Recensione del film "Il traditore"
La ricostruzione di Bellocchio della vita di Tommaso Buscetta, uno dei primi pentiti di mafia. Anche qui, per riprendere le parole di Enzo Biagi, «il boss è solo». Con i propri fantasmi.
È il capodanno del 2000. Tommaso “Masino” Buscetta, uno straordinario Pierfranco Favino, siede sul terrazzo della sua casa americana. Al suo fianco, accostato alla poltrona, c’è il fucile da guerra che ha comperato molto tempo prima. Da sedici anni teme la vendetta dei cento e cento criminali di Cosa Nostra che ha fatto arrestare e condannare. Sopra di lui brilla un cielo colmo di stelle. Così si apre l’ultima sequenza di Il traditore (Italia, Francia, Brasile e Germania, 2019, 142’).
La morte è il filo conduttore del film di Marco Bellocchio e dei suoi cosceneggiatori Valia Santella, Ludovica Rampoldi e Francesco Piccolo. E con la morte, il potere, la sua violenza e volgarità. Lungo questo filo corre la cronaca dei nostri anni Ottanta e Novanta, una cronaca che attende ancora di essere elaborata dall’opinione pubblica, oltre che dalle coscienze, per diventare finalmente storia. E alla storia, soprattutto alla sua elaborazione nelle coscienze, Bellocchio dà il contributo che ci si attende da un grande uomo di cinema, in coerenza con una poetica più che cinquantennale.
Non sono un pentito, credo negli ideali di Cosa Nostra, distrutti da Totò Riina (Nicola Calì), dichiara Buscetta a Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi) nel 1984. Intende dire che non è un traditore, che i traditori sono altri, i corleonesi. In ogni caso, parla, fa nomi, indica fatti. Le sue rivelazioni e la sua testimonianza al maxiprocesso palermitano del 1987 portano a 346 condanne, fra cui 19 ergastoli. Nel 1992, dopo l’uccisione di Falcone e Paolo Borsellino, torna dall’America e rivela le connessioni tra Cosa Nostra e la politica coinvolgendo Giulio Andreotti.
Il traditore inizia nel buio di una notte di Santa Rosalia. È il 1980 e i capi e i soldati di Cosa Nostra festeggiano la protettrice di Palermo. Fra loro c’è Buscetta, il soldato Buscetta, che non diventerà mai un capo. Il motivo, dirà a Falcone, è il suo amore per la vita, almeno per la propria e per quella delle sue donne e dei suoi figli. Per lui, preciserà, vale il contrario di quello che vale per Riina, convinto che «comandare sia meglio che fottere», come vuole il proverbio.
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