Una solida autostima come deterrente per la gelosia
Le relazioni rispecchiano il valore attribuito ai membri della coppia: la sensazione di non valere abbastanza genera crisi di autostima e alimenta sentimenti di gelosia.
Le relazioni, e in particolare quelle amorose, risentono del modo in cui i partner attribuiscono valore alla relazione: la persona cui viene attribuito meno valore sarà destinata a provare un sentimento di gelosia molto più forte e intenso. La percezione di avere meno valore diminuisce il senso di sicurezza in sé stessi, nell’altro e nella relazione, facendo percepire maggiori segnali di pericolo intorno a sé.
Se consideriamo la gelosia nei suoi effetti psico-socio-relazionali possiamo individuare due aspetti. Il primo è legato agli effetti negativi, che possono giungere fino a comportamenti e azioni violente; il secondo a meccanismi di tipo protettivo in cui la gelosia diviene strumento utile a proteggere la relazione, sentita come particolarmente importante, da possibili rischi e minacce.
La gelosia produce una serie di sensazioni, pensieri, azioni e comportamenti che, se non riescono a proteggere la relazione, incrementano ulteriormente la discrepanza di valore e di importanza all’interno della coppia. Nel tentativo di aumentare il proprio valore si finisce per avere conferma di non valere abbastanza.
GELOSIA E FIDUCIA
Appare evidente come valore, gelosia e autostima siano collegati in modo circolare gli uni agli altri, tanto da non poter stabilire quale sia la causa e quale l’effetto. Non possiamo determinare se sia la scarsa fiducia in sé stessi a produrre sentimenti di gelosia o se, viceversa, sia la gelosia a minare il senso di fiducia. Tuttavia, quando tale circuito si attiva, il rischio è di entrare in una spirale a cui la coppia difficilmente sopravvive o, se lo fa, raramente riesce a costruire un sano e felice equilibrio. Importante è dunque non tanto comprendere la causa, ma individuare il modo in cui disattivare il circolo vizioso. Per fare ciò occorre ri-orientare la gelosia in senso positivo, interrompendo le reazioni disfunzionali di controllo, divieto, recriminazione, rimprovero e sostituendole con altre soluzioni maggiormente adattive.
Il confronto con chi riteniamo più carino, attraente, simpatico può mettere in allarme inducendo a evitare, con ogni mezzo, il pericolo che si avvicini al partner. Riuscire in questo intento, se da una parte tranquillizza, dall’altra conferma il fatto di non essere “abbastanza”, incrementando la percezione di minaccia e pericolo, situazione ben descritta da Shakespeare: «Cose leggere come l’aria sono per il geloso delle forti conferme, come una testimonianza delle Sacre Scritture».
A ben guardare la gelosia ci informa di un pericolo per la relazione, a cui possiamo reagire domandandoci come eliminare il/la rivale, oppure come migliorare e incrementare le nostre qualità. In questo secondo caso ci interessiamo a come marcare la differenza tra noi e l’altro/a, risultando vincitori per ciò che aggiungiamo e non per ciò che togliamo. Così facendo ci muoviamo lungo la strada del miglioramento, incrementando il senso di fiducia. Migliorarsi, tuttavia, non significa fare qualcosa per l’altro, cosa che, pur essendo un nobile gesto, non è sufficiente, in quanto solitamente legata all’aspettativa di avere qualcosa in cambio. Ogni sforzo che facciamo per l’altro, se non dà l’effetto desiderato, rischia infatti di incrementare il senso di fallimento, inadeguatezza o scarsa desiderabilità. Solo l’agire cercando la bellezza dentro e fuori di sé, coltivando il valore della relazione, può costruire quel senso di fiducia in sé stessi che sostiene e sviluppa l’autostima e la fiducia reciproca.
L’AUTOSTIMA
Da quanto detto non stupisce che uno dei tratti maggiormente studiati in relazione alla gelosia sia proprio l’autostima, intesa come la percezione e opinione che una persona ha del proprio valore. Il Dizionario internazionale di Psicoterapia (Nardone e Salvini, 2013) la definisce come «valutazione e considerazione che un individuo ha di sé stesso e costrutto fondamentale rispetto all’equilibrio psicologico di una persona». Se il termine “autostima” è oramai entrato nel linguaggio comune e, a più riprese, trasmissioni televisive e articoli di giornale fanno risalire disagi più o meno gravi a presunti problemi di autostima, occorre tener presente che dal punto di vista scientifico si tratta di un costrutto articolato. William James, padre della psicologia, scriveva nel 1890 come l’autostima, che lui chiamava «amore per sé stessi», dipenda dalla valutazione dei risultati che la persona raggiunge nelle aree della vita che ritiene importanti. L’autostima, pur nelle sue varie sfaccettature, sembra essere connessa al bisogno dell’uomo di appartenere a un gruppo sociale, evitando la sensazione di sentirsi escluso o rifiutato dagli altri.
Alcuni fra gli studiosi più importanti che si sono occupati di questo tema, come Coolny e Mead, evidenziano in quanto centrale la dimensione relazionale e del confronto con gli altri: ciò appare evidente soprattutto in adolescenza. La relazione con i pari assume un ruolo cruciale, non solo come quantità di tempo che i giovani adolescenti trascorrono insieme, ma soprattutto perché i comportamenti, le opinioni e le aspettative dei compagni influenzano l’immagine e l’opinione che il ragazzo ha di sé (Brown e Larson, 2009).
In questo periodo le prime relazioni romantiche sono fondamentali sia per lo sviluppo dell’identità sia per la strutturazione della fiducia in sé stessi e nel proprio valore (Collins et al., 2009). L’attuale uso di social network, se da un lato supporta i comportamenti di self disclosure, ossia di comunicazione di notizie e informazioni su di sé, che possono essere associati a un aumento di autostima, dall’altro espone al rischio di ipercondivisione. Sembra, infatti, che proprio le persone maggiormente insicure della relazione tendano a ricorrere a una condivisione elevata di informazioni sulla propria relazione (Emery et al., 2015).
Ancora più diffusi i comportamenti di controllo degli scambi comunicativi e relazionali sui social network, che minano la relazione e la fiducia di sé e nell’altro.
INVIDA NEGATIVA E INVIDIA POSITIVA
Sentimenti di gelosia o invidia possono essere sperimentati non solo nella relazione di coppia, ma ogni qual volta nel confronto sociale ci troviamo inferiori, mancanti o limitati rispetto ad alcune caratteristiche ,
che possono essere un attributo fisico o caratteriale (bellezza, simpatia), un traguardo (vittoria di una partita o di un torneo), o qualcosa che si possiede (auto, moto, casa).
In questi casi la persona può rispondere con un’invidia negativa, caratterizzata dal desiderio e dal tentativo di togliere all’altro il presunto vantaggio attraverso strategie che portano inevitabilmente a un “livellamento verso il basso”. Oppure può rispondere con un’invidia di tipo positivo, caratterizzata dalla volontà e dallo sforzo di colmare il divario con gli altri conquistando ciò che manca. Tali sforzi e tentativi, in cui gli altri diventano fonte di stimolo o ispirazione, sono accomunati dalla tendenza a “salire di livello”.
Se le persone sono costantemente attente a non sentirsi inferiori rispetto agli altri, soprattutto nelle aree della vita percepite come particolarmente importanti e significative, allora l’invidia diviene un rilevante segnale di regolazione sociale. Questa può essere considerata una minaccia all’autostima che dà la possibilità alla persona di agire per recuperare l’immagine e l’opinione positiva che ha di sé, delle proprie capacità e risorse.
I luoghi di lavoro sono un ambito in cui i processi di gelosia e invidia assumono connotazioni interessanti e curiose. Solitamente si pensa che l’invidia si manifesti verso un collega o un superiore, mentre frequenti sono gli episodi di invidia del superiore verso i propri collaboratori o subordinati.
Non stupisce che molti siti web e blog che si occupano di lavoro diano consigli a chi ha un capo invidioso, suggerendo strategie come «tenere per sé le idee più brillanti» o «dare al capo il merito delle proprie idee».
Come si può immaginare, tale tipologia di invidia può avere conseguenze negative sia per l’organizzazione che per le persone. Quando il capo o il coordinatore di un team ha il timore di non essere all’altezza, rischia di boicottare i propri collaboratori per la necessità di mantenere alta la propria autostima. I collaboratori, viceversa, nel tentativo di gestire la situazione iniziano ad adottare strategie di soluzioni al ribasso, volte a evitare eventuali ripercussioni. Se, da un lato, tale tentata soluzione permette di evitare il conflitto e la tensione, dall’altra non consente di realizzare i propri obiettivi, di raggiungere il successo, sortendo comunque un fallimento rispetto alle aspettative lavorative. Tale situazione, oltre ad essere un fattore di rischio di burn-out, mina la stima che la persona ha nelle proprie risorse, capacità, possibilità e aspettative per il futuro.
Un leader ha a disposizione varie strategie e modalità per guidare e sostenere il proprio team nel raggiungere i propri obiettivi e migliorarsi. Tuttavia, quando l’immagine che il leader ha di sé viene messa in discussione dai successi di qualcuno dei suoi subordinati o collaboratori, facendogli temere una perdita di ruolo e di capacità, può provocare soluzioni disfunzionali. Così la delega, il controllo e la supervisione, aspetti fondamentali di ogni leadership, vengono sostituiti da ostracismo, rimprovero o squalifica. In altre parole, il leader non delega più, o, se delega, lo fa per dimostrare l’incapacità del subordinato, affidandogli compiti impossibili o mettendo in discussione il valore del lavoro svolto o dei risultati raggiunti. Viceversa, quando i leader riescono ad adottare strategie di self-empowerment, per esempio attraverso corsi di alta formazione o consulenza mirata, la leadership torna ad essere virtuosa, le capacità dei dipendenti diventano stimolo per il miglioramento e l’empowerment del leader diviene strumento di sostegno e sviluppo del team.
COSTRUIRE L’AUTOSTIMA
L’autostima, come è stato più volte sottolineato, è associata a varie dimensioni che solo in parte possono essere sovrapponibili ad essa, come la fiducia in sé stessi, l’autoefficacia e l’opinione di sé. Per esempio, una persona può sentirsi orgogliosa e soddisfatta dopo una promozione, o viceversa frustrata e insoddisfatta a causa di un fallimento. Volendo semplificare, potremmo dire che l’autostima ha sia una componente di “stato”, cioè temporanea e legata agli eventi, che una di “tratto”, cioè più duratura e stabile, indipendentemente dalle circostanze.
Fare esperienze che forniscono un feedback positivo rispetto alle capacità è sicuramente fondamentale per costruire il senso di autoefficacia e autostima, ma non sembra essere sufficiente. La misura del proprio valore deve comprendere e superare l’azione e il risultato, riuscendo a mantenersi stabile nonostante eventi o risultati negativi.
Ciò appare maggiormente chiaro quando prendiamo in considerazione la modalità di reazione a un fallimento. Individui con alta autostima tendono ad attribuire la causa dell’insuccesso al fatto di non essersi impegnati a sufficienza o di aver utilizzato erronee strategie di gestione o soluzione (Brown et al., 2001).
L’attenzione all’autostima e al suo sviluppo risulta centrale soprattutto in ambito educativo, come dimostrano le numerose guide per genitori nelle librerie e nel web.
Vari e innumerevoli i consigli che vengono dati ai genitori su come promuovere e costruire l’autostima dei figli. Senza volerci addentrare in un’analisi o in una valutazione della validità di tali suggerimenti, ci sembra opportuno sottolineare quanto sia importante che genitori, insegnanti, allenatori ed educatori in genere siano in grado di comprendere come l’autostima si costruisca attraverso un processo circolare fra azione (ciò che faccio), sensazione (ciò che provo) e opinione (ciò che penso), in cui ogni aspetto influenza costantemente gli altri.
Come i recenti studi sulla resilienza hanno dimostrato (Meringolo et al., 2016) la fiducia nelle proprie competenze e abilità necessita del confronto con le esperienze positive di successo e con quelle negative di fallimento che permettono all’individuo di creare il proprio valore personale e sociale. Gli stili genitoriali ed educativi attuali (Nardone ed Equipe del Centro di Terapia Strategica, 2012) evidenziano da un lato una tendenza iperprotettiva, in cui i figli vengono tenuti al riparo da sofferenze e difficoltà, dall’altro un’aspettativa molto elevata rispetto ai risultati che questi dovrebbero raggiungere. Tale accoppiata risulta molto pericolosa in quanto, mancando l’esperienza di fronteggiamento e superamento delle difficoltà, la strada per il successo rischia di essere percepita come eccessivamente impervia o pericolosa, esponendo al rischio di una reazione rinunciataria.
Spingere i figli ad eccellere e nel contempo proteggerli dagli ostacoli rischia di produrre un paradosso per cui non si costruiscono abilità ma incertezze, non si crea forza ma insicurezza, non si crea valore ma sfiducia. Non a caso in uno dei libri di maggior successo degli ultimi anni si legge: «Se i bambini devono sempre dare il massimo per ottenere qualcosa – buoni voti, premi, o elogi da parte degli insegnanti o dei genitori – allora non arriveranno mai a sviluppare la loro motivazione interna. Essi [i danesi] credono che i bambini fondamentalmente abbiano bisogno dei loro spazi e di fiducia per arrivare a padroneggiare le cose da soli, di farsi dei problemi e risolverli per conto proprio. Ciò dà vita a un’autentica autostima e a una vera resilienza personale che derivano dal sostegno interno del bambino stesso, e non da altri» (Alexander e Sandahl, 2015).
La necessità di coltivare sé stessi andando oltre la pura prestazione è un elemento che caratterizza anche le alte performance. La pratica, lo studio e l’applicazione, indispensabili per ottenere elevati risultati, dovrebbero essere integrati con altre attività per non trasformare la performance in un’ossessione (Nardone e Bartoli, 2019). In definitiva, la competenza tecnica da sola mantiene il senso di autoefficacia, ma è lo sviluppo personale a sostenere l’autostima e il valore di sé.
Tale atteggiamento di cura di sé (nelle relazioni, nell’aspetto, nella conoscenza, nella riflessione) permette di sostenere la capacità di perseguire i risultati desiderati andando oltre il mero successo (o fallimento) contingente. L’autostima non può essere fornita o elargita dagli altri, ma è il frutto dell’esperienza, della dedizione e del confronto con sé e con gli altri. L’esercizio, che non deve essere al riparo di difficoltà, frustrazioni e fallimenti, serve tanto ad allenare la tecnica quanto a rafforzare il carattere.
In questo processo di costruzione e sviluppo di sé ci vengono in aiuto le parole di Catone: «Quello che ti manca chiedilo in prestito a te stesso».
Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è internazionalmente riconosciuto sia per la sua creatività che per il suo rigore metodologico.
Moira Chiodini, psicologa e psicoterapeuta, e docente presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo, è responsabile dello studio clinico affiliato di Firenze dove svolge attività di psicoterapia e consulenza.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Alexander J., Sandahl I. D. (2015), Il metodo danese per crescere figli felici (trad. it.), Newton Compton, Roma.
Brown B. B., Larson J. (2009), «Peer relationships in adolescence». In R. M. Lerner, L. Steinberg (Eds.), Handbook of Adolescent Psychology, 3rd ed., John Wiley & Sons, New York.
Brown J. D., Dutton K. A., Cooke K. E. (2001), «From the top down: Self-esteem and self-evaluation», Cognition and Emotion, 15 (5), 615-631.
Collins W. A., Welsh D. P., Furman W. (2009), «Adolescent romantic relationships», Annual Review of Psychology, 60, 631-652.
Emery L. F., Muise A., Alpert E., Le B. (2015), «Do we look happy? Perceptions of romantic relationship quality on Facebook», Personal Relationships, 22, 1-7.
Meringolo P., Chiodini M., Nardone G. (2016), Che le lacrime diventino perle, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Bartoli S. (2019), Oltre sé stessi. Scienza e arte della performance, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Equipe del Centro di Terapia Strategica (2012), Aiutare i genitori ad aiutare i figli, Ponte alle Grazie, Milano.
Nardone G., Salvini A. (2013), Dizionario internazionale di Psicoterapia, Garzanti, Milano.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 276 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui