Spesso, per primeggiare nell'ambiente lavorativo, ci sforziamo di mostrare i nostri lati migliori. Tutto bene, a patto di non attirarci l'invidia dei colleghi o di non millantare qualità che non abbiamo.
«Loretta non fa altro che sgomitare... è piena di sé e non perde occasione per mostrarlo. Anche ieri con il capufficio sembrava che ci fosse solo lei e che i meriti del buon lavoro che abbiamo fatto tutti insieme fossero solo suoi. Con i superiori fa sempre la simpatica, ma è una furba... si presenta tutta tirata, in perfetto ordine e fa di tutto per sembrare sempre d'accordo e fare un'ottima impressione. Così fioccano i complimenti e anche le sue valutazioni di fine anno sono sempre positive. Questa situazione comincia a darmi fastidio anche perché in pratica Loretta lavora come noi, anzi forse anche un po' meno, ma non se ne accorge nessuno... C'è Qualcosa che non torna e questo comportamento un po' falso mi piace poco».
Cercare di presentarsi al meglio nei contesti lavorativi costituisce un modo comune per impostare e regolare relazioni significative con colleghi, collaboratori e superiori. Non c’è nulla di male a mettere in luce aspetti positivi di sé, a cercare di mostrare bene ciò che si sa fare, di trovare un proprio spazio per mettere a frutto i propri talenti. Del resto, le spinte organizzative a essere sempre più proattivi, ad assumersi delle responsabilità rispetto al lavoro, a coinvolgersi anche affettivamente con l’organizzazione facilitano gli sforzi personali di costruire un’immagine di sé positiva. Si è visto che riuscire a farlo bene può avere effetti favorevoli al momento della selezione o quando, dopo essere stati assunti, una buona reputazione può influenzare le valutazioni sul lavoro, le ricompense, le promozioni e gli sviluppi professionali.
Il problema nasce quando, come nell’esempio riportato, la presentazione di sé rischia di essere esagerata, invadente e viene percepita come inautentica, finalizzata a ricavare indebiti vantaggi reali o percepiti, determinando conseguenze spiacevoli sull’ambiente di lavoro. Questo tipo di questioni fa parte di una linea di ricerca psicosociale sull’impression management (gestione delle impressioni) che ha identificato differenti tattiche, usate dalle persone in modo onesto oppure ingannevole, per mostrarsi in pubblico nelle situazioni lavorative.
Le due principali tattiche sono quelle di valorizzazione di sé (esaltare gli aspetti positivi per autopromuoversi, per dare di sé un’immagine di superiorità, per cercare di ingraziarsi il capo con lodi o conformandosi al suo punto di vita per compiacerlo) e quelle difensive (scusarsi, cercare giustificazioni, dare la colpa a qualcun altro ecc.). Entrambe possono essere giustificate fino a quando non diventano distorsioni intenzionali della propria immagine e della propria esperienza lavorativa, che con grande probabilità interferiscono sulla qualità delle relazioni di lavoro in un ufficio o in un reparto.
Cosa sta alla base di una gestione più o meno accurata dell’immagine e della presentazione di sé? Si è visto che la tendenza a usare le diverse tattiche di gestione della propria immagine di sé nei contesti di lavoro è più forte quando la persona sente di dipendere da qualcuno (in genere, il capo) per ottenere un risultato desiderato; quando tale risultato è molto importante e si fa di tutto per ottenerlo; quando ci si rende conto che, essendo valutati in modo non positivo, occorre cercare di ingraziarsi qualcuno per avere il suo sostegno o di enfatizzare al massimo le competenze possedute per sperare di modificare la situazione. Dunque ci sono dei validi motivi per regolare bene la propria immagine di sé, sapendo però che si possono anche correre dei rischi. Per esempio, un’immagine di sé che intendeva esaltare un po’ troppo gli aspetti della simpatia, della competenza, della dedizione o anche della forza d’animo può, agli occhi degli interlocutori, trasformarsi nel suo contrario ed essere accolta come quella di un lacchè, sbruffone, ipocrita o prepotente. È il cosiddetto “paradosso del promotore”, che si verifica quando una persona, esaltando in eccesso le proprie qualità, attiva invece nell’interlocutore il dubbio di trovarsi di fronte a un venditore di fumo. Non solo: soprattutto con il persistere di queste modalità di interazione nell’ambiente di lavoro, possono innescarsi reazioni di allarme e sospetto che inquinano le relazioni professionali riducendo i livelli di fiducia reciproca. Se si pensa poi a una situazione di selezione, la percezione dell’intervistatore di trovarsi di fronte a un comportamento troppo artefatto (e a rischio di inganno) dell’intervistato potrà spingere a un risultato opposto rispetto a quello desiderato.
Al riguardo vi sono ricerche psicosociali che sottolineano come una presentazione di sé che non voglia correre il rischio di inflazione (e di sospetto di inganno) dovrebbe essere mantenuta a un ragionevole livello di accuratezza e di credibilità delle caratteristiche e degli attributi autodescritti. Ciò comporta la necessità di essere sempre consapevoli degli effetti positivi e di quelli controproducenti del proprio modo di presentarsi. Le persone che sviluppano tale capacità di automonitoraggio (attenzione a cogliere i segnali della situazione che richiedono aggiustamenti nella propria immagine di sé) e che riconoscono il valore dell’autenticità nei rapporti di lavoro possono usare in modo appropriato anche le varie strategie di autopresentazione. Ciò significa in particolare:
a. valorizzare le qualità e le competenze avute comunicandole agli altri in modo genuino;
b. rendersi conto che in gran parte delle situazioni di lavoro è importante essere molto sobri nelle autodescrizioni, appunto per non suscitare impressioni distorte negli altri o addirittura rischi per il benessere collettivo (per esempio, quando in un’attività pericolosa si è fatto credere di essere più competenti di quello che si è davvero).
Guido Sarchielli è professore a contratto di Psicologia del lavoro nell’Università di Bologna.
Riferimenti bibliografici
Bolino M., Long L., Turnley W. (2016), «Impression management in organizations: Critical questions, answers, and areas for future research», Annual Review of Organizational Psychology, 3, 377-406.
Law S. J., Bourdage J., O’Neill T. A. (2016), «To fake or not to fake: Antecedents of interview faking, warning instructions, and its impact on applicant reactions», Frontiers in Psychology, 7, 1-13.
Questo articolo è di ed è presente nel numero 261 della rivista. Consulta la pagina dedicata alla rivista per trovare gli altri articoli presenti in questo numero. Clicca qui