Teoria e pragmatica del cambiamento
L’apprendimento non è il presupposto per un cambiamento, ma la sua conseguenza. Impariamo cose nuove facendo esperienze differenti: la terapia ha il compito di avviare e facilitare questo processo di modificazione percettiva.
I costrutti di apprendimento e cambiamento sono forse i più fondamentali per le discipline psicologiche, perché stanno alla base di tutti i processi di interazione tra l’individuo e la sua realtà. Tuttavia, mentre l’apprendimento ha un posto di rilievo nei manuali di psicologia generale, il cambiamento, benché preceda l’altro come dinamica biopsicologica, ha sempre fatto fatica a essere riconosciuto ed è stato relegato alla clinica o a settori specifici della psicologia sociale.
La spiegazione di ciò va ricercata nell’egemonia della psicologia americana basata sul behaviorismo e pertanto sull’idea che gli apprendimenti siano responsabili pure dei cambiamenti. Anche la più moderna psicologia cognitiva risente di questo preconcetto, che non è mai stato dimostrato bensì assunto come un postulato matematico, al punto da giungere a inglobare all’interno dei processi cognitivi anche i fenomeni percettivi che innescano i cambiamenti nelle risposte dell’individuo.
Il lettore deve sapere che, al contrario, la psicologia nasce proprio dallo studio delle percezioni e di come queste influenzassero le reazioni sia individuali che sociali. Appare chiaro, anche al non addetto ai lavori, che se io percepisco in un determinato modo un fenomeno, la mia reazione ne sarà fortemente condizionata e sarà questa a farmi apprendere, per esperienza, tentativi ed errori, come relazionarmi al meglio con tale realtà. Ovvero: l’apprendimento è il frutto del cambiamento, e non il contrario. Come gli psicofisiologi ci insegnano, il nostro apparato sensoriale si attiva quando ci sono cambiamenti nella percezione della realtà, mentre si ottunde al ripetersi delle cose.
Pertanto è il cambiamento di stato, di ciò che ci circonda o che è al nostro interno, ad attivare l’organismo e a indurlo a rispondere sulla base di ciò che ha percepito. I processi percettivi e quelli di cambiamento sono quindi i primi responsabili delle nostre sensazioni, che scatenano emozioni, le quali attivano reazioni che solo alla fine diventeranno apprendimenti e cognizioni.
Poi, una volta che un apprendimento diviene acquisizione, questo influenzerà anche le successive percezioni dell’esperienza vissuta ed elaborata, facendo sì che si crei un’interazione costante tra cambiamenti e apprendimenti. Da tale prospettiva, il behavioristico primato della teoria dell’apprendimento su quella del cambiamento decade drasticamente e lascia il passo al suo rovescio.
Questa disgressione teorica non è una mia disputa accademica, bensì un chiarimento fondamentale con ricadute applicative enormi in tutti gli ambiti della psicologia. Un esempio è quello relativo ai trattamenti psicoterapeutici: se si segue rigidamente la teoria dell’apprendimento, tutte le patologie dovrebbero essere risolte mediante processi di mirato apprendimento correttivo; mentre se si assume la teoria del cambiamento, si rende necessario effettuare prima esperienze di cambiamento percettivo che poi evolvano in nuovi apprendimenti e acquisizioni. I cambiamenti realmente esperiti, se replicati evolvono costantemente in nuove acquisizioni, laddove nuovi apprendimenti non progrediscono così spesso in reali cambiamenti.
CAMBIARE PER CONOSCERE
Se vuoi conoscere come funziona un sistema, cerca di cambiarne il funzionamento: con queste parole Kurt Lewin chiariva che il cambiamento è anche la chiave della conoscenza delle dinamiche che costituiscono i fenomeni sia naturali sia umani.
Del resto, tutta la scienza moderna muove da questa metodologia sperimentale sul campo, che è ben diversa dalle metodiche sperimentali di laboratorio imperanti nella psicologia contemporanea, ove al posto della riproduzione empirica dei fenomeni attraverso l’esperimento sul campo, si è optato per elaborati disegni statistici che danno l’illusione di rigore matematico, mentre sono una forma di riduzionismo dei processi della conoscenza scientifica.
Un’opposizione metodologica, questa, ben espressa dal metodo dell’osservazione etologica di Konrad Lorenz e dall’esperimento sociale di Kurt Lewin, che rifiutavano l’abituale manipolazione da laboratorio tipica di Skinner e Watson.
Dal lavoro seminale di Lewin all’interno della psicologia, in particolare dal suo costrutto metodologico della “ricerca-azione”, insieme ai contributi della teoria dei sistemi, della teoria dei giochi, degli studi antropologici di Gregory Bateson e alle osservazioni di Don D. Jackson riguardo alle “omeostasi patologiche” all’interno dei sistemi familiari, verso la metà del Novecento prese avvio la teoria del cambiamento, brillantemente formulata poi nel 1974 da Paul Watzlawick e che divenne la matrice caratterizzante della celebre Scuola di Palo Alto.
Là, per la prima volta, il cambiamento come costrutto teorico-operativo divenne il fondamento di un’importante teoria in ambito psicologico. Da allora migliorarono le applicazioni della nozione di cambiamento ai vari campi della scienza e delle discipline pragmatiche, che hanno dimostrato la fecondità e l’efficacia empirica di questo approccio allo studio dell’uomo e delle sue dinamiche interazionali con se stessi, con gli altri e con il mondo.
La punta di diamante di questa tradizione di studi è stata, e tuttora resta, l’ambito del cambiamento terapeutico, con la dimostrazione della sua conseguibilità in tempi brevi, mediante specifiche strategie, anche di fronte a severe e persistenti psicopatologie.
COMUNICAZIONE E CAMBIAMENTO
Uno dei contributi più importanti della Scuola di Palo Alto è stato senza dubbio l’aver focalizzato l’attenzione sugli effetti pragmatici della comunicazione e su come questi fossero il veicolo principale del cambiamento.
Il testo manifesto di questa nuova visione teorico-applicativa fu nel 1967 la nota Pragmatica della comunicazione umana, in cui Watzlawick sintetizzava il frutto degli studi dei decenni precedenti su come il comunicare con se stessi, con gli altri e con il mondo circostante sia quanto permette agli esseri umani di costruire le loro realtà sia sane che patologiche; strumento principale, quindi, per realizzare i cambiamenti personali, interpersonali e sociali.
Questa avvincente formulazione spostava, per la prima volta, l’enfasi della psicologia dallo studio delle dinamiche intrapsichiche di matrice psicodinamica e dal riduzionismo riflessologico di matrice pavloviana e skinneriana alle interazioni comunicative, dimostrandone l’enorme potenziale di azione e ponendone in risalto l’efficacia strumentale per i cambiamenti strategici da effettuare nei vari ambiti della vita umana.
A tale riguardo, si inizia a considerare l’ambito dei paradossi comunicativi e quello delle ambivalenze logiche come contesti da cui derivare strategie di cambiamento, invece che qualcosa da annullare poiché non controllabile dalla rigida razionalità.
Fioriscono così numerose tecniche per affrontare cambiamenti terapeutici basati sul paradosso, quale la prescrizione del sintomo, come pure altre strategie più complesse per effettuare cambiamenti strategici in sistemi umani allargati, quale il management strategico.
Cambiamento e comunicazione divengono le due facce della stessa medaglia, ovvero per cambiamenti strategici è richiesta una comunicazione strategica, oltre a una logica specifica di problem solving che, come suoi strumenti, contempli paradossi, contraddizioni, credenze e autoinganni.
Anche in questo caso possiamo rilevare la marcata differenza tra il linguaggio del cambiamento e quello dell’apprendimento: il primo deve creare un “effetto scoperta” e quindi deve far sentire, piuttosto che far capire; il secondo deve insegnare a creare acquisizioni e quindi si basa su spiegazioni.
Quando, come troppo spesso si osserva, i due tipi di comunicazione vengono a opporsi ideologicamente e sono utilizzati in maniera non complementare ma tale che l’uno escluda l’altro, si produce un’innaturale e antisociale forma di presunta scientificità.
Difatti, nelle dinamiche relazionali e sociali entrambe le forme di linguaggio esprimono naturalmente il loro potenziale di influenzamento e si integrano completandosi a vicenda.
Ossia la comunicazione mette insieme costantemente il “sentire” e il “capire”, perché nel linguaggio corrente, e non solo nelle discipline linguistiche e letterarie, le forme del comunicare sono suggestive, analogiche e performative, nel senso dell’influenzamento interpersonale e delle emozioni che il linguaggio, per la sua forma, va a innescare nell’individuo.
Mentre una forma di scientismo impone, tra i ricercatori, un linguaggio scarno, diretto e razionale, privo il più possibile di orpelli retorici e di formule linguistiche suggestive. Ma coloro che vorrebbero sterilizzare il linguaggio della scienza si dimenticano che proprio i più importanti scienziati della storia hanno fatto ampio ricorso alla retorica e al linguaggio performativo, per persuadere delle loro innovative tesi.
RESISTENZA AL CAMBIAMENTO
Una delle più sorprendenti realtà relative al cambiamento è il fatto che gli esseri viventi tendano a resistergli, anche se esso, come ci ha indicato Darwin, è il fondamento dell’evoluzione e della sopravvivenza della specie.
Il fenomeno viene ben spiegato da Claude Bernard con il suo costrutto di “omeostasi”, che esprime chiaramente come ogni sistema vivente, una volta che si sia costruito, tenda a mantenere il suo equilibrio, purtroppo anche quando questo sia disadattivo.
A livello umano, ciò ci spiega la prospettiva in nome della quale talvolta gli individui persistono nel fare e pensare anche cose che per loro stessi sono disfunzionali o controproducenti, e al contempo ci fa rilevare come per realizzare un cambiamento si debba spesso ricorrere a espedienti che aggirino o abbattano la resistenza del sistema alla sua modificazione.
Su tale argomento si sono concentrati studi e ricerche soprattutto in campo clinico, ove, per condurre il paziente a seguire le indicazioni del medico o dello psicoterapeuta, le resistenze al cambiamento degli atteggiamenti, dei comportamenti e soprattutto dei punti di vista si evidenziano in modo più frequente e più netto.
Non è un caso che quasi tutti gli orientamenti teorico-applicativi in psicoterapia rivolgano a questo argomento una notevole attenzione e abbiano elaborato tecniche per guidare i pazienti a superare il limite al processo di cambiamento richiesto dalla terapia. Detti processi di cambiamento possono essere classificati in 3 categorie:
- il cambiamento graduale;
- il cambiamento geometrico-esponenziale;
- il cambiamento catastrofico.
Il primo fa riferimento alla più ordinaria metodologia del cambiare step-by-step, graduando il più possibile il processo; cioè introduce un piccolo cambiamento, seguito dal successivo, e così via, riducendo così le resistenze del sistema al sovvertimento del suo equilibrio, in virtù di un cambiamento percepito come non minaccioso. Questa tipologia è indicata nei casi in cui c’è una manifesta collaboratività da parte di chi deve cambiare.
Il secondo è il tipo di cambiamento che nella scienza viene definito “effetto butterfly”, vale a dire il battito di ali di farfalla che innesca una reazione a catena la quale andrà a produrre un uragano a decine di migliaia di chilometri di distanza. Nell’applicazione, ciò vuol dire selezionare e tradurre in pratica un piccolo cambiamento strategicamente orientato a innescare la reazione a catena geometrico-esponenziale. Questa tipologia è indicata per i sistemi complessi con alto tasso di resistenza al cambiamento.
La terza tipologia, infine, è quella rappresentata dall’attuazione di manovre dirette, indirette o paradossali che, come un fulmine, colpiscono e abbattono le resistenze producendo un cambiamento pressoché immediato. Questa modalità si applica quando il sistema è in una sofferenza talmente bloccata su se stessa da accettare la messa in atto di azioni dirompenti, come unica chance per far cessare tale stato.
IL CAMBIAMENTO TERAPEUTICO
Fra i tanti costrutti teorico-operativi presenti nel campo della psicoterapia, il solo davvero unificante le svariate teorizzazioni è quello di esperienza emozionale correttiva, definita come quel momento in cui il soggetto all’interno di un processo terapeutico vive una reale esperienza di cambiamento delle proprie percezioni nei confronti della realtà; un cambiamento che lo porta a scoprire differenti modalità di reazione.
La “differenza che fa la differenza” nell’ambito dei vari modelli psicoterapeutici è se l’esperienza emozionale correttiva viene deliberatamente ricercata e provocata tramite strategie specifiche, come nelle forme di psicoterapia più avanzate, o se è un incontro fortuito e non perseguito, come nelle terapie a lungo termine di stampo tradizionale.
Questo costrutto operativo può essere espresso al meglio attraverso una toccante storia terapeutica che riguarda due grandi personaggi della clinica psicologica e non solo: Heinz Von Foerster e Viktor Frankl. Il primo, tra l’altro nipote di Ludwig Wittgenstein, pochi sanno che fu tra i fondatori di Radio Vienna e lo speaker di una trasmissione quotidiana alla quale partecipavano persone che avevano vissuto la deportazione nazista o altre esperienze traumatiche di guerra.
Un giorno, alla trasmissione, venne invitato il famoso psichiatra Victor Frankl, che raccontò la sua tragica vicenda familiare: l’aver salutato per l’ultima volta, il giorno della deportazione, la moglie e le figlie. Nonostante ciò, alla fine del conflitto egli era tornato al proprio posto di lavoro come responsabile dei servizi psichiatrici, riprendendo ad aiutare tutti coloro che ne avevano bisogno per patologie mentali o disagi psicologici.
Durante la trasmissione, un ascoltatore chiamò Frankl per il proprio fratello, che da giorni era bloccato in modo catatonico su una sedia della cucina di casa a guardare fisso la sedia al di là del tavolo, dove la moglie, dopo un colpo di tosse, era morta davanti a lui per un enfisema polmonare mentre stavano facendo colazione. Il celebre psichiatra accettò di andare a visitare l’uomo: si sedette accanto al paziente con lo sguardo rivolto verso la sedia della moglie scomparsa e cominciò a raccontare la propria storia, la storia appunto di chi aveva detto addio alla famiglia il giorno della deportazione. Anche il paziente, come Frankl, aveva salutato la moglie il giorno della deportazione, ma a guerra finita aveva avuto la fortuna di ritrovarla fra i tanti che tornavano dai campi di concentramento vagando per le rovine della città, e i due avevano ripreso la felice vita di coppia, interrotta tragicamente dall’evento di qualche giorno prima.
Frankl, dopo aver narrato la propria vicenda, fece una domanda assai terapeutica all’uomo catatonico: «Se il buon Dio fosse così caritatevole da farti apparire adesso, da quella porta, una donna con lo stesso viso, con lo stesso sguardo, con le stesse movenze, accetteresti questo dono?». Il paziente si alzò all’improvviso e con un colpo sul tavolo disse, riferendosi alla moglie: «Lei è insostituibile!». Risvegliatosi dalla catatonia, divenne un collaboratore del celebre psichiatra nel sostegno alle persone con esperienze simili alle spalle.
Questa commovente storia ci dà un folgorante esempio di esperienza emozionale correttiva deliberatamente provocata da un terapeuta esperto, il quale prima crea la relazione con il paziente, una vicinanza emotiva, poi, con una straordinaria manovra, attiva il cambiamento terapeutico repentino.
La definizione di “esperienza emozionale correttiva” la si deve a un’altra figura storica della psicoterapia, Franz Alexander. Questi, psicoanalista di metà Novecento noto per le brillanti intuizioni e capacità terapeutiche, formulò il concetto rifacendosi a un libro di Balint, The basic fault (1968), all’interno del quale si racconta di una paziente che aveva sempre avuto paura di fare una capriola.
Un giorno la donna, entrando nello studio del clinico, inciampò nel tappeto, rotolò a terra e tornò prontamente in piedi, eseguendo così l’atto funambolico fino ad allora temuto. Da quel momento scomparve di colpo la paura e, con essa, tutta la sintomatologia che ne era derivata nel corso degli anni.
Franz Alexander definì per la prima volta il costrutto operativo come l’obiettivo fondamentale di un processo psicoterapeutico, e, come il lettore deve sapere, egli non era certo un fautore delle terapie brevi o di metodiche alternative, bensì un celebre psicoanalista che però stava stretto dentro le rigide ortodossie.
Come accennato, questo costrutto, atto a unificare tutte le forme di psicoterapia, trova peraltro notevoli differenze nella sua applicazione: per la maggioranza delle psicoterapie a lungo termine, l’esperienza emozionale correttiva, come chiarito da Daniel Stern, è qualcosa che giunge inaspettata e imprevedibile come frutto del prolungato lavoro terapeutico; mentre per la maggioranza delle terapie a breve termine, in particolare quelle strategiche, è invece il frutto di strategie e stratagemmi terapeutici messi a punto e applicati a tale scopo.
A mio parere, la diatriba teorico-applicativa relativa al cambiamento terapeutico può essere risolta dall’affermazione di Hermann Hesse: «Il paradosso dei paradossi è che il contrario del vero è ugualmente vero».
Riferimenti bibliografici
BALINT M. (1968), The basic fault, Tavistock, London. NARDONE G., WATZLAWICK P. (1990), L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, Milano.
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VON NEUMANN J., MORGENSTERN O. (1944), Theory of games and economic behaviour, Princeton University Press, Princeton.
WATZLAWICK P. (1977), Il linguaggio del cambiamento: elementi di comunicazione terapeutica (trad. it.), Feltrinelli, Milano.
WATZLAWICK P., HELMICK BEAVIN J., JACKSON D. D. (1967), Pragmatica della comunicazione umana (trad. it.), Astrolabio, Roma.
WATZLAWICK P., NARDONE G. (1997), Terapia breve strategica, Raffaello Cortina Editore, Milano.
WATZLAWICK P., WEAKLAND J. H., FISCH R. (1974), Change. La formazione e la soluzione dei problemi (trad. it.), Astrolabio, Roma.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 259 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui