Secondo la psicologa Sherry Turkle, stiamo vivendo una situazione paradossale: mentre le nuove tecnologie ci allontanano sempre più dalle relazioni sociali autentiche, abbiamo la tendenza a costruire un reale legame di attaccamento con le macchine.
La sua riflessione parte da un paradosso: le nuove tecnologie ci rendono sempre più disincantati, lontani dalle relazioni sociali autentiche, e nello stesso tempo sarebbero sempre più numerose le persone che tendono a sviluppare una vera affettività nei confronti dei robot o dei supporti tecnologici. Perché accade questo? Forse le macchine costituiscono un modo per sfuggire alla complessità, alla delusione e al dolore che rischiamo in ogni relazione umana?
Sì, quando dico che siamo arrivati al “momento robotico”, al momento in cui siamo disposti a considerare le macchine quali interlocutori per le nostre questioni personali, ossia intime, non significa che abbiamo costruito macchine adatte a questo compito, ma che noi siamo pronti a conferire loro questo ruolo. E, perfino, che noi lo vogliamo, questo ruolo. Tutto ciò è in relazione sia con la delusione nei confronti dei nostri simili, sia con lo sviluppo di un nuovo tipo di macchine che anche se non ci comprendono possono fingere di farlo, e possono impressionarci non grazie alla loro intelligenza, ma per la loro socievolezza.
Ampliando all’estremo il “gioco dell’imitazione” di Turing, le chatbot di oggi – le cugine sofisticate di Siri sull’iPhone – vi faranno sentire che sono loro i vostri migliori amici, cui affidarsi. E le persone vogliono proprio questo, avere fiducia nelle macchine che offrono un’illusione d’amicizia senza le esigenze dell’intimità. Molti usano fin d’ora Siri in modo irrazionale, anche per questioni personali importanti. Sebbene siano consapevoli di portare avanti certe conversazioni “serie” per divertirsi, qualcosa dentro di loro spera che Siri sia in grado di offrire una parvenza di risposta. Addirittura, molti mi dicono di sperare che una versione più avanzata di Siri diventi un giorno il loro migliore amico. L’amico che sarà sempre pronto ad ascoltarli anche quando gli altri non lo saranno. È importante fermare l’attenzione su questo desiderio.
Credo rifletta una dolorosa verità che ho scoperto negli ultimi quindici anni: la sensazione che “nessuno mi ascolta” riveste un ruolo essenziale nelle nostre relazioni con le nuove tecnologie. Per questo siamo attratti dall’avere una pagina su Facebook o un account Twitter – per poter beneficiare di numerosi uditori automatici. E questa sensazione che “nessuno mi ascolta” ci dà voglia di passare del tempo con macchine che sembrano prendersi davvero cura di noi, siano essi i programmi di conversazione come Siri o i robot da cucina. Una delle grandi attrattive della rete è che offre la possibilità, o almeno il fantasma, di relazioni senza rischi. (...)
Le altre domande che troverai nella versione integrale dell’intervista:
- Ma di che cosa hanno paura le persone, esattamente?
- Ma questi eccessi che lei denuncia sono davvero un prodotto della tecnologia o quest’ultima semplicemente amplifica o rivela un’attitudine naturale caratteristica di molti esseri umani che preferiscono vivere soli piuttosto che male accompagnati?
- Comunque centinaia di falsi amici e di relazioni virtuali non ci impediscono di avere una famiglia e alcuni amici fedeli che formano un nucleo irriducibile e cruciale. Innumerevoli persone in carne e ossa rivestono un’importanza marginale. In fondo, le relazioni virtuali sono così differenti da queste relazioni reali, ma secondarie?
- Nonostante tutto lei prende però le distanze dall’idea di dipendenza dalla tecnologia. Perché? Quindi lei non pensa che si tratti di una situazione irreversibile, con effetti esponenziali?
Questo articolo è di ed è presente nel numero 252 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui