Specchiarsi allo schermo
Implicazioni psicologiche ed emotive del nostro vivere "on life", gioco di parole tra "online" e "offline", dove perversamente ci si sente in vita solo se si è in linea.
Meno di cent’anni fa, se ti trovavi per strada e volevi fare una telefonata eri costretto a trovare un luogo, solitamente un bar, dotato di telefono. Negli scorsi anni Cinquanta, per la precisione a Milano nel 1952, veniva installata la prima cabina telefonica pubblica. Così, se volevi chiamare i tuoi cari potevi farlo senza disturbare un intero esercizio pubblico. Di lì a poco, i telefoni sarebbero entrati nelle case di tutti gli italiani, e nel giro di una manciata di anni la maggior parte delle persone divenne in grado di telefonare a piacimento.
Oggi, a distanza di ancora meno anni, siamo tutti interconnessi in una rete fittissima di informazioni, possiamo ormai scambiarci qualsiasi dato alla velocità della luce (o quasi). Ciò sta modificando radicalmente il mondo delle “nuove relazioni” che si fondano anche su questi aspetti comunicativi sempre più virtuali.
Una semplice domanda come “sei online o offline?” era valida fino a qualche decennio fa, ma oggi siamo tutti inestricabilmente collegati, tanto che Luciano Floridi – docente di filosofia a Oxford – ha coniato l’espressione “on life” per indicare l’indistinguibilità tra “online” e “offline” nella società moderna, nonché il fatto che, per molti, essere in vita equivale appunto ad essere online… Quindi, siamo tutti “on life” anche se ci rifiutiamo di esserlo, anche se ci piace pensare che queste nuove tecnologie siano delle mode passeggere e che prima o poi si tornerà indietro.
Specchiarsi allo schermo
Ecco la cattiva notizia: io non credo che torneremo indietro e butteremo via il nostro smartphone, un oggetto che secondo le più recenti statistiche consultiamo centinaia di volte al giorno. Questa frequenza d’uso è di certo il risultato di attività di marketing sempre più precise ed efficaci, che ci spingono a utilizzare siti e servizi online. Allo stesso tempo, però, è indubbio che le opportunità offerte dagli smartphone – cioè essere collegati in ogni istante a una fonte di informazioni infinita – siano possibilità mai avute in precedenza.
Un tempo, quando entravi in un bar, la maggior parte delle persone sedute sfogliava il giornale o guardava la televisione accesa. Siamo da sempre attratti dal flusso incessante di informazioni a cui abbiamo accesso. Con questo non voglio difendere le grandi aziende digitali, ma solo additare un dato di fatto: la tecnologia ci dà una marea di possibilità, alle quali difficilmente rinunceremmo. Così come difficilmente la gente rinuncerà alla propria auto per darsi alla bicicletta o baratterà i viaggi in aereo con le camminate.
Il risvolto più pericoloso di queste nuove tecnologie sta proprio nella modalità relazionale che riescono a creare. Da qualche anno le statistiche sono nette nel porre in evidenza che la maggior parte dei litigi all’interno di una coppia deriva dai social. Perché? Forse i social mostrano realmente come siamo fatti, ovverosia esseri alla costante ricerca di “nuovi partner”? Per me, la risposta non è così semplice e va ricercata nell’effetto psicologico che offrono i social e in generale qualsiasi tipo di mediazione nella relazione.
Sicuramente il primo aspetto da non sottovalutare è quello di un senso di protezione e anonimato irrealistico. Le persone che fanno commenti, chiedono amicizie e mettono “mi piace” su persone belle e attraenti credono di essere maggiormente anonime, maggiormente riservate; “likkare” non è propriamente come fare un complimento a una donna che passa in piazza o lanciarle sguardi, è qualcosa di privato fra me e lei.
Ma questa, ovviamente, è un’illusione: sappiamo tutti che è molto semplice osservare cosa fa una persona online, ma soprattutto sappiamo che i suoi effetti sono identici a quelli offline. Siamo ancora all’“on life”, dove se fai un complimento a una persona sul web è come se glielo stessi facendo in piazza, con le stesse conseguenze che avrebbe dal vivo. Ciò ricorda molto quel noto effetto psicologico di “incolumità interpersonale” che proviamo quando siamo al volante della nostra auto. È stato provato, infatti, che le persone sono maggiormente propense a offendersi e a litigare quando sono in auto, perché si sentono in un ambiente protetto.
Ma l’effetto psicologico più potente nelle nuove modalità di comunicazione è legato a un meccanismo altrettanto noto: la proiezione. Quando si inizia a chattare con uno sconosciuto il cervello non si accontenta delle poche informazioni che riesce a raccogliere attraverso il web, così “riempie gli spazi vuoti” con la propria immaginazione, che spesso è fatta di aspettative positive sulla relazione. Così, se a casa abbiamo un partner poco affettuoso, vedremo l’utente, “dall’altra parte del filo”, come se fosse più affettuoso.
Cioè come se possedesse tutte quelle caratteristiche che sembrano mancare nella relazione che stiamo vivendo nella realtà. Questo non succede esclusivamente online: secondo alcune ricerche, tendiamo tutti a raccontare almeno 3 bugie nei primi 10 minuti di interazione con uno sconosciuto. Non si tratta di grandi bugie, ma di piccole deformazioni della realtà per farci percepire come migliori.
E così, un semplice lavoro impiegatizio può trasformarsi in “responsabile dell’area manager”, un viaggio fatto con la parrocchia può trasformarsi nelle avventure di Indiana Jones. Ci comportiamo in questo modo perché siamo consapevoli che durante le prime battute noi ci facciamo – e gli altri si fanno su di noi – una rapida opinione su chi abbiamo di fronte.
Questo è pure il motivo per cui sui social siamo soliti postare solo cose che tendano a mostrare il nostro sedicente lato migliore, occultando tutti gli eventuali problemi e magagne. Ora, se spostiamo tutto ciò in una chat dove due persone stanno interagendo, è ovvio che la tendenza a mostrare il lato migliore sarà probabilmente spinta ai massimi livelli. Questo non crea soltanto tensioni, ma anche false immagini di noi stessi nella mente degli altri, i quali, proiettando i propri desideri, iniziano a fantasticare una relazione idilliaca.
Attenzione, però, perché questo idillio esiste anche in coppie che si incontrano dal vivo e i cui membri si frequentano da poco tempo: parlo della famosa “luna di miele”. Ma, nel caso dei nuovi mezzi di comunicazione, tale tendenza è ancora più intensa per i motivi detti sopra (sensazione di protezione e di anonimato, proiezione dei desideri).
Come se non bastasse, tutto questo è condito con diversi giochini che scattano fra partner virtuali, come: strategici “mi piace” messi apposta per attrarre l’attenzione; post tematici che richiamano ciò su cui abbiamo appena chattato ecc. Fino a – nei casi peggiori – mescolare privato e pubblico, con la gente che comincia a chiedersi perché posti certe cose, ricordandoti ad ogni piè sospinto che sei “più in piazza che mai”.
Onestamente, io non ho una formuletta per gestire le nuove relazioni, ma di certo tenere a mente quanto detto fin qui è già un buon inizio. Poi, sicuramente esistono delle modalità psicologiche che ci consentono di distinguere il virtuale dal reale: la mia preferita, per esempio, è la meditazione di consapevolezza o mindfulness. Attraverso tale pratica impari a riconoscere la differenza fra “pensieri” e “realtà”, e a capire come questi ultimi tendano a colorare immancabilmente la nostra percezione.
Come al solito, il consiglio più importante è qualcosa di molto antico: conosci te stesso e imparerai a gestire anche l’altro. È un consiglio valido da più di duemila anni, da ancor prima dell’ampia diffusione della scrittura, per cui direi che ha retto ai vari cambiamenti tecnologici e può aiutarci ancora oggi!
Questo articolo è di ed è presente nel numero 268 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui