Il senso di colpa e le sue conturbanti manifestazioni
Come nasce e come si manifesta questo sentimento a volte davvero tormentoso? La ricerca clinica aiuta a far luce anche quando la causa resta oscura.
Non è facile rispondere con una formula semplice alla domanda che cosa sia il senso di colpa e quali siano le sue cause effettive. Una cosa, infatti, è il senso di colpa per la violazione di una norma morale, ed è il tipo certamente più noto e studiato; Freud ne avrebbe parlato come della colpa derivante dal Super-Io (l’istanza punitiva inscritta in ciascuno di noi). Altra cosa invece è il senso di colpa per aver deluso una persona amata o una persona di cui si teme di perdere l’amore. Altra cosa ancora è per lo scarto rispetto all’immagine idealizzata di sé: si manifesta specie nella mezza età, quando si fanno i primi bilanci e si può constatare il fallimento delle proprie aspirazioni di successo. Infine, vi è la sorprendente “colpa” del sopravvissuto, che si manifesta in chi si è miracolosamente salvato da un incidente in cui i più sono morti, o salvato da una tragedia collettiva, come avviene nei reduci dai campi di sterminio. Occorre dunque tener distinte le diverse circostanze in cui un senso di colpa si manifesta.
Inoltre, è vero, tutti, o meglio quasi tutti, conosciamo per esperienza personale il senso di colpa: è qualcosa che proviamo immediatamente. Ma quando cerchiamo di comunicarlo ad altri e di usare le parole appropriate, la cosa è meno ovvia. A volte è confuso con la vergogna, che è un sentimento di carattere sociale: vi si teme piuttosto il giudizio degli altri, mentre il senso di colpa è un travaglio di fronte a sé stessi. A volte poi è confuso con il rimorso: specialmente il confine tra rimorso e senso di colpa è fluido. Occorre dunque concordare su quando è appropriato parlare di senso di colpa.
SUSCETTIBILITÀ AL SENSO DI COLPA
Il senso di colpa si manifesta in maniera diversa da una persona all’altra, pur a parità di situazioni colpevolizzanti. Lo attesta in particolare la clinica psicoterapeutica. Si riscontra più di frequente nel genere femminile, non tanto perché i maschi ne siano meno affetti, ma perché è nota la maggiore disponibilità femminile a parlare delle proprie emozioni. Si presenta significativamente nelle personalità ossessive, che tendono a “ruminare” su ciò che hanno fatto e non dovevano fare, o viceversa che non hanno fatto e dovevano fare; inoltre in soggetti depressi, che possono accusarsi, nelle forme più gravi, di crimini che è impossibile abbiano commesso.
Le ricerche empiriche hanno potuto confermare il suddetto dato clinico di una forte suscettibilità nei soggetti ossessivi: sopraffatti da scrupoli, questi soggetti manifestano particolare tormento a decidersi quando si trovano di fronte a dilemmi morali. Lo si è provato sottoponendoli a questionari consistenti in racconti alla fine dei quali si deve decidere il minor male tra due soluzioni entrambe colpevolizzanti (D’Olimpio e Mancini, 2016; vedi il paragrafo qui sotto "Il dilemma del carrello ferroviario").
Inoltre è stato mostrato che le persone portate all’empatia, all’immedesimazione con chi soffre, sono le più soggette al senso di colpa del sopravvissuto. Il senso di colpa è invece assente nelle personalità psicopatiche o sociopatiche: almeno a livello cosciente, esse appaiono prive di scrupoli e insensibili alla sofferenza provocata ad altri.
Possiamo dire che sarebbe meglio che non ci fosse questo spiacevole sentimento? In altri termini, è per lo più una manifestazione nevrotica? Invero, una certa dose di senso di colpa è auspicabile in ciascuno; identificare invece il senso di colpa con un patologico «universo morboso» (Hesnard, 1949) rischia di essere deresponsabilizzante. Infatti, certo, propriamente è il rimorso che consegue alla presa di coscienza di una malefatta commessa, tuttavia una certa misura di senso di colpa, lungi dall’essere un sovrappiù sempre disfunzionale, dovrebbe comunque accompagnare il rimorso. Il quale, difatti, non è una mera riprovazione intellettuale, bensì normalmente comporta risonanze emotive e pure somatiche tipiche del senso di colpa.
In ogni caso, leader scarsamente sensibili al male fatto subire al prossimo sono decisamente pericolosi per il gruppo che guidano: la storia ce ne fa conoscere molti, soprattutto tra i grandi conquistatori e i dittatori. Purtroppo in vari contesti proprio tale insensibilità favorisce l’ascesa al potere di personalità dal narcisismo grandioso o dalle tendenze paranoidi. Queste personalità, non sopportando il senso di colpa, tendono di regola ad attribuire la responsabilità ad altri: usano in maniera patologica questo meccanismo di proiezione della colpa tipico, per evitare la sofferenza di dover riconoscere le proprie colpe. Inoltre leader di questo tipo spesso sfruttano, o anche inducono spregiudicatamente, fenomeni di proiezione collettiva della colpa: addebitano la causa dei mali che affliggono il gruppo al nemico di turno (le minoranze etniche, gli immigrati ecc.).
ESPRESSIONI CLINICHE SORPRENDENTI
La corrente che in area psicologica si è maggiormente soffermata sul senso di colpa è la psicoanalisi, per la capacità di cogliere i processi oscuri e irrazionali della psiche. Ma è da chiedersi se possiamo parlare di “sensi di colpa inconsci” come si fa in psicoanalisi. Infatti, di primo acchito sembra un ossimoro, un’espressione contraddittoria: se si tratta di un sentimento, cioè qualcosa che immediatamente avverto, come si può dire che c’è anche se non lo sento, se non ne sono consapevole? Piuttosto è da intendersi che inconscio talora è l’oggetto, cioè il fatto a causa del quale ci si sente in colpa. Ma anche quando l’oggetto è noto, l’affermazione di una dimensione inconscia si riferisce a una sproporzione fra un tormento esagerato e la gravità dell’effettiva colpa in questione.
Oltre al menzionato meccanismo proiettivo tipico di personalità paranoidi, tra i fenomeni sorprendenti rilevati nella clinica di orientamento psicoanalitico colpisce l’inversione del rapporto di causa-effetto fra trasgressione e senso di colpa. Già Aichhorn (1925) rilevò la paradossale serenità che provano certi adolescenti dopo aver commesso un crimine: il fatto di commettere il reato, con la punizione che ne consegue, in certo modo risolveva il pregresso tormento interiore, dovuto a un senso di colpa incomprensibile nelle sue cause (verosimilmente correlato a desideri inconsci di tipo aggressivo o anche incestuoso). La trasgressione, ora, scioglie il senso di colpa!
Ancora, la punizione può correlarsi in maniera inattesa a pregressi sensi di colpa nel caso di soggetti vittime di ripetuti e inspiegabili infortuni, come cadute o incidenti stradali: occorre vagliare, in sede di clinica psicopatologica, se queste persone non volessero proprio “andarseli a cercare” a mo’ di punizione.
Un’altra curiosa modalità di esprimere il bisogno di punizione si trova in criminali che, pur scaltri, finiscono col lasciare ingenuamente tracce di sé, quasi a voler farsi scoprire. Raskolnikov, l’intelligente studente protagonista di Delitto e castigo, il capolavoro di Dostoevskij, è un esempio letterario di questo comportamento apparentemente irrazionale. Roso dal senso di colpa per l’omicidio della vecchia strozzina, il giovane si tradisce profondendosi col funzionario di polizia Zamëtov, incontrato occasionalmente, in una perorazione su come lui sarebbe in grado di sfuggire alla giustizia se commettesse un delitto.
L’ATTACCO A SÉ STESSI
Da notare, all’opposto dei meccanismi proiettivi, il conturbante fenomeno di chi si identifica con la colpa altrui: è il caso del bambino e dell’adolescente vittime di violenze o di abusi sessuali. I quali si sentono in colpa come se fossero stati collusivi con l’adulto abusante. Sono eventi più ricorrenti di quanto non si creda, meritevoli di specifica attenzione: possono segnare traumaticamente un’intera esistenza. Questo senso di colpa coincide a volte con un sentirsi irrimediabilmente “sporchi”, immeritevoli di esistere, finendo così con l’attaccare sé stessi, anzi il proprio corpo. Esemplare al proposito è il caso della giovane olandese Noa, salita alla ribalta della cronaca internazionale poiché suicidatasi per fame dopo aver subito plurimi stupri (Fornaro, 2019).
Vi è pure chi interpreta le disgrazie personali come punizione per qualche colpa presunta o reale. A volte lo psico-oncologo, seguendo il malato grave, si sente dire: «Ma che male ho fatto per meritarmi questa disgrazia?», quasi ci fosse un nesso causale tra una presunta malefatta e la malattia. È legittimo pensare che alla base del falso nesso vi sia un irrisolto senso di colpa. In ogni caso, non si vuole accettare la casualità dell’evento doloroso: bisogna trovare a tutti i costi un colpevole, e se non lo si individua in un agente esterno – come accade nel pensiero magico, per cui le malattie sono dovute a “fatture” – lo si trova nella propria storia.
Tuttavia non è detto che si tratti sempre di un falso nesso: poteva non avere tutti i torti la signora che si era fatta una ragione del cancro al seno che l’aveva colpita, ritenendolo la conseguenza dell’aborto di tanti anni prima, nonostante le smentite dell’oncologo circa una diretta connessione causale. Mi spiego.
Il nesso tra senso di colpa e una data patologia organica non è sicuro, finché non si mostreranno i passaggi biologici intermedi; abbiamo però numerosi indizi del concorso, nella genesi di malattie organiche, di persistenti stati emozionali negativi, come depressioni e stress. Tra queste emozioni è annoverabile il senso di colpa, che si fa tormentoso quando deriva dal rimorso per una colpa sentita come grave, ma non adeguatamente affrontata nel pensiero cosciente e nell’azione riparatoria. Del resto, la parola “ri-morso” esprime metaforicamente l’aggressione che si produce su di sé, mente e corpo, fino a suggerirne un concorso nella genesi di patologie.
Infine, è certo compito della clinica psicopatologica lavorare sui sensi di colpa e lenire il tormento immotivato che provocano. Tuttavia non basta, al fine di smentire i falsi nessi con presunte cause, indurre il soggetto a un confronto sistematico con la realtà o sottoporlo a tecniche di disabituazione – come vogliono le terapie rispettivamente di matrice cognitivista e comportamentista. Infatti il senso di colpa, anche se è falsificata la connessione con un dato evento, tende ad agganciarsi ad altri eventi nella misura in cui in certe personalità esso è diventato un modo abituale con cui interpretare le avversità. A meno che il terapeuta non intervenga sulle radici effettive di quel sentimento, spesso non immediatamente evidenti, perché contraffatte dietro ad altri sintomi o mascherate dietro a comportamenti strani. È quanto cercano di fare le terapie a indirizzo psicodinamico.
IL DILEMMA DEL CARRELLO FERROVIARIO
Si tratta di un esperimento mentale ideato dalla filosofa inglese Philippa Ruth Foot, per studiare il comportamento di fronte a dilemmi morali: ambo le soluzioni praticabili provocano danni a qualcuno e pertanto sono entrambe colpevolizzanti. È stato poi usato per ricerche sperimentali in psicologia. Ve ne sono varie versioni, al fine di adattarlo alle finalità della ricerca in cui si intende usarlo. Nella forma classica consiste in un racconto in cui il protagonista è posto casualmente nei pressi di un deviatoio di binari ferroviari: un carrello in corsa e privo di freni è diretto sul binario in cui sono legate cinque persone, senza che esse possano muoversi. Il protagonista, manovrando il deviatoio, potrebbe deviare il carrello sull’altro binario, in cui invece è legata una sola persona. Ebbene, viene chiesto al soggetto sottoposto all’esperimento, se nei panni del protagonista, che non può altrimenti intervenire, lascerebbe il carrello al suo destino con la conseguente morte di cinque persone; oppure se manovrerebbe il deviatoio per indirizzare il carrello sul binario in cui c’è una sola persona, provocandone così volontariamente la morte. Una delle tante varianti introdotte prevede che l’unico modo per salvare le cinque persone sarebbe quello di spingere sui binari un uomo, molto grosso e criminale, che bloccherebbe col suo corpo la corsa del carrello.
LA SVOLTA TEORICA
Nella classica formulazione psicoanalitica si insiste sull’idea che il senso di colpa sia per lo più la conseguenza delle pulsioni aggressive e pure incestuose in qualche misura presenti in tutti: anche quando sono censurate, esse svolgono un ruolo attivo nella psiche inconscia, dove peraltro non sono distinte da azioni reali. Pertanto gli inconfessabili desideri di morte per qualcuno, tanto più colpevolizzanti quanto più sono rivolti a familiari altrimenti amati, si traducono in sedimentati sensi di colpa: di essi il soggetto ignora il più delle volte la fonte. Le correnti “relazionali” e psico-sociali, sviluppatesi negli ultimi decenni, superando il pulsionalismo freudiano insistono sul carattere bilaterale della relazione affettiva tra il bambino e i caregiver, o anche sul carattere “sistemico” (per cui il comportamento del singolo non è che l’effetto della peculiare strutturazione della famiglia cui appartiene). È così che nelle relazioni con le figure parentali si genera il senso di colpa, rispettivamente come inadeguatezza del giovane rispetto alle aspettative parentali, o come sorta di capro espiatorio designato nel contesto delle dinamiche disturbate del sistema famiglia.
Pertanto in questi recenti orientamenti il senso di colpa nasce non tanto da trasgressioni anche solo fantasticate, quanto dall’insufficienza rispetto alle aspirazioni grandiose, inculcate nei giovani dai desideri di tipo narcisistico provenienti dall’ambiente famigliare e anche dall’ambiente sociale. Va notato che in tal modo il senso di colpa si assimila al sentimento di vergogna, che sorge appunto in rapporto alle aspettative degli altri; d’altra parte, questa assimilazione segnala quanto l’idea di senso di colpa possa essere influenzata dai caratteri spiccatamente “narcisisti” della nostra società (si pensi anche solo ai selfie da mettere sui social).
Mauro Fornaro, ordinario di Psicologia dinamica all’Università di Chieti-Pescara, è psicologo e psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico e ha al suo attivo oltre un centinaio di pubblicazioni.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Aichhorn A. (1925), Gioventù disadattata (trad. it.), Città Nuova, Roma, 1978.
D’Olimpio F., Mancini F. (2016), «“Don’t play God!” Is inaction preference linked to obsessive-compulsive
characteristics?», Clinical Neuropsychiatry, 13 (6), 122-129.
Fornaro M. (2019), «Morire di fame per uno stupro. Il caso Noa», Psicologia contemporanea, online, 30 giugno, http://www.psicologiacontemporanea.it/blog/morire-di-fame-uno-stupro-il-caso-noa/
Hesnard P. (1949), L’univers morbide de la faute, PUF, Paris.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 284 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui