Andrea Castiello D'Antonio

Manager in terapia

Spesso, quando si rivolge alla psicoterapia, il manager pretende quella prestazione immediata che lui stesso è abituato a sentirsi chiedere. 

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Una categoria speciale di persone che si rivolgono allo psicoterapeuta è rappresentata dai manager e dai professionisti di alto livello che operano nelle organizzazioni e nelle istituzioni. Si tratta di persone abituate a trascorrere la loro vita in un ambiente competitivo, in scenari tumultuosi e imprevedibili, muovendosi con rapidità e assumendo elevati rischi gestionali inerenti al business e all’area tecnico-professionale. Risorse – secondo la terminologia organizzativa, “risorse umane” – certamente preziose, che costano molto alle imprese e che sono oggetto di richieste pressanti, sfidanti, tendenzialmente sempre al limite delle loro possibilità.

Fenomeni come il workaholism e il distress organizzativo sono diffusi in questa categoria di persone che “non si fermano mai”, soprattutto se vivono nei contesti multinazionali in cui il sole non tramonta mai e si dev’essere connessi 24 ore al giorno. È dunque comprensibile che alcuni di questi individui sentano, in una fase della loro vita, la necessità di richiedere un aiuto esperto o almeno di confrontarsi con un “soggetto terzo” che non sia un familiare, un collega o un amico. Peraltro, molti soggetti che vivono questo genere di vita sono abbastanza isolati, oppure, anche se circondati da persone nell’ambito lavorativo e fuori, tendono ad essere diffidenti e a non volersi esporre, per timore di mostrare le loro fragilità.

 DANZANDO SULL'ORLO DI UN BURRONE 

Manager in crisi? Potrebbe sembrare una contraddizione in termini se si avesse in mente il manager macho “tutto d’un pezzo”, alla John Wayne, o la donna tipo Wonder Woman, che non devono chiedere mai... In realtà, queste figure sono, appunto, figure di scena, al cui interno rimane (fortunatamente) l’essere umano che e a volte riesce a sentire il bisogno e la legittimità di chiedere un aiuto. Ma è da notare che proprio la decisione di richiedere un aiuto rappresenta un passo assai difficile per queste persone, che vedono la loro vita sotto il profilo delle alte prestazioni, dell’essere performanti, del posizionarsi in alto e al centro delle strutture, del governare e decidere per altri; senza contare la pressione della competizione interna, prim’ancora di quella con i soggetti esterni.

La dimensione sovranazionale e la velocizzazione che caratterizza il mondo del lavoro esposto ai mercati portano i manager e i professional a fare sempre di più e meglio, utilizzando risorse limitate e muovendosi in modo fortemente finalizzato, orientato al conseguimento dei risultati: in contesti aziendali del genere, l’MBO (Management By Objectives), la “direzione per obiettivi”, è regola di vita.

L’occasione che spinge il manager e il professionista sovra-ingaggiato nel lavoro a ricercare un aiuto psicologico è, fin troppo spesso, il verificarsi di un evento eclatante e traumatico di genere psicofisico, oppure la sensazione di essersi spinti troppo avanti, senza avere la possibilità di fermarsi, né di tornare indietro, come se si stesse danzando sull’orlo di un burrone. Anche se non è facile per la persona fermarsi a cogliere tali segnali e riflettervi sopra al fine di capirne il significato (capita, infatti, che la persona resti intrappolata nel vortice delle cose da fare, come fosse una macchina da guerra che deve macinare lavoro), segnali come l’esaurimento delle forze, l’ansietà e l’insonnia, la depressione e le paure improvvise, il senso di non farcela a sopportare altre incombenze fanno capire che è il momento di agire, ma di agire per se stessi, non per l’organizzazione, né di portare a casa i risultati di produttività.

 STEREOTIPO DEL MANAGER IN CIRSI 

Talvolta i medici sottovalutano queste situazioni: ciò che una volta era etichettato come “esaurimento nervoso” oggi va sotto il nome generico e confusivo di “stress”. E di fronte a situazioni di forte disagio psicologico, lo stesso manager può orientarsi verso la pseudo-soluzione rappresentata dal solo ricorso a psicofarmaci. La proposta psicofarmacologica che è presentata al “manager stressato” è una proposta subdola perché si rivolge a una persona che, tipicamente, va alla ricerca di soluzioni pratiche e immediate, spesso con un limitato desiderio di mettersi in discussione o di impegnarsi in un percorso di rivisitazione della propria modalità d’essere. Per una persona che ricerca la risoluzione del genere “tutto e subito” l’idea di poter risolvere il proprio momento di crisi soltanto con una cura medica è particolarmente affascinante. Non che di un supporto psicofarmacologico non vi sia talvolta necessità, ma che questo debba per forza rappresentare la risposta esclusiva alle difficoltà del manager è cosa ben diversa e discutibile.

La medicalizzazione del disagio mentale avviene soprattutto in situazioni e territori sociali arretrati o culturalmente poveri e banalizzanti in cui, ancora oggi, la psicologia sembra non esistere e l’unico consiglio che si riesce a dare è quello di ricorrere alle pillole o, tutt’al più, di prendersi una vacanza… Il tentativo di sfuggire a un reale confronto con se stessi può assumere anche altre forme, come quelle dell’auto-cura, del fai-da-te, anche perché non va trascurato il fatto che la maggior parte delle persone che si rivolgono infine a un aiuto psicologico si trovano in una sorta di vuoto esistenziale e sociale, collocate in situazioni nelle quali il semplice scambio di idee, il confronto e il dialogo appaiono molto limitati (al di là di apparenze sociali).

Ma quel che conta in questo quadro globale è rappresentato da un elemento positivo, e cioè che la persona in crisi si renda conto della propria situazione, non ricorra alla negazione, non faccia finta di nulla, non attribuisca le proprie difficoltà psicologiche al caso e decida di prendere sul serio i sintomi di cui fa esperienza. Pur rischiando di delineare una sorta di stereotipo del manager in crisi e del professional superimpegnato, si deve dire che queste persone sono spesso caratterizzate da atteggiamenti pragmatici, velocità nel visualizzare previsionalmente i risultati, pensiero lineare del genere causa-effetto, attesa della prescrizione dallo psicoterapeuta – “Mi dica lei cosa devo fare!” – sensibilità al rapporto costi/benefici e urgenza di vedere il problema risolto.

Tale impostazione mentale tende a riversarsi anche nella ricerca delle modalità e delle tipologie di aiuto che si intendono individuare: chi ha esperienza di questo genere di (potenziali) pazienti sa bene che nel corso dei primi colloqui è posta dal cliente una lunga serie di domande finalizzate a capire nel modo più preciso e concreto che cosa si prospetta di fare.
Una sorta di “programma terapeutico” di cui il manager in crisi sente necessità di prendere subito cognizione, anche perché un ulteriore elemento della sua personale psicologia è rappresentato dall’orientamento al controllo. L’atteggiamento sbrigativo che si può individuare fin dai primi colloqui, con richieste del genere “Mi assicura di essere capace di darmi ciò che mi aspetto?” e “In quanto tempo ne uscirò fuori?”, è sostenuto da richieste che vanno dal desiderio generico di saper gestire lo stress a quello di risolvere un problema particolare come l’insonnia, o la difficoltà di concentrazione, o prestazioni specifiche come il parlare in pubblico.

 PERPLESSITÀ SULLA TALKING CURE 

II contatto iniziale con il manager in crisi può rivelare molto della persona, compresi la sua disponibilità autentica a intraprendere un cammino psicoterapeutico e il rischio di drop-out (Castiello d’Antonio, 2008).
In questa fase delicata la persona può sentirsi a disagio, scambiando la necessità di comprendere il suo stato con l’esser messa sotto esame, o pensando di stare perdendo tempo con test psicologici e domande sulla storia familiare perché non si entra subito nel merito delle questioni (Castiello d’Antonio, 2014). Come funziona la psicoterapia? In che modo una persona cambia ponendosi in relazione con il terapeuta e parlando di sé? Qual è la terapia migliore o quella più adatta alle necessità specifiche di ognuno? A queste domande – classiche, ma sempre vive e attive nella mente di chiunque si affacci al mondo della talking cure – il paziente-manager pretende una risposta netta e incontrovertibile: spesso pretende di sapere prima di capire! Attese e pretese continuano nel corso della psicoterapia e sovente prendono la forma delle difese psicologiche ben note ai clinici (Freud, 1936).

Il timore diffuso in tale genere di pazienti è proprio quello di “mettersi nelle mani di uno sconosciuto”, restando privi del necessario controllo sul come e il dove si sta andando: soprattutto se il clinico è restio a indicare un piano terapeutico preciso, per esempio proponendo una delle diverse forme di psicoterapia breve, oppure puntando su approcci che enfatizzano l’aspetto del coaching e dell’addestramento collegati a elementi di realtà immediatamente visibili. La proposta di psicoterapie dinamiche di media/ lunga durata, apparentemente prive di indicazioni finalizzate e senza limiti temporali prestabiliti (Marchioro, 2013), può essere recepita in modo meno favorevole rispetto a quella degli orientamenti cognitivi, cognitivo-comportamentali e comportamentisti, mentre numerose altre scuole di psicoterapia si collocano, da questo punto di vista, in una posizione intermedia.

 TRE REGOLE CONTRO LO STRESS DA LAVORO 

Una delle attenzioni meno praticate dai manager in condizione cronica di stress è rivolta alla propria stessa salute non solo psicologica, ma proprio psico-fisica. Ecco 3 regole da poter seguire per almeno contenere la tensione da lavoro

1. Evitare la vita sedentaria (il che non significa fare improvvisamente sport agonistico, né misurarsi con prove d’eccellenza!), muovendosi ogni volta che si può, possibilmente all’aria aperta, in contesti in cui i colori verde e celeste siano predominanti.

2. Conservarsi del tempo per riflettere, ritagliandosi momenti di silenzio e solitudine in cui lasciar vagare la mente, pensare alle positive realizzazioni extra-lavoro conseguite nella propria vita, congratularsi con se stessi per il cammino percorso.

3. Prestare attenzione al ritmo sonno-veglia e all’alimentazione: preservare il proprio momento di “recupero” notturno è un’arte che spesso si dimentica. Così, evitare di ingurgitare il cibo nei momenti meno adatti (cioè quando l’energia che si assume alimentandosi non si consuma) è una regola di buon senso che, pure, spesso si dimentica nel turbinio della vita di lavoro.

 IL SALTO DALLA MENTE AL CORPO

Il compito del clinico, di qualunque orientamento sia, sarà dunque quello di saper bilanciare il giusto grado di rassicurazione con il mantenimento di una struttura sufficientemente aperta atta a esplorare realmente la situazione psicologica, psicosociale e psicofisica della persona: circa questo terzo aspetto non va infatti dimenticato che lo stile di vita dei manager e dei professional superimpegnati comporta spesso vari e diversi disagi che si riverberano in situazioni psicosomatiche, attuando quel «misterioso salto dalla mente al corpo» che ogni terapeuta dovrebbe ben conoscere nei suoi meccanismi di base (Deutsch, 1959). Ma un fattore specifico inerente alle competenze dello psicoterapeuta è costituito dalla conoscenza e competenza professionale in relazione a ciò che accade nel mondo del lavoro e, specificamente, nelle relazioni organizzative, riuscendo egli così a comprendere il contesto nel quale si muove il suo paziente e le caratteristiche delle dinamiche organizzative in cui è coinvolto.

In sostanza, appare necessario avere competenze di psicologia delle organizzazioni, sulla base delle quali visualizzare e capire le dinamiche socio-organizzative nelle loro dimensioni fisiologiche ed eventualmente patologiche. Privo di tale competenza specifica sugli aspetti meno visibili del mondo del lavoro, il terapeuta può cadere facilmente in errori di valutazione: primo fra tutti quello di considerare il proprio paziente-manager avulso dal contesto organizzativo in cui vive, vedendo in lui, e solo in lui, la causa dei suoi disagi. Ciò significa comprendere le psicopatologie organizzative (Kets de Vries e Miller, 1984) non meno di quelle individuali (Castiello d’Antonio, 2013), tenendo ben presente che il manager è, come tutti, un essere vivente «a razionalità limitata», che vive in un mondo del lavoro solo apparentemente razionale (Kets de Vries, 1999).

Andrea Castiello d’Antonio, psicoterapeuta e psicologo delle organizzazioni, già professore straordinario all’Università Europea di Roma, ha pubblicato 20 volumi e circa 200 articoli scientifici e divulgativi in varie aree applicative della psicologia.


Riferimenti bibliografici

Castiello d’antonio A. (2008), «“…Non me lo posso permettere…”. Note sull’abbandono a N = 1», Il Ruolo Terapeutico, 107, 106-110.
Castiello d’antonio A. (2013), L’assessment delle qualità manageriali e della leadership. La valutazione psicologica delle competenze nei ruoli di responsabilità organizzativa, Franco Angeli, Milano. Castiello d’antonio A. (2014), «Inizio cura, mai», Psicologia Contemporanea, 245, 44-48.
Castiello d’antonio a., d’ambrosio marri L. (2017), Risorse umane e disumane. Come vivere oggi sul Pianeta R.U., Giunti O.S. Psychometrics, Firenze.
Deutsch F. (a cura di, 1959), Il “misterioso salto” dalla mente al corpo (trad. it.), Giunti, Firenze, 1975.
Freud A. (1936), L’Io e i meccanismi di difesa (trad. it.), Giunti, Firenze, 1967.
Kets de Vries M. F. R. (1999), L’organizzazione irrazionale (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
Kets de Vries m. F. r., miller D. (1984), L’organizzazione nevrotica. Una diagnosi in profondità dei disturbi e delle patologie del comportamento organizzativo (trad. it.), Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992.
Marchioro F. (2013), «Fine cura, mai? Se e come termina un’analisi», Psicologia Contemporanea, 236, 56-61.

Questo articolo è di ed è presente nel numero 265 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui