Un'insidia per la diversità nei luoghi di lavoro
Nel lavoro come nella vita, il “pregiudizio implicito” inficia il valore positivo delle differenze.
L'anno scorso fece molto scalpore la decisione della nota multinazionale del caffè Starbucks di sottoporre obbligatoriamente 175 000 dipendenti a un addestramento intensivo sulla diversità nei luoghi di lavoro (diversity management). Era solo un esempio del persistente interesse delle organizzazioni su questo tema, che non è isolato, se è vero che la maggior parte delle grandi imprese di successo analizzate annualmente dalla rivista Fortune attua interventi analoghi di sensibilizzazione, formazione e riorganizzazione focalizzati sul diversity management.
Non è ben chiaro se tali iniziative producano risultati duraturi che aiutino a diffondere politiche sensate per governare la crescente eterogeneità della forza lavoro, ormai estremamente differenziata dal punto di vista demografico, linguistico, etnico, religioso, culturale, valoriale, di orientamento sessuale ecc. Del resto, se da un lato si sostiene che la presenza delle diversità rappresenta un fattore positivo per l’organizzazione (più varietà di risorse e competenze, più spinte innovative e creatività, prestazioni migliori), dall’altro molti segnalano l’altra faccia della medaglia: aumento dei costi di coordinamento, crescita tra i lavoratori del sospetto di non essere trattati con giustizia ed equità, aumento dei microconflitti interpersonali, della diffidenza e di contrasti tra gruppi per conseguire o mantenere privilegi, dell’insoddisfazione e del disimpegno.
Un'insidia per la diversità nei luoghi di lavoro - Sarchielli
Perdipiù la gestione delle diversità nei contesti di lavoro, che da molti anni fa parte delle funzioni di un “buon management”, non sempre si presenta come una strategia chiara e ben motivata. In tanti casi, infatti, il diversity management rappresenta un’ideologia di facciata, una sorta di “vetrina di moda” per migliorare la reputazione aziendale o solo per evitare possibili cause legali per discriminazione. Limitandoci comunque alle aziende intelligenti che sono spinte ad affrontare le diversità da intenzioni etiche e da assunzioni di responsabilità sociale, è assai facile notare un’insoddisfazione per gli scarsi risultati ottenuti nei termini di abbassamento dei rischi di discriminazione e intolleranza. Talvolta sono emersi addirittura effetti contrari alle attese: aumento dello stigma sociale verso le persone che sono oggetto di formali azioni positive (donne, migranti, disabili ecc.), con rinforzo di opinioni infondate e sconsiderate del tipo «gli italiani al primo posto».
Gli psicologi hanno più volte segnalato uno dei fattori principali della modesta efficacia dei programmi di diversity management, quasi sempre basati sulla tradizionale trasmissione dall’alto di dichiarazioni e principi egualitari, su lezioni sui comportamenti appropriati o sulla diffusione di minuziose regole e minacce di sanzioni. Ci si riferisce agli effetti pervasivi delle “distorsioni implicite” (implicit bias).
Si tratta di veri e propri pregiudizi e stereotipi non consapevoli contro una persona o un gruppo, di cui si è facile preda nella vita organizzativa quotidiana perché svolgono una funzione di “economia cognitiva”, ossia di semplificazione dei giudizi e dei normali processi decisionali, ma che può diventare molto pericolosa. In questi casi non c’è l’intenzione di trattare le persone in modo scorretto e iniquo (sarebbe non soltanto moralmente sbagliato, ma anche illegale), tuttavia l’implicit bias svolge silenziosamente la sua opera corrosiva minando di fatto la trasparenza e la correttezza delle relazioni lavorative soprattutto nelle fasi di reclutamento, di colloquio di selezione, di assegnazione dei compiti, di valutazione delle carriere, di organizzazione dei team, di distribuzione delle ricompense ecc. Si pensi, per esempio, all’uso involontario di un linguaggio sessista; a come può essere distorto il modo di prestare attenzione e di ascoltare i membri di gruppi sociali svantaggiati o dissimili dal nostro; a come, nel giudicare una persona, si possano privilegiare (in negativo) aspetti superficiali quali il linguaggio, l’accento, il modo di vestire, la “bella presenza”, il genere, o a come si reagisce in automatico e con diffidenza a un cognome straniero, a inconsuete abitudini etniche o religiose ecc.
In che modo ridurre le insidie dell’implicit bias? Gli psicologi stanno stimolando le organizzazioni a passare dalla semplice gestione amministrativa e difensiva delle differenze a una prospettiva di inclusione sociale impostata su più passi: a) il primo è riconoscere la possibilità di essere influenzati dai pregiudizi impliciti e che non ci si può permettere di ignorarli; b) concedersi un po’ più di tempo nelle decisioni (onde ridurre il rischio di conclusioni affrettate e preconcette) e provare a vedere le cose anche nella prospettiva degli altri, considerati sempre come persone e non come membri di categorie sociali; c) insistere non solo sul miglioramento della propria sensibilità individuale verso l’equità e la giustizia collettiva, ma spingere per la creazione di una cultura organizzativa proattiva che permetta l’espressione delle differenze (quindi l’incontro diretto, il dialogo e il confronto) grazie al clima di rispetto e accettazione reciproci; d) coinvolgere i dirigenti nel preservare il valore delle diverse identità culturali anche attraverso modalità di gestione delle risorse umane che siano coerenti con le esigenze di inclusione, a tutto vantaggio delle persone e delle organizzazioni stesse.
Guido Sarchielli è professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna.
Riferimenti bibliografici
Gündemir S., Martin A. E., Homan A. C. (2019), «Understanding diversity ideologies from the target’s perspective: A review and future directions», Frontiers of Psychology,
10 (282), 1-14.
Marcelin J. R., Siraj D. S., Victor R., Kotadia S., Maldonado Y. A.
(2019), «The impact of unconscious bias in healthcare: How to recognize and mitigate it», The Journal of Infectious Diseases, 220, 62-73.
Sabharwal M. (2014), «Is diversity management sufficient? Organizational inclusion to further performance», Public Personnel Management, 43 (2), 197-217.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 278 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui