Da tempo, la tecnica è ormai diventata come l’atmosfera nella quale viviamo e la sua razionalità efficientista non si fa troppi problemi ad anteporre le istanze pragmatiche alle esigenze dell’uomo.

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Siamo tutti persuasi di abitare l’età della tecnica, di cui godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini primitivi, perché abbiamo più strumenti di cui disporre e più campi di gioco in cui inserirci. Ogni rimpianto, ogni disaffezione dal nostro tempo hanno del patetico.

Ma nell’assuefazione con cui utilizziamo strumenti e servizi che accorciano lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo di essere uomini non è troppo antico per abitare l’età della tecnica. 

La tecnica, infatti, ci ha progressivamente distanziato dalla natura (visualizzata come semplice materia prima o illimitato serbatoio di risorse) e inserito in un mondo artificiale al cui sviluppo tutti concorriamo, in vista non di un “progresso” (che fa riferimento al miglioramento qualitativo della condizione umana), ma, come faceva notare Pasolini, di un semplice “sviluppo” (che fa riferimento unicamente all’aumento quantitativo delle disponibilità tecniche). Uno sviluppo che non ha altro scopo se non il proprio autopotenziamento. 

In questo inserimento rapido e ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti dell’uomo pre-tecnologico, che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva.

L’età della tecnica ha abolito questo scenario “umanistico”, e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non sia ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovare risposte a simili domande.

La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità, la tecnica funziona, e siccome il suo funzionamento diventa planetario non possiamo che definire arretrato quel pensiero che considera la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, quando ormai è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità che, misurandosi sui soli criteri della funzionalità e dell’efficienza, non esita a subordinare le esigenze dell’uomo alle esigenze dell’apparato tecnico.

A ciò si deve aggiungere il fatto che cresce di giorno in giorno la distanza tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, nel senso che gli strumenti di produzione (le macchine), di organizzazione (i sistemi), di riflessione (i saperi) esprimono una quantità tale di cultura oggettivata nella tecnica, molto superiore alla cultura soggettiva di chi la impiega.

Peraltro, già all’inizio del secolo scorso Georg Simmel si domandava: «Quanti lavoratori, persino all’interno della grande industria, sono oggi in grado di capire la macchina con cui hanno a che fare?». E ancora non c’erano i computer né i telefonini che quotidianamente utilizziamo senza la minima competenza della tecnica in essa assemblata.

Ciò significa che l’uomo, nell’età della tecnica, ha una capacità di fare ormai enormemente superiore alla sua capacità di prevedere gli effetti del suo fare. Questo «dislivello», come lo chiama Günther Anders, tra l’uomo e il mondo artificiale prodotto dalla tecnica crea quell’ansia che non nasce tanto dal “ritmo della vita moderna”, ma dalla complessità della cultura oggettivata incorporata dalla tecnica in rapporto alla insufficienza della cultura soggettiva del singolo uomo incapace di dominarla e quindi di starle al passo. 

Nata sotto il segno dell’anticipazione, di cui Prometeo (il cui nome significa “colui che pensa in anticipo”) è il simbolo, l’ininterrotto e incontrollato sviluppo della tecnica finisce col sottrarre all’uomo ogni possibilità anticipatrice, e con essa quelle responsabilità e padronanza che derivano dalla capacità di prevedere

I greci avevano incatenato Prometeo che aveva donato la tecnica agli uomini, affinché questa non oltrepassasse i limiti della natura. Oggi, come scrive Hans Jonas: «Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare un sventura per l’uomo».

E quale può essere questa sventura? Ce lo dice a chiare lettere Günther Anders là dove scrive: «La tecnica può segnare quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: che cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma: che cosa la tecnica può fare di noi». 

La tecnica, infatti, incide anche nella nostra patologia, perché mentre nella società della disciplina, che da noi è durata fino agli anni Sessanta del secolo scorso, la depressione aveva come sua tematica il senso di colpa, oggi, nell’età della tecnica, la depressione ha come sua tematica il vissuto d’inadeguatezza. Non più la contrapposizione tra permesso e proibito, ma la contrapposizione ben più lacerante tra il possibile e l’impossibile, da cui deriva un senso d’insufficienza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare o non si riesce a fare secondo le attese altrui (ben segnalate dall’apparato tecnico di appartenenza), a partire dalle quali ciascuno misura il valore di sé stesso. 

Di qui l’ansia, l’insonnia, il bisogno di essere sempre connessi per non perdere neppure un frammento d’informazioni, in competizione con i colleghi che non sono più compagni di lavoro, ma in qualche modo concorrenti poiché, se più bravi di noi, minacciano la nostra permanenza nel mondo lavorativo. A questo punto la depressione non si configura più come perdita della gioia di vivere, ma come patologia dell’azione che ci appare o che ci segnala sempre insufficienti rispetto a quanto l’apparato tecnico, tendente di anno in anno ad alzare l’asticella, si attende da noi.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 269 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui