consapevole del valore aggiunto di apprendere come gestire al meglio la propria mente. Ma purtroppo tale accresciuta consapevolezza, evidente in ogni discorso pubblico da parte di politici ed esperti di qualsiasi ambito, ci dice che la domanda è alta ma non sono gli psicologi ad assorbirla. Basta ascoltare con attenzione un qualsiasi discorso pubblico che vada leggermente in profondità per rendersi conto che molte richieste sono dirette al mondo della psicologia.
Entrando in una qualsiasi azienda rilevante ci si rende immediatamente conto che le parole che circolano maggiormente suonano così: soft skills, competenze trasversali, capacità empatiche, gestione delle emozioni, gestione dello stress, team building, ecc.
Noi psicologi ne parliamo da quasi più di un secolo e sappiamo quanto siano indispensabili le nostre competenze, tuttavia oggi sembra quasi brutto affidare ad uno psicologo il compito di occuparsi di tali faccende. Nonostante la domanda sia in continua crescita, la gente continua a pensare che lo psicologo sia in realtà “lo psicoanalista”: una persona che si occupa di clinica, cioè di malattie, e che se ne sta seduto su una poltrona alle spalle dei pazienti che per anni e anni dovranno andarci diverse ore alla settimana recuperando una vicinanza alla mitologia greca. Ma in realtà lo psicologo e la psicologia fanno molte altre cose, non solo nell’aspetto clinico (spesso molto diverso da quello psicoanalitico) ma anche nel lavoro, nei servizi sociali, nella crescita personale ecc. A nessuno viene in mente che siano stati proprio gli psicologi a creare quelle parolacce anglosassoni che ho riportato poco fa e che si sentono così spesso in azienda e sulla bocca di trainer, formatori e coach. Così basta farsi un giro sul web per notare come in eventi internazionali (il Ted è probabilmente uno dei più rappresentativi) a parlare di quelle cose ci siano raramente gli psicologi.
In una sorta di «fallacia del talento» sottolineata nel recente libro Grinta di Angela Duckworth, le persone tendono ad attribuire maggiore valore a una certa competenza se questa viene messa in atto da un non addetto ai lavori. In pratica se è uno psicologo a parlare di motivazione è normale che lui «sappia di cosa sta parlando», ma se invece è una qualsiasi altra figura: «ma guarda che bravo, non è psicologo eppure parla così bene di motivazione». Quasi che sia una colpa essere degli esperti preparati!
SEMPLIFICAZIONE DELLE PRATICHE E PSICOLOGIA INGENUA
Questa stessa tendenza, unita all’idea che gli psicologi e gli psicoterapeuti si occupino solo di “aggiustare le persone” e non di migliorarle, ha fatto sì che la gente preferisca recarsi da coach o counselor. Cioè da figure che utilizzano strumenti della psicologia ma che, dato che non sono «quelli che ti vedono come un matto», rappresentano un luogo ancora più sicuro. Non è solo la «fallacia del talento» o il fatto che la gente ci etichetti come “i medici dei deboli” il problema, ma è qualcosa di ancora più particolare, legato ad un fenomeno ancora più paradossale: se cinquant’anni fa una persona doveva imparare a usare un computer, doveva sudare le proverbiali sette camicie. Anche solo per lanciare un semplice videogioco su un personal computer erano necessarie alcune basi di programmazione, per non parlare del semplice fatto di accendere e spegnere la macchina. Via via che la tecnologia migliora le interfacce diventano sempre più semplici e user friendly, affinché chiunque possa utilizzarle al meglio e in modo sicuro. Questo vale per tutto: mentre un tempo calcolare alcuni parametri fisiologici era roba da laboratorio specialistico medico, oggi è quasi possibile farlo attraverso il nostro smartwatch. È una direzione comune dell’avanzamento tecnologico in ogni ambito umano: gli scribi dell’antico Egitto erano pochi e particolarmente abili nella scrittura, oggi la maggior parte della popolazione mondiale potrebbe facilmente sostituire tutti gli scribi di quel tempo. La stessa identica cosa è accaduta e sta accadendo alla psicologia ed in particolar modo alla prassi psicologica. Mentre un tempo per somministrare e validare un test servivano giorni e un’équipe di esperti, oggi è possibile farlo in autonomia attraverso un semplice software, che tra l’altro funziona spesso meglio di molti addetti ai lavori. Questa crescente semplificazione della pratica psicologica e dei suoi strumenti ha aumentato un’altra distorsione cognitiva, quella della psicologia ingenua. Ogni individuo possiede una naturale “teoria della mente” senza la quale non riuscirebbe ad interagire con nessun’altra persona. Questo significa che ognuno di noi costruisce una propria teoria di come funziona la mente propria e altrui basandosi sulla propria esperienza soggettiva. Per esempio: noto che il mio collega tende sempre ad arrivare in anticipo e immagino che sia una persona ansiosa. La nostra mente non può fare a meno di attribuire significato a ciò che vede, e uno dei significati più importanti che costruisce è proprio legato al comportamento altrui. Così, anche se non ci troviamo più all’età della pietra, ogni volta che incrociamo lo sguardo di una persona, magari in un luogo poco sicuro, la prima cosa che ci chiediamo è se abbia buone o cattive intenzioni. Lo facciamo di continuo e non ci basiamo solo su ciò che vediamo, ma anche sulle informazioni che acquisiamo durante l’arco della nostra vita. E dato che oggi la psicologia è sulla bocca di molti, basta ascoltare un esperto online per alimentare tale tendenza, magari fino al punto di credere che quelle nostre ipotesi siano fondate e non ingenue.
POPOLARIZZAZIONE DELLA PSICOLOGIA
Non tutto il male viene per nuocere: esattamente tutto ciò che ho descritto in negativo sullo stato della psicologia non è necessariamente tale. Il fatto che stia crescendo la domanda di psicologia, e che questa stia diventando indispensabile in ogni ambito della vita umana, sono dati molto interessanti. Il fatto che la gente abbia a disposizione strumenti apparentemente semplici per migliorare sé stessa, anche se non proposti direttamente da colleghi, è un ennesimo dato di rilievo. Significa che la nostra disciplina, in tutta la sua complessità e bellezza, sta uscendo dal recinto dorato delle accademie e degli studi specialistici, diventando sempre più “pop” nel senso di popolare. Ci tengo a sottolineare che tale processo non è avvenuto solo nella psicologia ma in tutte le scienze: basta farsi un giro su YouTube per scoprire che esistono “influencer specialistici” (veri professionisti) che parlano di chimica, fisica, astronomia ecc. E molti di essi hanno centinaia di migliaia di follower. Sicuramente anche in quel caso ci saranno persone convinte di poter prendere quelle informazioni e improvvisarsi: nutrizionisti, virologi, medici ecc. Dopotutto sappiamo che basta avere un’infarinatura per sentire di essere più competenti della media delle persone, basta pensare all’effetto Dunning-Kruger o al Wobegon. Personalmente non credo che sia un male la popolarizzazione della cultura; certo è necessario stare attenti perché come ci dicevano già molti pensatori del passato: se una cosa è troppo orizzontale significa che manca di verticalità. Ma non è questo in fondo lo scopo finale della cultura? Dare strumenti alla popolazione affinché possa vivere nel modo migliore possibile? La cultura psicologica sta diventando pop portando con sé aspetti sia positivi che negativi: attualmente purtroppo sta vincendo la seconda fazione rispetto alla prima, ed è per questo che noi psicologi dobbiamo iniziare a interagire con questi mondi paralleli. Quando vediamo il coach di turno che scrive cose senza né capo né coda dovremmo essere noi i primi ad intervenire, ma non con l’intento di denigrare il suo operato o la sua scuola di pensiero, bensì semplicemente per migliorare la divulgazione di certe informazioni. Personalmente lo faccio spesso e l’effetto, quando riesco ad evitare i giudizi precipitosi, è sempre ottimo. Il professionista di turno è ben lieto di ascoltare chi ha davvero le mani in pasta e chi dovrebbe essere il “cultore” di quella conoscenza (tra molte virgolette visto che la cultura non è di nessuno ma è di tutti). Se gli psicologi si allontanano da quegli ambienti etichettandoli a priori come sbagliati non solo rischiano di uscire da un certo tipo di conversazioni, e come sappiamo una delle nostre abilità più spiccate dovrebbe essere proprio l’ascolto, ma rischiamo di perdere l’occasione per effettuare una buona psico-educazione. Perché di certo ci saranno furbetti attratti dalla bassa soglia d’ingresso di queste nuove professioni, ma ci sono anche bravi e competenti professionisti che magari non hanno la più pallida idea dell’interconnessione tra queste materie. Ho conosciuto personalmente coach sportivi che sono diventati tali perché hanno una lunga esperienza sul campo, poi hanno seguito vari corsi e hanno iniziato la professione: quando spiegavo loro che quella tecnica che loro chiamavano con un nome bizzarro era conosciuta dagli psicologi da oltre cento anni come “desensibilizzione sistematica” strabuzzavano gli occhi. E il mio non era un goffo tentativo di far afferire ogni cosa alla psicologia, perché come sappiamo potremmo farlo con qualsiasi materia e tornare sempre alla filosofia. Era solo un modo per mostrare un pezzetto di storia a un giovane professionista entusiasta del mondo della psicologia. Insomma, ogni volta che mi confronto con un non psicologo che si muove nel nostro ambito, la risposta è quasi sempre la stessa: «cavolo, ma quante cose ci sono da conoscere in questo campo, io non lo sapevo». La cosa che potrebbe far storcere il naso a qualche collega più ortodosso è in realtà normalissima: tutti noi usiamo ogni giorno alcune tecnologie senza conoscerne minimamente la storia.
A quale scopo dovrebbe essere utile divulgare questa idea? Per quanto mi riguarda è quello di far capire a chi utilizza le nostre “tecnologie” che l’unico modo per far sì che esse possano migliorare, che vi possa essere buona ricerca, è che la gente inizi a riconoscerne l’importanza a livello sociale.
UN’AUSPICABILE COLLABORAZIONE
Fortunatamente sento una potente brezza di cambiamento, soprattutto per le professioni limitrofe: sempre più coach stanno comprendendo che gli strumenti che utilizzano arrivano dalla psicologia e invece di sputare nel piatto dove mangiano (cosa comune fino a pochi anni fa) citano gli studi e inviano le persone più problematiche agli psicoterapeuti. Questo è ciò che dovrebbe accadere, un’apertura di mercato che non dovrebbe creare competizione ma collaborazione. Dove il non psicologo utilizza i propri strumenti consapevole delle loro provenienza e consapevole dei propri limiti professionali. Dove anche noi psicologi ci accorgiamo che a volte inviare un paziente che desidera performare meglio nel proprio sport a un coach sportivo non è una cattiva idea. La psicologia sta diventando “pop” ma non nel senso psicoanalitico che grazie a Woody Allen è entrato a far parte dell’immaginario collettivo: nel senso che sta diventando “popolare”, nelle mani non solo degli addetti ai lavori ma di chiunque abbia la pazienza e la dedizione di studiarla e approfondirla. Non credo che tale tendenza si possa arginare, credo piuttosto che chi si occupa seriamente di queste materie dovrebbe iniziare a far sentire la propria voce. Riviste come quella che stai leggendo hanno afferrato questo messaggio invitando diverse figure tra le proprie pagine, rendendo i propri messaggi comprensibili al grande pubblico.
Immagino che l’idea di una “psicologia pop”, nelle mani di chiunque, non piaccia a tutte le persone, ma questa è una direzione da cui non possiamo tornare indietro, è la direzione di ogni materia che sopravviva a questo periodo di “infodemia disintermediata”. La recente pandemia con tutti i suoi problemi mediatici ci ha mostrato molto chiaramente cosa significa avere una popolazione poco informata su certi temi. Questa non è una questione solo psicologica ma vale per ogni altro aspetto dello scibile umano: dobbiamo migliorare il nostro modo di divulgare la ricerca, in modo che sia accattivante ma senza che perda il suo rigore.
Non servono meno professioni limitrofe, ma servono più psicologi bravi a comunicare e gestire le informazioni che riguardano la psicologia e le sue applicazioni.
VADEMECUM PER SCEGLIERE UN PROFESSIONISTA NON PSICOLOGO
1. Se parla male della psicologia e degli psicologi: se il professionista che hai scelto o che segui online parla male della psicologia allora significa che non ha compreso da dove derivano gli strumenti che utilizzerà. Il che non significa che li userà male ma di certo non è un buon segno di qualità della formazione ricevuta.
2. Se non ha una preparazione specifica è bene basarsi sulla sua esperienza: un coach che si dichiari pronto ad aiutarci a gestire il nostro patrimonio deve avere un’esperienza in ambito finanziario. Un professionista che vuole massimizzare le nostre prestazioni sportive deve avere esperienza reale del mondo dello sport: atleta o ex atleta, allenatore, ecc. Il certificato da “coach sportivo”, per quanto mi riguarda, non basta.
3. La psicologia come fondamento: chi si propone come professionista ma non ha alcuno studio (comprovato o meno) di psicologia alle spalle dovrebbe destare sospetto. Questo non significa che debba essere laureato in psicologia ma che di certo, se si dichiara «esperto di processi psicologici» deve per lo meno aver studiato e approfondito tali tematiche. Per esempio: un business coach che non conosca il lavoro di Kahneman o un esperto di comunicazione e di non verbale che non sappia da dove deriva il lavoro di Ekman (qualche mese fa ho dovuto spiegare pubblicamente a una nota coach che Ekman è il padre di quelle che lei definiva “micro-espressioni”. Non hai idea di quanto ci sia rimasta male quando ho semplicemente detto: «Sì, ma Ekman è uno psicologo»).
4. Psicologia con i piedi per terra: il codice deontologico degli psicologi afferma che essi si impegnano ad utilizzare solo strumenti derivanti dalla ricerca. Penso che questo dettame vada generalizzato a ogni attività professionale che abbia a che fare con la psicologia. Ci sono fin troppe credenze superstiziose nella nostra bella Italia, ci son fin troppi maghi, fattucchieri e cartomanti che creano confusione. Se il tuo coach ti fa i tarocchi, scappa! Non perché non si possano usare in chiave psicologica ma perché è molto facile finire nelle mani di persone incompetenti che magari “ci credono”.
5. Emozioni e problematiche: spesso al di fuori dello studio dello psicologo invece di usare parole riferite alla clinica come “ansia” o “depressione” alcuni usano le emozioni di base come: “agitazione” e “tristezza”. Di certo possiamo provare qualsiasi emozione senza che rientri in ambito clinico ma ho visto più volte usare le emozioni per promuovere essenzialmente la stessa cosa che fanno i miei colleghi psicoterapeuti.
Se hai un problema di ansia conclamato e qualcuno ti promette di guarire la tua “agitazione” o “paura”, allora è molto probabile che quella persona non solo stia usando termini fantoccio (depotenzia le parole per non far sembrare la cosa “clinica”), ma non conosce come funziona il mondo delle emozioni. Insomma, quando solitamente ti dicono: «ma io mi occupo di emozioni, mica di psicologia» è il momento giusto per scappare.
Gennaro Romagnoli, psicologo e psicoterapeuta, è autore di “Psinel”, il podcast di psicologia e crescita personale più ascoltato in Italia. Si occupa di divulgazione online dal 2007.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 287 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui