Stili di attaccamento nelle relazioni online
Ripercorrendo la grande lezione di Bowlby sugli stili di attaccamento, vediamo cosa succede quando, come nelle relazioni via web, la virtualità del contatto prende il posto del guardarsi negli occhi e del toccarsi.
Gli ultimi dati disponibili sull’utilizzo dei media digitali in Italia, raccolti da We Are Social in collaborazione con Hootsuite, presentano uno scenario molto interessante: il tempo medio passato da ogni italiano su Internet supera le 6 ore al giorno, di cui quasi 2 dedicate all’interazione sui social.
Per la prima volta nella storia, il numero di persone con cui ciascuno di noi comunica ogni giorno attraverso comunicazioni digitali è superiore a quelle con cui comunichiamo faccia a faccia. È un cambiamento epocale, che sta modificando significativamente le modalità di interazione sociale.
Questo è un tema che ho già discusso all’interno di questa rubrica. In particolare, in passato ho parlato di come la tecnologia abbia portato a un Amore 2.0 e a un’Educazione 2.0 che richiedono competenze e pratiche diverse dal passato. Ma, visto il tema di questo numero, voglio concentrarmi sugli effetti che la tecnologia sta producendo sulle nostre relazioni in generale.
Una delle teorie psicologiche che hanno avuto un ruolo centrale nello spiegare i nostri comportamenti relazionali è la teoria dell’attaccamento sviluppata dallo psicologo inglese John Bowlby. Con l’espressione “comportamento di attaccamento”, Bowlby definisce la tendenza del bambino ad appoggiarsi a una figura di riferimento – di solito la madre – per esplorare l’ambiente, utilizzando il suo comportamento sia come guida che come punto di riferimento emotivo.
La teoria di Bowlby suggerisce anche che le caratteristiche di questa esperienza precoce di attaccamento condizionano poi le relazioni future del bambino portandolo a sviluppare un preciso stile di attaccamento. Sarà uno stile sicuro, se il bambino è in grado di percepire nella relazione con la figura di riferimento sicurezza, protezione e amore. Sarà uno stile insicuro se il bambino percepisce invece segnali emotivi discordanti, insicurezza e instabilità.
Quello che Bowlby non dice, perché quando ha sviluppato la teoria – negli anni Settanta – non era un problema, è che la valutazione del legame passa principalmente attraverso i segnali corporei. Infatti, l’attaccamento nasce e si rafforza ben prima che il bambino sia in grado di parlare. Per cui è proprio attraverso l’analisi e il riconoscimento delle espressioni facciali, della distanza interpersonale, del tono di voce e così via, che il bambino definisce le caratteristiche della propria relazione di attaccamento.
In particolar modo, tramite l’analisi dei segnali corporei il bambino costruisce quelli che Bowlby chiama “Modelli Operativi Interni” (MOI), rappresentazioni mentali che organizzano le informazioni di tipo corporeo ed emotivo in strutture spazio-temporali per elaborare previsioni sull’andamento delle proprie relazioni, soprattutto durante situazioni di ansia o di bisogno (per maggiori informazioni si veda: https://goo.gl/NdtMXw).
Nel momento, però, in cui la comunicazione passa principalmente per la dimensione digitale, che nella maggior parte dei casi elimina la dimensione corporea, cosa succede? Il soggetto potrebbe non essere più in grado di utilizzare efficacemente i MOI sviluppati in passato per dare un senso alle nuove relazioni sviluppate online.
Sappiamo già che la comunicazione digitale priva il soggetto di un importante punto di riferimento nel processo di apprendimento e comprensione delle emozioni proprie e altrui, favorendo il cosiddetto “analfabetismo emotivo”. Come abbiamo visto in passato, questa espressione indica sia la mancanza di consapevolezza, e quindi di controllo delle proprie emozioni e dei comportamenti ad esse associati, sia la mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali si prova una certa emozione, sia l’incapacità di relazionarsi con le emozioni altrui – non riconosciute e comprese – e con i comportamenti che da esse scaturiscono.
Ma probabilmente la mancanza di corporeità va pure a toccare direttamente le modalità relazionali mediante gli stili di attaccamento. Soprattutto se, anche dopo il contatto faccia-a-faccia, la maggior parte della comunicazione continua a passare per le nuove tecnologie. I risultati delle ricerche di Omri Gillath, professore di Psicologia dell’Università del Kansas (il testo della ricerca è disponibile su https://goo.gl/Ukryks), sono una prima conferma di questa intuizione, oltre a sottolineare l’importanza giocata dagli stili di attaccamento anche nelle relazioni online.
Bowlby aveva identificato 4 stili di attaccamento. Lo stile sicuro, che consente di creare relazioni efficaci e durature, è accompagnato da 3 stili disfunzionali: quello insicuro-evitante, quello insicuro-ansioso e quello disorientato-disorganizzato. E in effetti, se li analizziamo con attenzione, ritroviamo molte delle problematiche che si scorgono in tante relazioni che nascono e passano attraverso i nuovi media.
• Lo stile insicuro-evitante porta a prevedere che la relazione avrà come unica soluzione possibile l’abbandono o il rifiuto. Per questo, il soggetto evita di costruire relazioni durature – spesso lascia il partner per motivi futili o senza fornire spiegazioni – e cerca conforto emotivo solo in sé stesso, senza mai aprirsi agli altri.
• Lo stile insicuro-ambivalente porta invece il soggetto a interpretare i segnali dell’altro contemporaneamente in senso sia positivo che negativo. Per cui non riesce ad essere mai sicuro della disponibilità e della lealtà dell’altro, e prova un senso di angoscia ogni volta che sperimenta una situazione di separazione.
• Infine lo stile disorientato-disorganizzato porta a comportamenti stereotipati, caratterizzati da forti sbalzi emotivi e da una relazione intermittente. Per esempio, il soggetto mostra la tendenza a cercare la relazione e allo stesso tempo a evitarla, magari sparendo per settimane e poi ritornando all’improvviso.
Bowlby ci dice che con il progredire delle relazioni, i contenuti dei MOI diventano sempre più stabili, per andare a operare in maniera automatica nell’adolescenza e nell’età adulta. Ma non ci dice cosa può succedere quando la relazione smette di passare per la dimensione faccia-a-faccia e si basa su interazioni digitali.
Il lavoro di Gillath suggerisce che il passaggio al mondo digitale può rimettere in discussione i MOI e portare a nuovi stili relazionali, spesso disfunzionali. Come fare a difenderci? Ricordando che in una relazione un “mi piace” o un selfie condiviso della coppia sui social non può sostituire un “ti amo” detto al proprio partner guardandolo/la negli occhi.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 268 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui