Roberto Escobar

Recensione "First Man - Il primo uomo".

Un film di Damien Chazelle

Il “primo uomo” del titolo è Neil Armstrong, che nel 1969 andò sulla luna. Novello Ulisse alle prese con l’oltrepassamento di ogni confine conosciuto.

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«That’s one small step for a man, one giant leap for mankind»: “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un balzo da gigante per il genere umano”.
Così suonava la celeberrima frase pronunciata da Neil Armstrong appena sceso dal modulo dell’Apollo XI. In quelle sue parole, oggi storiche, c’era l’orgoglio di una nazione, insieme con l’emozione di 450 milioni di telespettatori in tutto il mondo. Eppure non gliele si sente dire in First Man – Il primo uomo (USA, 2018, 141’), racconto di otto anni nella vita dell’uomo che alle ore 20:17:39 UTC del 20 luglio 1969 conquistò la luna.

Scritto da Josh Singer e da James R. Hansen, autore dell’unica biografia autorizzata di Armstrong, il film di Damien Chazelle non “commemora” l’allunaggio, come imparammo a chiamarlo ormai mezzo secolo fa. Ne racconta le complessità umane, ne ricorda le difficoltà tecniche, ma non celebra quelle e non enfatizza queste. Piuttosto, si fa e ci fa una domanda, per quanto la tenga saggiamente implicita: che cosa ha indotto alcuni uomini a tentare un viaggio al di là di ogni confine conosciuto? Un confine è una linea immaginaria che separa il noto dall’ignoto, la sicurezza dalla paura. Che cosa può spingere a violarla, quella linea, accettando il rischio molto alto di morire? Forse solo il desiderio eroico e paradossale di abbandonare il noto per l’ignoto, la sicurezza per la paura. Moderni Cristofori Colombi, Armstrong e i suoi due compagni Buzz Aldrin e Michael Collins si erano assunti il compito di raggiungere e “scoprire” un mondo nuovissimo. Con l’Apollo XI ci erano riusciti. A questo forse pensava Armstrong mentre pronunciava la frase su cui a lungo aveva meditato. E a questo certo pensavano i 450 milioni di uomini e donne che ad Est e ad Ovest, per una notte non più nemici, tutti insieme vedevano la Storia in atto.

Quello che allora sembrava l’ultimo tra i confini – ma non c’è confine che non ne nasconda un altro –, quel confine era stato superato, e l’umanità aveva compiuto un enorme passo in avanti («Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere né confini» aveva detto un anno prima Jurij Gagarin, in orbita sulla sua Vostok 1). Quel fatto, anzi quell’avventura ormai antica, appartiene al nostro immaginario, forte e indelebile come forti e indelebili sono i miti. Ma agli autori di First Man non interessa il mito. Non c’è retorica nel loro racconto, così come non ce n’è nel loro protagonista. Al contrario, la regia e la sceneggiatura ne mettono più volte in primo piano gli errori, le chiusure, i silenzi, le inquietudini. Armstrong non era il pilota perfetto e l’eroe freddo di cui per lo più si narra. Ce ne avverte la prima sequenza del film, mostrandone la “caduta” ai comandi dell’X15, un aereo-razzo sperimentale che egli aveva portato fino a 68 km di altezza e di cui, anche per un proprio errore, aveva perso il controllo. Era il 1962, sette anni prima dell’Apollo XI. In quel precipitare violento e vertiginoso la regia e il montaggio coinvolgono gli occhi e le ansie degli spettatori, anticipando il senso della precarietà di quanto accadrà.

Quando poi inizia l’avventura che porterà fin sulla luna, la macchina da presa si sofferma su viti e bulloni degli Apollo e dei loro moduli, e su strumenti e comandi la cui tecnologia oggi ci fa sorridere. Niente è davvero affidabile, niente è certo nella gara per la conquista dello spazio tra USA e URSS, impegnati a dividersi il mondo, a parte la decisione e il coraggio di alcuni uomini tentati dall’ignoto. O, se si preferisce, mossi dalla speranza di un luogo che ancora non c’è, e dotato quindi del fascino assoluto dell’utopia. Ma di che cosa si nutrono questo fascino e quella speranza? Da dove nasce in alcuni la capacità, o forse la necessità, di mettervi in gioco la vita? Nello stesso 1962, così racconta la sceneggiatura, Armstrong ha visto soffrire la sua piccola Karen (Lucy Stafford), di appena 2 anni. A lei, ammalata di cancro, aveva promesso la luna, come può prometterla un padre a una figlia di cui attende la fine: disperatamente e inutilmente. Poi di Karen non gli sono rimasti che la memoria e un piccolo braccialetto a grani, con le lettere del nome incise grano per grano.

Questo sembra spingere l’eroe, anzi il non eroe, verso l’al di là del cielo: non solo l’utopia, il sogno del luogo che ancora non c’è, ma anche e forse soprattutto la mancanza, il vuoto crudele lasciato da una piccola vita che non c’è più. Li soffre tanto, il sogno e la mancanza, da non avvertire il pericolo per la propria vita, e ancor meno l’ansia a cui espone la moglie Janet (Claire Foy) e gli altri due figli. Chiuso in sé stesso, soltanto a fatica, quasi obbligato da Janet, riesce a dire ai suoi Rick e Mark che sta per salire sull’Apollo e che loro potrebbero non rivederlo più. Rivedremo invece quel braccialetto minuscolo, qualche minuto dopo il passo da gigante per l’umanità. Il “primo uomo” lo ha portato con sé, irrilevante e tenero. Ed è ancora lì, nel fondo buio e freddo di un cratere pieno di polvere e sassi, al di là di ogni confine.

Roberto Escobar, filosofo politico e critico cinematografico, insegna Filosofia politica e Analisi del linguaggio politico presso l’Università degli Studi di Milano e scrive per Il Sole 24 Ore.

 

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